Luigi Mazzarelli
Una teoría del trauma
La cattiva coscienza della storia dell’arte sarda
Montecristo Project
2020
I
Quando ci siamo trovati a studiare la storia e la vita di Luigi Mazzarelli, un artista di cui conoscevamo il nome per via della sua partecipazione ai movimenti di avanguardia nella Cagliari del dopoguerra, ci sono stati diversi segnali che ci hanno immediatamente spinti a volerne sapere di più.
Non immaginavamo nemmeno che un artista così potesse esser vissuto in Sardegna ed avesse lasciato in forma scritta idee tanto radicali e opere come il Libro Bianco.
Probabilmente il primo aspetto a sorprenderci è stata la densità dei concetti espressi nei suoi scritti sull’arte, la prima sua produzione con cui siamo entrati in contatto in rete nei pochi stralci pubblicati dai suoi amici ed ex studenti.
Questo genere di scritti rappresenta un unicum sul piano della capacità di comprensione degli accadimenti storico-artistici internazionali, delle relative implicazioni filosofiche e linguistiche.
Nessun altro artista sardo ha prodotto nulla di simile e, ci viene naturale dirlo, nessun altro avrebbe potuto. E’ difficile ritrovare la stessa capacità analitica, lucidità e rigore. Non ultimo, è importante dirlo, lo stesso coraggio.
A quarant’anni dalla prima stesura del suo “Alla ricerca della forma perduta” ci troviamo ancora e nuovamente allo stesso punto; le parole che ha scritto lui allora, le condividiamo noi oggi, separati da un lasso di tempo in cui nulla sembra cambiato.
E’ stato impossibile non rimanere colpiti dal rigore con cui Luigi Mazzarelli ha analizzato la propria epoca e la propria ricerca. Questo rigore assoluto e la ricerca di un’unità ormai impossibile tra arte e vita costituiscono l’eredità più viva e preziosa di Mazzarelli. E lo sono anche la tensione verso l’opera totale, verso la dialettica costante, la conciliazione cosmologica di opposti reali e presunti.
Il nostro lavoro di scavo nella sua ricerca vuole essere prima di tutto un omaggio all’artista e all’uomo; vorrebbe poi far emergere quella breccia, quella crepa che le sue idee avrebbero dovuto aprire anni fa.
Fare questo, a 14 anni di distanza dalla sua morte, è come riaprire una ferita che si pensava chiusa, cicatrizzata dal silenzio e dalla dimenticanza, da tutto ciò che sui numerosi temi da lui sollevati non si è detto o discusso.
II
Esistono personaggi che nella storia collettiva diventano vittima di rimozione, oggetto di una forma problematica di memoria che preferisce negare e appunto rimuovere per garantire il proprio stesso equilibrio.
La figura di Luigi Mazzarelli, nel panorama sardo, rappresenta questa forma di contenuto problematico, di evento traumatico e lacerante più semplice da ignorare e rimuovere che da accettare e comprendere.
È significativo che l’oggetto di questo oblio sia una figura generosa e coerente, che si è spesa per il dialogo e nel tentativo di creare comunità.
E’ importante però tenere presente che Luigi Mazzarelli rappresenta il lato più radicale e problematico della storia dell’arte sarda: cercare di ammetterlo nella narrazione attuale che si fa dell’arte in Sardegna nel secondo Novecento significa ridimensionare e ricollocare in un solo colpo quasi tutte le altre figure che l’hanno abitata e segnata.
Accettare le conclusioni e le proposte di Mazzarelli significa infatti mettere in discussione anni e anni di proposte critiche, di letture storiche, di pubblicazioni e di mostre in Sardegna.
Vuol dire essere capaci, come lui stesso ha fatto, di mettere in dubbio tutto quanto è stato fatto e, se necessario, rifiutarlo e distruggerlo per ripartire.
Non è quindi un caso che la sua opera (da lui in gran parte distrutta in due “roghi d’artista”) ed i suoi scritti siano un fantasma che aleggia su tutto il Novecento sardo e non solo.
Parliamo di un fantasma perché di Mazzarelli è difficile trovare traccia tra le pubblicazioni più prestigiose o nei musei sardi, ma anche semplicemente su internet, se escludiamo alcuni omaggi a lui dedicati da amici ed allievi - Per quanto si trova tra musei e pubblicazioni: si tratta di opere che l’artista ha consapevolmente rifiutato, non la sua ricerca artistica più lucida e matura.
Quest’atto di rimozione non è casuale, non siamo davanti a una figura defilata o marginale nel panorama artistico regionale: Mazzarelli ha attraversato attivamente tutte quelle fasi che hanno segnato socialmente, artisticamente e politicamente la Sardegna dalla fine degli anni ‘50: dal Gruppo di Iniziativa e la relativa militanza politica manifesta nelle opere alle ricerche percettive dell’Optical successive. E tuttavia non è affatto questa la dimensione importante di Luigi Mazzarelli, ma il fatto che egli, di queste esperienze, sia stato anche il più feroce critico, l’unico che tra gli artisti dell’avanguardia sarda ha avuto il coraggio di mettere in discussione tutto questo e spostare la sua ricerca verso quei territori che sembravano storicamente e linguisticamente terra bruciata, dopo le avanguardie storiche.
Nella produzione scritta e visiva di Luigi Mazzarelli ricorrono frequentemente riferimenti espliciti ed impliciti a una forma di “teoria del trauma”: gesti, termini, concezioni temporali che ci possono avvicinare a una lettura analitica ed esistenziale del suo rapporto con l’arte e con il mondo.
Questa stessa prospettiva può inoltre gettare luce sul rapporto che il mondo artistico sardo ha instaurato, prima e dopo la scomparsa dell’artista, con la sua opera e con il proprio sviluppo storico.
Parliamo in fondo di una storia che non è ancora scritta, che si sta definendo e ridefinendo, di cui non siamo per ora in grado di leggere gli orizzonti in quanto ci lambiscono troppo direttamente. Idealmente infatti si vorrebbe sempre un buon osservatore storico distante e distaccato dal suo oggetto di indagine; questa forma di lettura della storia e dello storico non si addice però al nostro scopo, come non si addice alla critica portata dal 1970 in avanti da Mazzarelli alla storia dell’arte, alla società, alla storia appunto. Nel modello di temporalità di matrice Benjaminiana cara a Mazzarelli, passato, futuro e presente sono forze che interagiscono continuamente originando dei centri di attrazione; non possiamo mai dirci immuni dall’attrazione di queste correnti e dal loro continuo dare forma e senso in quanto è il rapporto stesso con la storia a metterci al centro di un nuovo vortice, di un nuovo punto originario.
Prima di iniziare a disporre gli elementi sul piano della nostra narrazione è importante chiarire alcuni aspetti: l’esistenza e la ricerca di Mazzarelli sono stati, come emerge dai suoi scritti e dai suoi gesti, inestricabilmente legate; questo significa che anche le meditazioni apparentemente più astratte, puramente analitiche e tecniche si legano a un percorso che rivendica continuamente la necessità espressiva, la capacità del linguaggio aniconico di farsi carico delle istanze espressive anche più elementari e pregnanti. La ricerca dell’artista si riversa sulla sua esistenza e viceversa; se questo aspetto può apparire scontato, si rivela fondamentale quando teniamo conto della portata dei suoi gesti, perché il pensiero e l’azione sull’opera non è mai solo parte di un sistema di riferimenti astratto, ma ha conseguenze reali, che dilagano e invadono la sfera dell’esistenza.
Un esempio molto semplice è questo: nel 1970 avvengono due roghi, uno celebre e l’altro meno: l’artista John Baldessarri brucia le proprie opere pittoriche realizzate fino a quel momento con uno stile prossimo all’espressionismo astratto, le fa in realtà cremare e trasforma successivamente le ceneri in biscotti che a loro volta si configurano come opera. Nello stesso anno Luigi Mazzarelli, nel suo studio di via Santa Croce a Cagliari brucia tutte le sue opere realizzate fino a quel momento. Non si tratta del tentativo di realizzare un’opera a partire dalla spettacolarizzazione della distruzione, o di un tentativo di smaterializzazione concettualizzante. Mazzarelli distrugge quindici anni di lavori che vanno dalle prime prove di carattere accademico fino alle ultime sperimentazioni in campo optical-cinetico, l’attraversamento di tutte quelle tappe linguistiche (impressionismo, post-impressionismo, realismo sociale, espressionismo etc) che hanno caratterizzato il XX secolo e che costituiscono ancora la formazione linguistica e tecnica di chiunque si affacci allo studio dell’arte visiva. Per Mazzarelli il rogo non si confina in un’azione senza conseguenze reali, ma coincide con il primo dei termini di carattere traumatico che ricorrono nella sua scrittura: l’afasia. In Baldessarri la distruzione si configura come un’azione documentabile e che scaturisce ironicamente in una nuova forma; questo tipo di leggerezza ironica tipica dell’artista californiano non fa parte del medesimo gesto compiuto da Mazzarelli. Bruciare ogni traccia delle sue fasi di attraversamento linguistico significa impedirsi un ritorno, rifiutare categoricamente di assumere come terreno di sfida un campo già drenato ed esausto, quel deserto che sarà al centro delle sue speculazioni da questo momento in avanti.
Se in Baldessarri la distruzione scaturisce in un nuovo gioco linguistico, meta-artistico, in Mazzarelli si risolve in una distruzione reale che assume la radicalità del gesto come un confine da cui allontanarsi, non in cui rientrare con un’agile giravolta. La distruzione delle opere, prima ancora di entrare nella sfera della ricerca artistica, è un gesto umano radicale, per molti aspetti necessario, certamente sofferto ed estremo.
Questo è un aspetto per noi fondamentale, ossia il duplice valore (artistico ed esistenziale) di ogni gesto, segno, discorso dell’artista e che ritroveremo tornando al nucleo di questo testo: Mazzarelli è la cesura, il trauma che ancora deve manifestarsi per l’arte del novecento sardo, e lo è in quanto la sua sua stessa ricerca e vita sono attraversate da una radicalità che possiamo definire come cesura traumatica.
III
Fenomenologia dell’impotenza creativa
Secondo la concezione di Mazzarelli, in accordo con le idee che informano e ispirano i suoi scritti, non possiamo rifarci a un modello storico progressivo, lineare, ma è necessario comprendere i processi storici in un’ottica differente. E’ necessario applicare delle idee puramente spaziali e pittoriche al nostro modello storico ideale, per consentirci di riallacciare i fili di un discorso che riporti l’arte a un livello assoluto, a un’aspirazione alla totalità. Lo svolgersi storico diventa leggibile solo nel momento in cui lo prendiamo in considerazione in termini frammentari, come emergenza sintomale di immagini, configurazioni, necessità proiettive del presente. Negli scritti di Mazzarelli (sul filo delle idee espresse da W. Benjamin) la storia è il dispiegarsi di un panorama in continuo collasso che nell’era del capitale giunge a un’accelerazione improvvisa; nell’arte come nella cultura in generale si raggiunge un orizzonte puramente negativo. Al collasso del reale corrisponde quindi uno sgretolamento del significato, motivo per cui i concetti non hanno più la funzione di esprimere dialetticamente la realtà, ma quello di frammentarla, di farci entrare in una dimensione discontinua e mai risolutiva del rapporto tra uomo e mondo.
Mazzarelli riprende da Hegel la formulazione del concetto di morte dell’arte, ossia il sistematico processo di esaurimento dell’arte come espressione del sentimento e della fantasia. Questa morte, il cui decorso origina dall’età romantica, è determinata da una forma di massima autoriflessione ed autocoscienza artistica che ha portato le avanguardie storiche ad esaurire il repertorio del linguaggio, portandolo a un grado zero in cui questo non è più collegato al mondo e al soggetto.
Questo aspetto funerario, ricollegato storicamente alla nascita dell’estetica e dunque a un’arte che non si esprime più come spontaneità, ma in termini di autocoscienza, culmina nel percorso linguistico rapidamente bruciato e dilapidato nei primi vent’anni del XX
secolo. Culmina secondo Mazzarelli in particolare nel “Quadrato bianco su fondo bianco” di Malevic.
Se le avanguardie hanno però sottoposto a tortura il linguaggio pittorico, svuotandolo, martirizzandolo e bruciandolo come i santi nei dipinti antichi, Mazzarelli si rende conto
della presa che i linguaggi concreti, strutturalisti, espressionisti o analitici di matrice ontologica hanno avuto sugli artisti della sua generazione in Sardegna. Il rogo del 1970 scaturisce dalla presa di coscienza dell’omologazione definitiva che marchia a fuoco tutte le correnti del Novecento: lo stesso Mazzarelli si rende conto che il passo successivo alle sperimentazioni meccanico-percettive dell’ optical-cinetico sarebbe stato l’ingresso in fabbrica, che avrebbe coinciso con una organicità oramai totale al capitale.
In questa accezione il rogo delle opere di Mazzarelli è anche quello di molte esperienze altrui, di tanti epigoni e di svariate importazioni stilistiche arrivate in Sardegna con quella modernizzazione-imitazione che Mazzarelli chiama “l’internazionale delle arti”.
Il rogo del 1970 è così il presupposto fondamentale alla ricerca che Mazzarelli ha portato avanti dal 1974 (da quanto riportano i suoi appunti) alla sua morte.
Il trauma è la morte dell’arte, la sua latenza è il deserto, e cosa sia questo panorama desolato lo si capisce presto: un sistema linguistico in crisi, una dimensione in cui tutto è stato già detto o fatto.
Uno spazio con pareti di specchi dove si ripetono sistematicamente gesti privi di senso o tautologie, in cui il nuovo è al massimo l’immagine rovesciata del vecchio. Lo dice chiaramente Mazzarelli:“Il linguaggio dell’Avanguardia è la sintassi dell’afasia!”. Davanti a questo panorama non c’è scelta: solo la storia dell’arte fornisce una articolazione dove oggi si trova il monolite dell’impotenza.
Finora abbiamo incontrato due termini complementari che ricorrono negli scritti dell’artista e che ci riportano al tema centrale: il rapporto a una teoria del trauma. Questi termini e concetti legati tra loro sono afasia e deserto. L’idea di morte dell’arte è chiaramente ricollegabile a un’idea di trauma storico e collettivo, ed è proprio affrontando questo
enorme rimosso che l’artista cerca la sua strada e quella che dovranno percorrere le arti del tempo a venire.
L’afasia si definisce letteralmente come l’incapacità di produrre linguaggio, l’impotenza espressiva, e ha per Mazzarelli un valore molto preciso che si configura come conseguenza di un evento straordinario e devastante.
Questo evento di carattere eccezionale viene fatto coincidere dall’artista con il rapporto instaurato dalle avanguardie storiche con il linguaggio dell’arte visiva: è il cammino dell’arte stessa, nel suo percorso storico, a coincidere con lo svuotamento del soggetto e
col decadere del valore assoluto dell’immagine. Se il rogo del 1970 ha un valore storico e collettivo, oltre che strettamente individuale, è perché si pone come soglia, intende dare corpo e forma a quel confine che per Mazzarelli si chiama morte dell’arte. E’ questa morte il trauma annunciato, l’evento silenzioso che conduce l’artista verso l’afasia.
Nella gabbia imposta dalla violenza della storia nessuna forma di eversione culturale o sociale ha portato a compimento un pensiero utopico; non per difetto di sincerità, ma di intelligenza, di struttura. Mazzarelli realizza che nessun attraversamento critico che mettesse realmente in crisi dogmi e santi dell’arte moderna sia stato realmente portato fino in fondo. L’avanguardia ha fallito nella costruzione dell’uomo nuovo e nella costruzione del linguaggio di questo uomo.
Dal deserto imposto all’artista dalla morte del linguaggio si può uscire fondando un percorso nuovo: “proiettando nella direttrice del futuro i poli scissi della dialettica mancata”. Cercando lungo la strada sentieri dimenticati che portino il segno, l’immagine, a coincidere nuovamente col mondo. Non a caso l’unico autore che Mazzarelli salva dalla catastrofe moderna, è Klee; l’artista che ha avuto il merito di creare un sistema linguistico aperto che avesse la Natura come orientamento fondamentale.
Per andare oltre le avanguardie bisogna risalire il filo annodato tra le mani di Vasarely, di Picasso, di Malevic: partire dai loro assunti significherebbe giungere ai loro stessi esiti: la fine della pittura occidentale. “L’avanguardia non ha infatti avuto un percorso di
evoluzione progressiva in termini quasi tecno-scientifici, ma si è invece immessa in un processo riduttivo nel quale in breve si è estinta; non una crescita, ma una “De-crescita”;
dunque un processo dissolutorio di perdita progressiva che si chiude inesorabilmente con la Morte: un heideggeriano essere-per-la-morte”.
L’autore rifiuta così gli esiti di gran parte della produzione artistica del dopoguerra, Morandi, Burri, Fontana, sono per lui epigoni di una storia che è già terminata, gli echi distorti di frasi dette anni prima. Spostando le problematiche della pittura al di fuori di questa, preferendo il reale reificato (e il capitale) alla rappresentazione, l’arte ha fatto il
salto che ha slegato il contenuto dalla forma. Il contenuto rimane così privo di forma, la forma sostituita dal reale.
Inizia quindi una ricerca necessaria della forma perduta, di una processualità positiva che si è persa in un momento infrasottile tra presente e passato: il possibile.
Va da sé che una figura del genere sia diventata silenziosamente inammissibile. Le poche occasioni in cui si parla di Mazzarelli è per via di Thèlema, la rivista da lui fondata e diretta fino al 1988, anno in cui oltre a mettere fine a questa esperienza, scrive la sua “Lettera di dimissioni da artista”. Otto anni dopo darà alle fiamme il resto della sua produzione nel secondo rogo presso lo stagno di Santa Gilla.
Le dimissioni da artista non sono un gesto provocatorio, anzi. Mazzarelli, conclusa nel peggiore dei modi (l’isolamento, ancora una volta) l’esperienza di Thèlema, si rende conto che non è sugli artisti che si può contare per “recuperare la semantica”, ragionare sull’identità o creare comunità. La conclusione è semmai che l’artista non è altro che “soggettività espugnata dal capitale nel modo più pernicioso, volontà senza potenza”. L’artista è ormai una figura nuda, una soggetto drenato e organico al sistema del capitale.
Mazzarelli si rende conto che se le iniziative più impegnate, le forze più radicali in campo artistico sono state sconfitte è, oltre che per il tramonto degli ideali politici a cui si
ispiravano, per via della rassegnazione a una forma di organicità al capitale. È esplicito ad esempio in Alla ricerca della forma perduta il riferimento al Gruppo di iniziativa.
Questo approdo al dominio, capitale, è un concetto che negli anni ‘70 Robert Smithson aveva ben inquadrato coniando il termine di Cultural Confinement.
Il Confinamento culturale per Smithson prende luogo quando le opere sono gestite dalle gallerie anziché dagli artisti, quando la portata di un’opera viene stabilita su assunti aprioristici dal “curatore-guardiano” e non dall’artista. Quando l’opera è neutralizzata, inoffensiva, estrapolata dal reale e dalla dialettica con la natura e gli elementi, allora è confinata.
Mazzarelli si rende perfettamente conto che dagli anni ‘80 il recinto costituito da questo confinamento interno al sistema dell’arte è anche il luogo più ambito dalla gran parte dei suoi colleghi. È questo détournement, questa neutralizzazione a garantire agli artisti una certa stabilità economica e soprattutto un riconoscimento da parte del sistema che appaghi, oltre che il portafogli, anche l’ego. Ecco perché il ruolo d'artista diventa qualcosa da cui fuggire a gambe levate, quanto di più vuoto e corrotto. La distruzione delle sue opere, le dimissioni da artista, possono essere lette anche in questi termini. Chi oggi volesse avvicinarsi alla sua ricerca non può essere motivato da velleità “da sistema”, da stimoli economici. La distruzione delle opere coincide, è paradossale, con la loro liberazione dal possibile confinamento*.
Ci restano, di questo lavoro di continua distruzione e ricostruzione, poche opere scampate ai roghi, gli scritti sull’arte e il Libro Bianco.
Il Libro resta perché contiene in sé la sua stessa negazione, è opera totale in quanto scritta e visiva, fondativa e distruttiva, traguardo ed inizio insieme. Quello che ci resta è quindi non un ”prodotto” finito, un esito, ma un processo aperto, una proposta.
Luigi Mazzarelli ci lascia un metodo che non può essere confinato culturalmente, una eredità da gestire fatta di idee per il futuro; per una volta, una rivincita sulla storia, una breccia, per chi la volesse attraversare, sempre aperta tra passato e futuro.
*A proposito di confinamento culturale, nel febbraio 2020 l’eredità di Robert Smithson è stata acquisita dalla mega-galleria di Marian Goodman, una delle maggiori potenze economiche in campo artistico. Si compie così quella ritorsione dialettica per cui anche Smithson viene così confinato, le sue opere ormai assimilate e inoffensive.
Luigi Mazzarelli
Una teoría del trauma
La cattiva coscienza della storia dell’arte sarda
Montecristo Project
2020
I
Quando ci siamo trovati a studiare la storia e la vita di Luigi Mazzarelli, un artista di cui conoscevamo il nome per via della sua partecipazione ai movimenti di avanguardia nella Cagliari del dopoguerra, ci sono stati diversi segnali che ci hanno immediatamente spinti a volerne sapere di più.
Non immaginavamo nemmeno che un artista così potesse esser vissuto in Sardegna ed avesse lasciato in forma scritta idee tanto radicali e opere come il Libro Bianco.
Probabilmente il primo aspetto a sorprenderci è stata la densità dei concetti espressi nei suoi scritti sull’arte, la prima sua produzione con cui siamo entrati in contatto in rete nei pochi stralci pubblicati dai suoi amici ed ex studenti.
Questo genere di scritti rappresenta un unicum sul piano della capacità di comprensione degli accadimenti storico-artistici internazionali, delle relative implicazioni filosofiche e linguistiche.
Nessun altro artista sardo ha prodotto nulla di simile e, ci viene naturale dirlo, nessun altro avrebbe potuto. E’ difficile ritrovare la stessa capacità analitica, lucidità e rigore. Non ultimo, è importante dirlo, lo stesso coraggio.
A quarant’anni dalla prima stesura del suo “Alla ricerca della forma perduta” ci troviamo ancora e nuovamente allo stesso punto; le parole che ha scritto lui allora, le condividiamo noi oggi, separati da un lasso di tempo in cui nulla sembra cambiato.
E’ stato impossibile non rimanere colpiti dal rigore con cui Luigi Mazzarelli ha analizzato la propria epoca e la propria ricerca. Questo rigore assoluto e la ricerca di un’unità ormai impossibile tra arte e vita costituiscono l’eredità più viva e preziosa di Mazzarelli. E lo sono anche la tensione verso l’opera totale, verso la dialettica costante, la conciliazione cosmologica di opposti reali e presunti.
Il nostro lavoro di scavo nella sua ricerca vuole essere prima di tutto un omaggio all’artista e all’uomo; vorrebbe poi far emergere quella breccia, quella crepa che le sue idee avrebbero dovuto aprire anni fa.
Fare questo, a 14 anni di distanza dalla sua morte, è come riaprire una ferita che si pensava chiusa, cicatrizzata dal silenzio e dalla dimenticanza, da tutto ciò che sui numerosi temi da lui sollevati non si è detto o discusso.
II
Esistono personaggi che nella storia collettiva diventano vittima di rimozione, oggetto di una forma problematica di memoria che preferisce negare e appunto rimuovere per garantire il proprio stesso equilibrio.
La figura di Luigi Mazzarelli, nel panorama sardo, rappresenta questa forma di contenuto problematico, di evento traumatico e lacerante più semplice da ignorare e rimuovere che da accettare e comprendere.
È significativo che l’oggetto di questo oblio sia una figura generosa e coerente, che si è spesa per il dialogo e nel tentativo di creare comunità.
E’ importante però tenere presente che Luigi Mazzarelli rappresenta il lato più radicale e problematico della storia dell’arte sarda: cercare di ammetterlo nella narrazione attuale che si fa dell’arte in Sardegna nel secondo Novecento significa ridimensionare e ricollocare in un solo colpo quasi tutte le altre figure che l’hanno abitata e segnata.
Accettare le conclusioni e le proposte di Mazzarelli significa infatti mettere in discussione anni e anni di proposte critiche, di letture storiche, di pubblicazioni e di mostre in Sardegna.
Vuol dire essere capaci, come lui stesso ha fatto, di mettere in dubbio tutto quanto è stato fatto e, se necessario, rifiutarlo e distruggerlo per ripartire.
Non è quindi un caso che la sua opera (da lui in gran parte distrutta in due “roghi d’artista”) ed i suoi scritti siano un fantasma che aleggia su tutto il Novecento sardo e non solo.
Parliamo di un fantasma perché di Mazzarelli è difficile trovare traccia tra le pubblicazioni più prestigiose o nei musei sardi, ma anche semplicemente su internet, se escludiamo alcuni omaggi a lui dedicati da amici ed allievi - Per quanto si trova tra musei e pubblicazioni: si tratta di opere che l’artista ha consapevolmente rifiutato, non la sua ricerca artistica più lucida e matura.
Quest’atto di rimozione non è casuale, non siamo davanti a una figura defilata o marginale nel panorama artistico regionale: Mazzarelli ha attraversato attivamente tutte quelle fasi che hanno segnato socialmente, artisticamente e politicamente la Sardegna dalla fine degli anni ‘50: dal Gruppo di Iniziativa e la relativa militanza politica manifesta nelle opere alle ricerche percettive dell’Optical successive. E tuttavia non è affatto questa la dimensione importante di Luigi Mazzarelli, ma il fatto che egli, di queste esperienze, sia stato anche il più feroce critico, l’unico che tra gli artisti dell’avanguardia sarda ha avuto il coraggio di mettere in discussione tutto questo e spostare la sua ricerca verso quei territori che sembravano storicamente e linguisticamente terra bruciata, dopo le avanguardie storiche.
Nella produzione scritta e visiva di Luigi Mazzarelli ricorrono frequentemente riferimenti espliciti ed impliciti a una forma di “teoria del trauma”: gesti, termini, concezioni temporali che ci possono avvicinare a una lettura analitica ed esistenziale del suo rapporto con l’arte e con il mondo.
Questa stessa prospettiva può inoltre gettare luce sul rapporto che il mondo artistico sardo ha instaurato, prima e dopo la scomparsa dell’artista, con la sua opera e con il proprio sviluppo storico.
Parliamo in fondo di una storia che non è ancora scritta, che si sta definendo e ridefinendo, di cui non siamo per ora in grado di leggere gli orizzonti in quanto ci lambiscono troppo direttamente. Idealmente infatti si vorrebbe sempre un buon osservatore storico distante e distaccato dal suo oggetto di indagine; questa forma di lettura della storia e dello storico non si addice però al nostro scopo, come non si addice alla critica portata dal 1970 in avanti da Mazzarelli alla storia dell’arte, alla società, alla storia appunto. Nel modello di temporalità di matrice Benjaminiana cara a Mazzarelli, passato, futuro e presente sono forze che interagiscono continuamente originando dei centri di attrazione; non possiamo mai dirci immuni dall’attrazione di queste correnti e dal loro continuo dare forma e senso in quanto è il rapporto stesso con la storia a metterci al centro di un nuovo vortice, di un nuovo punto originario.
Prima di iniziare a disporre gli elementi sul piano della nostra narrazione è importante chiarire alcuni aspetti: l’esistenza e la ricerca di Mazzarelli sono stati, come emerge dai suoi scritti e dai suoi gesti, inestricabilmente legate; questo significa che anche le meditazioni apparentemente più astratte, puramente analitiche e tecniche si legano a un percorso che rivendica continuamente la necessità espressiva, la capacità del linguaggio aniconico di farsi carico delle istanze espressive anche più elementari e pregnanti. La ricerca dell’artista si riversa sulla sua esistenza e viceversa; se questo aspetto può apparire scontato, si rivela fondamentale quando teniamo conto della portata dei suoi gesti, perché il pensiero e l’azione sull’opera non è mai solo parte di un sistema di riferimenti astratto, ma ha conseguenze reali, che dilagano e invadono la sfera dell’esistenza.
Un esempio molto semplice è questo: nel 1970 avvengono due roghi, uno celebre e l’altro meno: l’artista John Baldessarri brucia le proprie opere pittoriche realizzate fino a quel momento con uno stile prossimo all’espressionismo astratto, le fa in realtà cremare e trasforma successivamente le ceneri in biscotti che a loro volta si configurano come opera. Nello stesso anno Luigi Mazzarelli, nel suo studio di via Santa Croce a Cagliari brucia tutte le sue opere realizzate fino a quel momento. Non si tratta del tentativo di realizzare un’opera a partire dalla spettacolarizzazione della distruzione, o di un tentativo di smaterializzazione concettualizzante. Mazzarelli distrugge quindici anni di lavori che vanno dalle prime prove di carattere accademico fino alle ultime sperimentazioni in campo optical-cinetico, l’attraversamento di tutte quelle tappe linguistiche (impressionismo, post-impressionismo, realismo sociale, espressionismo etc) che hanno caratterizzato il XX secolo e che costituiscono ancora la formazione linguistica e tecnica di chiunque si affacci allo studio dell’arte visiva. Per Mazzarelli il rogo non si confina in un’azione senza conseguenze reali, ma coincide con il primo dei termini di carattere traumatico che ricorrono nella sua scrittura: l’afasia. In Baldessarri la distruzione si configura come un’azione documentabile e che scaturisce ironicamente in una nuova forma; questo tipo di leggerezza ironica tipica dell’artista californiano non fa parte del medesimo gesto compiuto da Mazzarelli. Bruciare ogni traccia delle sue fasi di attraversamento linguistico significa impedirsi un ritorno, rifiutare categoricamente di assumere come terreno di sfida un campo già drenato ed esausto, quel deserto che sarà al centro delle sue speculazioni da questo momento in avanti.
Se in Baldessarri la distruzione scaturisce in un nuovo gioco linguistico, meta-artistico, in Mazzarelli si risolve in una distruzione reale che assume la radicalità del gesto come un confine da cui allontanarsi, non in cui rientrare con un’agile giravolta. La distruzione delle opere, prima ancora di entrare nella sfera della ricerca artistica, è un gesto umano radicale, per molti aspetti necessario, certamente sofferto ed estremo.
Questo è un aspetto per noi fondamentale, ossia il duplice valore (artistico ed esistenziale) di ogni gesto, segno, discorso dell’artista e che ritroveremo tornando al nucleo di questo testo: Mazzarelli è la cesura, il trauma che ancora deve manifestarsi per l’arte del novecento sardo, e lo è in quanto la sua sua stessa ricerca e vita sono attraversate da una radicalità che possiamo definire come cesura traumatica.
III
Fenomenologia dell’impotenza creativa
Secondo la concezione di Mazzarelli, in accordo con le idee che informano e ispirano i suoi scritti, non possiamo rifarci a un modello storico progressivo, lineare, ma è necessario comprendere i processi storici in un’ottica differente. E’ necessario applicare delle idee puramente spaziali e pittoriche al nostro modello storico ideale, per consentirci di riallacciare i fili di un discorso che riporti l’arte a un livello assoluto, a un’aspirazione alla totalità. Lo svolgersi storico diventa leggibile solo nel momento in cui lo prendiamo in considerazione in termini frammentari, come emergenza sintomale di immagini, configurazioni, necessità proiettive del presente. Negli scritti di Mazzarelli (sul filo delle idee espresse da W. Benjamin) la storia è il dispiegarsi di un panorama in continuo collasso che nell’era del capitale giunge a un’accelerazione improvvisa; nell’arte come nella cultura in generale si raggiunge un orizzonte puramente negativo. Al collasso del reale corrisponde quindi uno sgretolamento del significato, motivo per cui i concetti non hanno più la funzione di esprimere dialetticamente la realtà, ma quello di frammentarla, di farci entrare in una dimensione discontinua e mai risolutiva del rapporto tra uomo e mondo.
Mazzarelli riprende da Hegel la formulazione del concetto di morte dell’arte, ossia il sistematico processo di esaurimento dell’arte come espressione del sentimento e della fantasia. Questa morte, il cui decorso origina dall’età romantica, è determinata da una forma di massima autoriflessione ed autocoscienza artistica che ha portato le avanguardie storiche ad esaurire il repertorio del linguaggio, portandolo a un grado zero in cui questo non è più collegato al mondo e al soggetto.
Questo aspetto funerario, ricollegato storicamente alla nascita dell’estetica e dunque a un’arte che non si esprime più come spontaneità, ma in termini di autocoscienza, culmina nel percorso linguistico rapidamente bruciato e dilapidato nei primi vent’anni del XX
secolo. Culmina secondo Mazzarelli in particolare nel “Quadrato bianco su fondo bianco” di Malevic.
Se le avanguardie hanno però sottoposto a tortura il linguaggio pittorico, svuotandolo, martirizzandolo e bruciandolo come i santi nei dipinti antichi, Mazzarelli si rende conto
della presa che i linguaggi concreti, strutturalisti, espressionisti o analitici di matrice ontologica hanno avuto sugli artisti della sua generazione in Sardegna. Il rogo del 1970 scaturisce dalla presa di coscienza dell’omologazione definitiva che marchia a fuoco tutte le correnti del Novecento: lo stesso Mazzarelli si rende conto che il passo successivo alle sperimentazioni meccanico-percettive dell’ optical-cinetico sarebbe stato l’ingresso in fabbrica, che avrebbe coinciso con una organicità oramai totale al capitale.
In questa accezione il rogo delle opere di Mazzarelli è anche quello di molte esperienze altrui, di tanti epigoni e di svariate importazioni stilistiche arrivate in Sardegna con quella modernizzazione-imitazione che Mazzarelli chiama “l’internazionale delle arti”.
Il rogo del 1970 è così il presupposto fondamentale alla ricerca che Mazzarelli ha portato avanti dal 1974 (da quanto riportano i suoi appunti) alla sua morte.
Il trauma è la morte dell’arte, la sua latenza è il deserto, e cosa sia questo panorama desolato lo si capisce presto: un sistema linguistico in crisi, una dimensione in cui tutto è stato già detto o fatto.
Uno spazio con pareti di specchi dove si ripetono sistematicamente gesti privi di senso o tautologie, in cui il nuovo è al massimo l’immagine rovesciata del vecchio. Lo dice chiaramente Mazzarelli:“Il linguaggio dell’Avanguardia è la sintassi dell’afasia!”. Davanti a questo panorama non c’è scelta: solo la storia dell’arte fornisce una articolazione dove oggi si trova il monolite dell’impotenza.
Finora abbiamo incontrato due termini complementari che ricorrono negli scritti dell’artista e che ci riportano al tema centrale: il rapporto a una teoria del trauma. Questi termini e concetti legati tra loro sono afasia e deserto. L’idea di morte dell’arte è chiaramente ricollegabile a un’idea di trauma storico e collettivo, ed è proprio affrontando questo
enorme rimosso che l’artista cerca la sua strada e quella che dovranno percorrere le arti del tempo a venire.
L’afasia si definisce letteralmente come l’incapacità di produrre linguaggio, l’impotenza espressiva, e ha per Mazzarelli un valore molto preciso che si configura come conseguenza di un evento straordinario e devastante.
Questo evento di carattere eccezionale viene fatto coincidere dall’artista con il rapporto instaurato dalle avanguardie storiche con il linguaggio dell’arte visiva: è il cammino dell’arte stessa, nel suo percorso storico, a coincidere con lo svuotamento del soggetto e
col decadere del valore assoluto dell’immagine. Se il rogo del 1970 ha un valore storico e collettivo, oltre che strettamente individuale, è perché si pone come soglia, intende dare corpo e forma a quel confine che per Mazzarelli si chiama morte dell’arte. E’ questa morte il trauma annunciato, l’evento silenzioso che conduce l’artista verso l’afasia.
Nella gabbia imposta dalla violenza della storia nessuna forma di eversione culturale o sociale ha portato a compimento un pensiero utopico; non per difetto di sincerità, ma di intelligenza, di struttura. Mazzarelli realizza che nessun attraversamento critico che mettesse realmente in crisi dogmi e santi dell’arte moderna sia stato realmente portato fino in fondo. L’avanguardia ha fallito nella costruzione dell’uomo nuovo e nella costruzione del linguaggio di questo uomo.
Dal deserto imposto all’artista dalla morte del linguaggio si può uscire fondando un percorso nuovo: “proiettando nella direttrice del futuro i poli scissi della dialettica mancata”. Cercando lungo la strada sentieri dimenticati che portino il segno, l’immagine, a coincidere nuovamente col mondo. Non a caso l’unico autore che Mazzarelli salva dalla catastrofe moderna, è Klee; l’artista che ha avuto il merito di creare un sistema linguistico aperto che avesse la Natura come orientamento fondamentale.
Per andare oltre le avanguardie bisogna risalire il filo annodato tra le mani di Vasarely, di Picasso, di Malevic: partire dai loro assunti significherebbe giungere ai loro stessi esiti: la fine della pittura occidentale. “L’avanguardia non ha infatti avuto un percorso di
evoluzione progressiva in termini quasi tecno-scientifici, ma si è invece immessa in un processo riduttivo nel quale in breve si è estinta; non una crescita, ma una “De-crescita”;
dunque un processo dissolutorio di perdita progressiva che si chiude inesorabilmente con la Morte: un heideggeriano essere-per-la-morte”.
L’autore rifiuta così gli esiti di gran parte della produzione artistica del dopoguerra, Morandi, Burri, Fontana, sono per lui epigoni di una storia che è già terminata, gli echi distorti di frasi dette anni prima. Spostando le problematiche della pittura al di fuori di questa, preferendo il reale reificato (e il capitale) alla rappresentazione, l’arte ha fatto il
salto che ha slegato il contenuto dalla forma. Il contenuto rimane così privo di forma, la forma sostituita dal reale.
Inizia quindi una ricerca necessaria della forma perduta, di una processualità positiva che si è persa in un momento infrasottile tra presente e passato: il possibile.
Così, la nostra visione dell’artista si biforca nuovamente a intrecciare la storia personale e quella collettiva: portare Luigi Mazzarelli nella narrazione attuale dell’arte sarda vuol dire riposizionare in un solo colpo quasi tutte le altre figure che l’hanno abitata e segnata. Questo perché la ricerca di Mazzarelli, se non abbandonata all’oblio in cui si trova ora, non è confinabile culturalmente. Dare consistenza alle sue idee e al suo percorso è un disvalore per quelle esperienze che hanno costituito l’avanguardia sarda e per chi le ha storicizzate. Gli stessi artisti con cui aveva mosso i primi passi sono gli stessi che ai suoi ultimi scritti oppongono l’indifferenza più totale. I commenti al testo “Alla ricerca della forma perduta” ricevuti dai colleghi e dai critici (e riportati nell’ultima edizione del testo dallo stesso autore) a cui l’artista lo aveva inviato dimostrano l’incapacità o forse la paura di entrare in merito alle questioni fondanti sollevate dal saggio di Mazzarelli. Soprattutto, mettere sul tavolo tali questioni significava accettare un punto di vista che ridimensionava enormemente la loro stessa produzione e ricerca. La ricerca di Mazzarelli, al contrario, consiste proprio di questo processo di dialettica continua, di messa in discussione di sé e del mondo, si fa nel costruire, distruggere e rifondare. Il lato traumatico storico può allora essere colto nella sua duplice valenza: da una parte come elemento trasformativo ed evolutivo che impone un processo di riesame del proprio percorso in funzione dell’orizzonte attuale; dall’altro come elemento di rottura della propria continuità autorappresentativa, come fenomeno alieno inaccessibile ad un esercizio di rievocazione e ricostruzione.
L’unico modo di sopravvivere al Trauma è, in fondo, essere il trauma.
Il silenzio è il meccanismo di rimozione a cui è stato sottoposto Mazzarelli, la sua latenza. Il nostro riferimento all’idea di trauma vuole più che altro richiamare un modello ancora una volta dialettico, composto di fasi che sono trauma, latenza, riemergere dell’esperienza.
Quello di cui siamo certi è che la sua esistenza, i roghi delle opere, il Libro bianco, la scelta di ricollocare radicalmente il ruolo delle avanguardie storiche sono i segni ancora nascosti di una frattura che sarà cristallina solo a distanza di anni dalla sua morte. E’ in questo aspetto latente che si manifesta appieno la portata traumatica della presenza di Mazzarelli.
Va da sé che una figura del genere sia diventata silenziosamente inammissibile. Le poche occasioni in cui si parla di Mazzarelli è per via di Thèlema, la rivista da lui fondata e diretta fino al 1988, anno in cui oltre a mettere fine a questa esperienza, scrive la sua “Lettera di dimissioni da artista”. Otto anni dopo darà alle fiamme il resto della sua produzione nel secondo rogo presso lo stagno di Santa Gilla.
Le dimissioni da artista non sono un gesto provocatorio, anzi. Mazzarelli, conclusa nel peggiore dei modi (l’isolamento, ancora una volta) l’esperienza di Thèlema, si rende conto che non è sugli artisti che si può contare per “recuperare la semantica”, ragionare sull’identità o creare comunità. La conclusione è semmai che l’artista non è altro che “soggettività espugnata dal capitale nel modo più pernicioso, volontà senza potenza”. L’artista è ormai una figura nuda, una soggetto drenato e organico al sistema del capitale.
Mazzarelli si rende conto che se le iniziative più impegnate, le forze più radicali in campo artistico sono state sconfitte è, oltre che per il tramonto degli ideali politici a cui si
ispiravano, per via della rassegnazione a una forma di organicità al capitale. È esplicito ad esempio in Alla ricerca della forma perduta il riferimento al Gruppo di iniziativa.
Questo approdo al dominio, capitale, è un concetto che negli anni ‘70 Robert Smithson aveva ben inquadrato coniando il termine di Cultural Confinement.
Il Confinamento culturale per Smithson prende luogo quando le opere sono gestite dalle gallerie anziché dagli artisti, quando la portata di un’opera viene stabilita su assunti aprioristici dal “curatore-guardiano” e non dall’artista. Quando l’opera è neutralizzata, inoffensiva, estrapolata dal reale e dalla dialettica con la natura e gli elementi, allora è confinata.
Mazzarelli si rende perfettamente conto che dagli anni ‘80 il recinto costituito da questo confinamento interno al sistema dell’arte è anche il luogo più ambito dalla gran parte dei suoi colleghi. È questo détournement, questa neutralizzazione a garantire agli artisti una certa stabilità economica e soprattutto un riconoscimento da parte del sistema che appaghi, oltre che il portafogli, anche l’ego. Ecco perché il ruolo d'artista diventa qualcosa da cui fuggire a gambe levate, quanto di più vuoto e corrotto. La distruzione delle sue opere, le dimissioni da artista, possono essere lette anche in questi termini. Chi oggi volesse avvicinarsi alla sua ricerca non può essere motivato da velleità “da sistema”, da stimoli economici. La distruzione delle opere coincide, è paradossale, con la loro liberazione dal possibile confinamento*.
Ci restano, di questo lavoro di continua distruzione e ricostruzione, poche opere scampate ai roghi, gli scritti sull’arte e il Libro Bianco.
Il Libro resta perché contiene in sé la sua stessa negazione, è opera totale in quanto scritta e visiva, fondativa e distruttiva, traguardo ed inizio insieme. Quello che ci resta è quindi non un ”prodotto” finito, un esito, ma un processo aperto, una proposta.
Luigi Mazzarelli ci lascia un metodo che non può essere confinato culturalmente, una eredità da gestire fatta di idee per il futuro; per una volta, una rivincita sulla storia, una breccia, per chi la volesse attraversare, sempre aperta tra passato e futuro.
*A proposito di confinamento culturale, nel febbraio 2020 l’eredità di Robert Smithson è stata acquisita dalla mega-galleria di Marian Goodman, una delle maggiori potenze economiche in campo artistico. Si compie così quella ritorsione dialettica per cui anche Smithson viene così confinato, le sue opere ormai assimilate e inoffensive.