UU - The artist as director
Un'intervista di Montecristo Project a Enrico Corte ed Andrea Nurcis sulla figura di Ugo Ugo.
PROLOGO
Montecristo Project inaugura Montecristo Writings: un nuovo spazio teorico in forma di blog in relazione alla linea di ricerca intrapresa nel sodalizio artistico e curatoriale di Enrico Piras - Alessandro Sau. Abbiamo deciso di dedicare questo progetto a temi che riteniamo importanti ed affini a quelle problematiche che stiamo affrontando sull'isola.
Il primo progetto è dedicato alla figura di Ugo Ugo (Cagliari-1924): personaggio cruciale per la storia dell'arte sarda e pioniere di una pratica artistica molto particolare e singolare. Ugo è stato infatti non solo un intellettuale ed artista, ma anche il direttore della Galleria Comunale d'Arte di Cagliari dal 1967 al 1985, Museo per il quale ha costruito dal nulla una ricca e raffinata collezione d'arte che comprende artisti sardi e tra quelli che si sono rivelati tra i più importanti del panorama nazionale dagli anni ‘50 agli anni ‘80.
La figura di questo pioniere, artista, direttore e curatore, viene qui presentata attraverso un dialogo con gli artisti Andrea Nurcis ed Enrico Corte, che lo stesso Ugo tutt'ora considera come tra i suoi più vicini e cari amici e che si sono mobilitati affinchè l'ormai nomade e mutilata collezione messa su da Ugo gli potesse venire finalmente intitolata. Attraverso lo sguardo di Andrea ed Enrico vorremmo far emergere la figura di un uomo e di un artista, intellettuale, disegnatore vivace, curioso e la cui opera più grande cerca ancora oggi una vera casa ed una storia scritta.
CAPITOLO I
OR :
Cari Andrea ed Enrico, per iniziare questa nostra conversazione la prima cosa che ci viene naturale chiedervi è di parlarci di Ugo Ugo. Come lo avete conosciuto e avete incontrato il suo lavoro di artista e direttore della Galleria Comunale?
Enrico Corte :
Ugo Ugo, in quanto artista del gruppo Transazionale e direttore della Galleria comunale di Cagliari, era un personaggio conosciuto nel piccolo mondo dell’arte che ruotava attorno al liceo artistico e agli artisti che vi insegnavano. Io frequentavo il liceo artistico dall’età di 13 anni; era facile entrare in confidenza con gli insegnanti e prender parte alle loro discussioni, riflessioni e polemiche: mi inserii così nel loro ambiente e nel loro “giro” di frequentazioni. C'è da dire che il liceo artistico di quel periodo – sono gli anni attorno al cruciale ‘77 – nelle due sedi separate di piazzetta Dettori e via S. Giuseppe, rappresentava un ambiente di totale anticonformismo, libertà di pensiero e di comportamento imparagonabile a qualsiasi altro istituto scolastico cagliaritano (e molto lontano anche dal liceo artistico di oggi). Gli studenti chiamavano gli insegnanti per nome, non con l'attuale e ridicolo “prof”. La stessa architettura delle due sedi, due ex conventi, aveva aspetti stravaganti (aule enormi senza muri divisori in cui ci si poteva spostare in qualsiasi momento, stanzette segrete, labirinti, pertugi, antiche terrazze con passaggi tra le cupole e i tetti della vecchia Cagliari) al punto che tutt'oggi me la sogno la notte, di tanto in tanto – e sono sogni intessuti di magia, meraviglia e incanto.
A quel tempo al liceo artistico insegnavano personaggi come Primo Pantoli, Gaetano Brundu e Pinuccio Sciola, e io seguivo le loro lezioni. Gaetano, una mattina del 1979 al liceo, notò una sculturina che avevo realizzato in creta e che Pinuccio aveva fatto cuocere nel forno che usava per le sue opere; la statuina, di carattere piuttosto goliardico e realizzata per far ridere i compagni di classe, rappresentava un personaggio fumettistico che aveva un membro eretto enorme, talmente lungo e arcuato che la figuretta era rappresentata nell’atto di praticarsi una autofellatio. Gaetano, vedendo la sculturina, ebbe l’idea di suggerirmi di mostrare l’opera a Ugo, che era entrato a far parte di una commissione selezionatrice per una mostra programmata per l’anno successivo. Infatti, all’inizio del 1980 venne organizzata nei locali della Fiera Internazionale della Sardegna a Cagliari una grossa mostra di carattere regionale, in cui vi erano due sezioni: una per le opere di artisti già in qualche modo riconosciuti, e un’altra basata su una selezione meno rigorosa (le scelte furono effettuate da una commissione di “esperti”). L’intento di Gaetano era ovviamente quello di “prendere in giro” il suo grande amico Ugo inviandogli un giovanissimo artista con una sculturina pornografica. Io in effetti andai a mostrare l’operetta a Ugo e lui mi ricevette subito (non c’era bisogno di telefonate o appuntamenti: si andava in Galleria e lo si trovava); non si scompose per niente ma a un certo punto quasi sbottò, non per il carattere della statuina ma perché riteneva che con quel gesto io lo considerassi una sorta di “borghese” da scandalizzare: “io non mi scandalizzo mica!” mi disse. Quella fu la prima volta che parlai con Ugo; ricordo benissimo quel giorno, l’aspetto del suo studio al primo piano della Galleria, gli scaffali con i cataloghi d’arte, i quadri incorniciati alle pareti tra cui un disegno originale di Modigliani. Ricordo anche che non mi parve il tipo da incutere alcuna soggezione: era piuttosto un personaggio portatore di una signorilità apparentemente d’altri tempi, ma con una mente e atteggiamenti molto moderni e dinamici. In seguito, parlando con Ugo, venne fuori che l’idea di mostrargli la sculturina proveniva da Gaetano, e allora fu chiaro l’intento di “presa in giro” tra amici (non completamente andata a segno, comunque). Nel 1980, in ogni caso, io e Andrea fummo inclusi nella mostra regionale negli spazi della Fiera di Cagliari, ovviamente non tra gli artisti “affermati”; fu la nostra primissima esposizione in pubblico, io non avevo ancora compiuto 17 anni, Andrea ne aveva 18. Nel catalogo si trova un’introduzione di Ugo e una presentazione di Salvatore Naitza. (Io non esposi la sculturina).
L’anno dopo, nel 1981, fummo invitati da Primo Pantoli a una mostra di gruppo che lui e il regista Giovanni Columbu stavano organizzando alla Galleria comunale. La mostra si intitolava Immagini Sonore; vi erano invitati 36 artisti e operatori culturali non necessariamente originari della Sardegna ma operanti nell’isola in quel periodo. Il concetto di base era questo: ad ogni artista veniva fornito un nastro registrato con suoni di un gregge di pecore in campagna (belati, campanacci, e roba simile) e si chiedeva loro di “intervenire” su questi suoni nel modo più libero possibile (manipolando il nastro, tagliando o cancellando i suoni delle pecore, sovrincidendo altri suoni o musica, ecc.). In pratica, ogni artista doveva fornire le proprie nuove registrazioni effettuate su audiocassette, o le proprie indicazioni di manipolazione del nastro originale, a uno studio della sede Rai regionale, i cui tecnici – seguendo le indicazioni degli artisti sotto la supervisione di Columbu – avrebbero provveduto a creare un “master” per ognuno, da presentare in mostra. Ad ogni artista veniva anche chiesto di abbinare al nastro un “oggetto” a propria scelta: non necessariamente un prodotto artistico ma un qualsiasi oggetto fosse in qualche modo relazionato al loro intervento su nastro. I vari oggetti furono esposti su uno stretto ripiano di plexiglas trasparente che correva lungo il perimetro delle pareti di tutto il piano terra della Galleria, a pochi centimetri dal pavimento; sulle pareti, in corrispondenza dei singoli oggetti, una sfilza di minuscoli altoparlanti installati all’altezza dell’orecchio umano diffondeva, se il pubblico si avvicinava, i suoni manipolati dagli artisti invitati.
Immagini Sonore fu, per me e Andrea, la prima vera mostra “ufficiale”, con una selezione qualitativa e un concetto-base più precisi rispetto all’esposizione precedente, un catalogo con riproduzioni delle opere e testi critici, una trasmissione televisiva in due puntate su Rai 3 dedicata all’evento, e persino il primo articolo di giornale sul nostro lavoro (una piccola intervista per L’Unione Sarda che ci fece Annamaria Janin). Trovammo inoltre interessante l’idea di abbinare in una mostra artisti visivi e operatori di altre discipline culturali: giornalisti, registi di cinema e televisione, musicisti, scrittori, designers, ecc.; ciò ci permise di ampliare lo spettro dei nostri contatti. Fu soprattutto importante essere ospitati nell’ampio e prestigioso spazio della Galleria comunale; occorre dire che Ugo, nonostante fosse anch’egli un riconosciuto artista, in quanto direttore della Galleria preferì non essere incluso tra gli artisti espositori per evitare il “conflitto d’interessi”. Ricordo che a quella mostra io e Andrea scegliemmo di partecipare non come singole figure ma con un intervento “a quattro mani”. Io ebbi l’idea di inserire, tra i suoni delle pecore, il famoso urlo di Tarzan, ma c’era il problema del dove recuperare quell’effetto sonoro talmente caratteristico e riconoscibile da non poter essere riprodotto da noi con la voce. Andrea ebbe la capacità di notare che, per stranissima coincidenza, in televisione in quel periodo trasmettevano proprio dei cartoni animati americani con Tarzan come protagonista: col suo registratore a cassette effettuò la registrazione dell’urlo originale direttamente dal televisore e poi fornimmo alla Rai l’indicazione di inserirlo per tre volte all’interno dei suoni delle pecore, a volume crescente – come se Tarzan, di urlo in urlo, si stesse avvicinando progressivamente all’orecchio dello spettatore. L’oggetto che abbinammo alla registrazione non era direttamente collegato a Tarzan: si trattava di un piccolo, classicheggiante piedistallo realizzato da Andrea in finto marmo verde e intarsi di fòrmica rosa, con sopra un minuscolo barattolino in vetro contenente i miei denti di latte (finto marmo, fòrmica, e elementi macabri e kitsch degli anni ’60: erano tutte “suggestioni” estetiche su cui ruotava il nostro lavoro in quegli anni, che confluiranno qualche mese più tardi nell’installazione urbana Rarità Botaniche all’Orto botanico di Cagliari). La mostra Immagini Sonore fu in ogni caso l’occasione di rivedere Ugo e dimostrargli che, per quanto molto giovani, e nemmeno diplomati, già ci si potesse ormai considerare facenti parte integrante del mondo dell’arte cagliaritana a tutti gli effetti.
Andrea Nurcis :
Quando ero uno studente del Liceo Artistico di Cagliari, verso la fine degli anni ’70, qualche volta mi capitava di sentir pronunciare da alcuni miei insegnanti il nome di Ugo Ugo. L’originalità del nome mi incuriosiva e già mi rendeva simpatica la persona che lo possedeva, pur senza conoscerla.
I miei insegnanti erano artisti riconosciuti da tempo a livello locale, e di grande spessore intellettuale; una parte di loro, assieme a Ugo, già dal decennio precedente fece parte di un gruppo di operatori culturali che animò un importante dibattito sulla “modernizzazione” della cultura in Sardegna. Sul finire degli anni ’60 tale dibattito ebbe come principale risultato la nascita della collezione d’arte contemporanea della Galleria comunale di Cagliari, di cui Ugo fu il principale artefice nonché direttore.
Se cerco di ricordare quando conobbi Ugo di persona, nella mia memoria appare quella tipica gran luce immobile e calda dei pomeriggi cagliaritani e la sensazione di un tempo che galleggia nel vuoto: credo che attendessi l’apertura della Galleria seduto su una panchina dei Giardini Pubblici. Ugo era sempre presente nelle sale fresche del museo, pronto ad accogliere i visitatori e illustrare il senso delle opere esposte. Ma di lui ebbi una conoscenza più diretta nel 1980 durante la partecipazione a una mostra di carattere regionale il cui intento era fare il punto sulla situazione dell’arte visiva in Sardegna, e che venne organizzata, tra gli altri, dallo stesso Ugo.
Tra le mie ossessioni di artista adolescente v’erano le ceroplastiche ottocentesche di Clemente Susini, allora conservate in una stanza buia e polverosa dell’Istituto di Anatomia patologica dell’università di Cagliari, peraltro visitabili solo su appuntamento. Inoltre il lavoro che facevo in quel periodo – che definirei un minimalismo organico dalle valenze psico-simboliche, e sicuramente affascinato dalle forme delle opere in lattice di Eva Hesse – consisteva nella realizzazione di centinaia di piccoli cilindri di cera mescolata a guscio d’uovo triturato, poco più grandi di un capezzolo, che attaccavo sulla parete della mia stanza al punto da riempirla quasi fino al soffitto come se fossero delle piccole escrescenze del muro. Il calore estivo poi modificava la regolarità dei cilindri in cera e la rigidità seriale con cui erano stati installati sulla parete.
Così per quella mostra decisi di proporre, in chiave figurativa e realistica, una serie di capezzoli umani in cera che incollai su un pilastro della sede in cui si teneva la grande esposizione regionale (i locali della Fiera internazionale della Sardegna). Attorno ai “capezzoli” aggiunsi alcuni interventi grafici a penna e matita tra cui la trascrizione del testo di un brano dei Residents (“Constantinople”), band che in quel periodo seguivo assiduamente. Ricordo che Ugo rimase colpito dalla mia installazione e mi fece i suoi apprezzamenti.
Per me fu facile rapportarmi con Ugo, uomo estremamente curioso e disponibile sul piano umano, e instaurare un legame di amicizia che dura ancora oggi. Mi ritrovavo spesso con Enrico a frequentare il suo ufficio della Galleria comunale trascorrendo con lui lunghi pomeriggi a parlare d’arte, ad ascoltare le sue narrazioni sui suoi amici artisti o gli aneddoti dell’avventura che lo portò in giro per l’Italia incontrando gli artisti più importanti di quegli anni per acquisire a prezzo politico le opere da inserire nella Collezione.
CAPITOLO II
OR :
Da quello che ci scrivete ci sembra già di vedere alcuni tratti precisi del carattere di Ugo e della sua particolare attività. Quella di Ugo è la storia di uno spirito creativo, curioso, un intellettuale, un artista divenuto direttore di un museo, del quale ha creato una notevole collezione di artisti contemporanei. Ci sembra che questa collezione sia parte fondamentale dell'opera di Ugo e che questa non sarebbe potuta nemmeno esistere se a metterla su non ci fosse stata le curiosità intellettuale e creativa di un artista. Qual è il vostro punto di vista a riguardo? Come ha lavorato Ugo come direttore e come ha creato questa collezione?
Enrico Corte :
La collezione della Galleria comunale – o Collezione civica, come dice qualcuno, o Collezione Ugo, com’è giusto che sia chiamata d’ora in poi – è frutto di varie congiunture storiche che riguardano il modo di pensare l’arte e di agire all’interno del suo Sistema non solo da parte di Ugo, ma anche degli artisti contemporanei di allora. L’idea di una collezione simile nasce tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, per poi giungere a compimento con l’inaugurazione nel 1975 (si arricchirà di alcuni pezzi negli anni successivi, ma senza che si realizzi quel piano di acquisti e aggiornamento continuo nel tempo che Ugo avrebbe voluto). Qualsiasi artista o critico o operatore culturale di rilevanza nazionale o internazionale che abbia vissuto di persona il passaggio dagli anni ’70 agli ’80, potrà descrivervi una sorta di mutamento epocale per cui in poco tempo spariscono i luoghi e le modalità di aggregazione degli artisti (parlo proprio dell’uso di vedersi la sera in certi bar o trattorie, per parlare d’arte), e una certa idea di “ambiente dell’arte” (in cui ci si conosce tutti, ci si frequenta quotidianamente, si collabora gratuitamente, si condividono gli studi, si litiga, ci si ubriaca, ci si droga assieme, ecc.), e subentrano invece le strategie individuali di perseguimento del successo, della ricchezza, del potere.
L’idea di competizione tra artisti esiste da sempre, ma le circostanze economiche degli anni ’80, il cambio di mentalità verso il “reaganismo” e un maggiore afflusso di denaro nel mercato dell’arte hanno reso le cose più ciniche. Lo status di un artista inizia a essere rappresentato dal numero di segretarie o di assistenti che ne mandano avanti il lavoro, e soprattutto dalla “top gallery” che lo rappresenta; si valuta la qualità di un’opera in base alle quotazioni d’asta, che in alcuni casi di artisti giovani diventano rapidamente astronomiche; inoltre, prende sempre più piede da parte dei dealers l’attitudine a pilotare le compravendite d’asta in modo da far accrescere le quotazioni dei propri artisti. C’è un libro di Jean Clair del 1983, Considérations sur l'État des Beaux-Arts, che descrive lo sviluppo di questa fase storica. Anch’io ho percepito questa mutazione, di sguincio e nella sua fase finale: già verso la metà degli anni ’80 vedevo molti artisti, anche della mia stessa generazione e soprattutto del nord Italia, iniziare a comportarsi come direttori di banca (espressione sentita dire da un gallerista di Roma che frequentavo al tempo) piuttosto che personaggi spinti dalla propria creatività verso una visione alternativa del mondo. Non faccio una critica moralista, esprimo una semplice constatazione – e d'altronde è anche giusto che ogni epoca abbia le proprie modalità di azione e le proprie mode comportamentali; voglio solo dire che Ugo forse non avrebbe potuto realizzare quella collezione se si fosse mosso qualche anno più tardi.
Prima che la convivenza tra le figure del Sistema dell’arte subisse questa mutazione, prima che l’aumento dei prezzi delle opere creasse una burocratizzazione dei rapporti interpersonali, prima che il management del gallerista di turno filtrasse ogni rapporto tra l’artista e il mondo, Ugo ebbe il tempo di girare per gli studi di diversi artisti, già noti oppure giovani promesse, e, con la sua signorilità, discrezione e sincerità di rapporto, riuscire a farsi vendere a un prezzo politico assai basso (leggi: “regalare”) una serie di opere importanti. Certo, la curiosità intellettuale e creativa implicita nell’Ugo “artista” è stata fondamentale per trovare lo slancio necessario, per azzeccare certe scelte e dunque per creare una buona raccolta di opere, ma anche e soprattutto fu importante quella squisitezza e sincerità dei suoi modi, a tratti anche disarmanti, che non creava alterigia, soggezione o tantomeno sospetto agli occhi degli artisti che andava incontrando.
Ora, il principale problema era la totale arretratezza degli organismi comunali, dei dirigenti degli uffici amministrativi e dalla burocrazia isolana a cui Ugo doveva render conto per le sue scelte e spese. Un quadro che fosse solo minimamente astratto già creava problemi in quanto “incomprensibile”. Il fatto che alcuni nomi di artisti selezionati fossero assai conosciuti significava poco per i burocrati dell’amministrazione comunale, e qualsiasi prezzo “stracciato” fosse stato pagato per certe opere moderne poteva sembrare loro eccessivo (quindi mettere in crisi l’intero ruolo culturale di Ugo). Quando, dopo l’inaugurazione del 1975, apparve sul quotidiano L’Unione una recensione a firma dello scrittore e critico Francesco Masala (che, per combinazione, abitava nel mio palazzo, due piani sopra il mio) intitolato qualcosa come “Il nulla mercificato”, ecco che già solo questo poteva bloccare qualsiasi finanziamento alla collezione e alle successive iniziative culturali che Ugo aveva in mente per la Galleria.
In un modo o nell’altro la Galleria riuscì ad andare avanti, ma la mancanza di grandi finanziamenti per la creazione di mostre è stata una delle caratteristiche dell’attività direttoriale di Ugo. Ciò non ha impedito che si siano create parecchie iniziative di livello molto alto: questo si deve anche alla buona volontà di tutti gli artisti coinvolti, ovviamente trascinati dall’energia, dal buonumore e dall’ironia di Ugo, coi suoi modi diretti e signorili. Personaggi come Corrado Maltese, Salvatore Naitza, Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Marisa Volpi Orlandini Aldo Passoni e Antonello Negri aiutarono Ugo nella selezione degli artisti e nei contatti, e di certo i loro nomi, almeno nella prima fase, servirono a dare credibilità all’intero progetto agli occhi dei burocrati del Comune; credo però che solo Ugo avesse la giusta capacità di relazione per identificare e farsi cedere certe opere. A questo proposito, qualcuno sostiene che solo un artista può giudicare un altro artista, e a volte anch’io penso che ciò sia vero.
Andrea Nurcis :
Essendo Ugo innanzitutto un artista, ancor prima di un funzionario pubblico nel ruolo di direttore di un museo, mi è sempre sembrato evidente che la sua sensibilità creativa l’abbia portato a realizzare una collezione d’arte contemporanea quasi con la stessa passione che avrebbe avuto nel realizzare una sua opera.
La costruì, se ne prese cura e la condusse negli anni secondo dei criteri abbastanza inusuali, non conformi alle aspettative istituzionali e dell’opinione pubblica cagliaritana, le quali purtroppo sono sempre state refrattarie alle novità, prediligendo posizioni conservatrici e tradizionaliste.
Così quel settecentesco edificio neoclassico dei Giardini pubblici, ex Polveriera reale, conosciuta da tutti come Galleria comunale d’arte, grazie a Ugo riusciva ancora a conservare qualcosa di deflagrante nei confronti della sonnolente cittadinanza, non solo per il contenuto innovativo delle opere esposte, ma anche per una certa modalità nella gestione di uno spazio di libertà: uno spazio che pretendeva da parte degli avventurosi e fortunati visitatori una fruizione partecipata e una interazione con le opere.
Ugo per una sua ragione etica e professionale scelse con generosità di mettere in ombra la sua figura d’artista proponendosi sempre come la guida gioiosa al percorso della collezione da lui creata. Non mi è mai apparso come un burocrate conservatore o direttore paludato, né come pedante intellettuale dal tono professorale. Occorre riconoscere a Ugo anche la capacità e il coraggio di aver messo a diretto confronto, e in una collezione permanente, le punte più avanzate dell’arte italiana del momento con gli artisti locali maggiormente innovativi. Questa scelta si rivelò un’efficace spinta propulsiva per la crescita e il riconoscimento degli artisti operanti in Sardegna.
Ugo era sempre presente e disponibile, entusiasta nel comunicare il senso vitale dell’arte e il valore di profonda libertà che l’arte può insegnarci. Ecco allora che nella mia mente ancora oggi risuona vivo il ricordo del fracasso prodotto dalle molle d’acciaio della scultura Fleximofono del torinese Piero Fogliati, quando la si faceva risuonare nella grande sala in cui era sospesa, offrendosi liberamente alla “manipolazione” affinché il suo rumore si espandesse creando concettualmente un’ulteriore plasticità dell’opera. La materia di una scultura può infatti essere anche una vibrante onda sonora che invade lo spazio infrangendosi violenta sulle pareti della sala.
E ancora ricordo l’opera di Giulio Paolini che, nella semplicità formale di una tela bianca attraversata da lunghi fili di nylon colorati come fossero delle gocce di pittura colanti sino al pavimento, chiedeva all’osservatore di comporre a mano il “proprio” quadro disponendo quei fili colorati a suo piacere sulla superfice vuota della tela.
Ugo aveva creato una collezione che era come un organismo vivente di cui lui conosceva i segreti e le varie possibilità, e ti permetteva di scoprirli un po’ alla volta durante l’esplorazione in cui ti conduceva.
In qualche modo la sua “conduzione”, o quella del personale da lui istruito, era fondamentale: non tanto per la spiegazione delle opere, quanto per la loro utilizzazione pratica, per l’apertura delle loro possibilità di manipolazione, per il rifiuto di una fruizione passiva, per la pulsione all’intervento.
Non si percepiva nessuna fredda intellettualizzazione o senso di feticismo meditativo dentro le sale della Galleria. Ugo aveva impostato l’esposizione considerando necessario il coinvolgimento fisico dello spettatore; in questo modo ti spingeva ad attraversare e sfiorare i grandi monoliti oscuri dell’opera Pondus di Rodolfo Aricò, a penetrare nello Spazio elastico di Gianni Colombo, a lasciare che la tua ombra venisse impressa sulla parete curva dell’istallazione Ambiente cronostatico circolare di Davide Boriani & Gabriele De Vecchi.
Ma altrettanto coinvolgenti, ai miei occhi, erano le opere più legate alla pratica della pittura analitica o dell’astrazione, come il quadro “povero” e senza telaio di Giorgio Griffa, che mi appariva assieme estremo e rigoroso, oppure la commistione fotografia/parola di Bruno Di Bello, con una grande opera in cui il concetto di “arte” veniva letteralmente fatto a pezzi.
E oltre la fruizione della Collezione, Ugo ti offriva il racconto dei suoi viaggi, degli incontri con gli artisti, delle persone dietro le loro creazioni. Ancora lo ricordo mentre mi illustra la misteriosa opera di Vincenzo Agnetti Portagiri – Flusso e riflusso territoriale, di cui cerca di farmi capire il senso attraverso la narrazione della sua visita nello studio dell’artista a Milano.
Mentre vedevo roteare il disco metallico che specchiava i nostri volti distorti, ondeggianti all’interno di un movimento ellittico come in cerca di una stabilità, di un centro, di un equilibrio, Ugo mi raccontava dell’artista Agnetti e dei suoi modi assenti, di lui perduto tra i suoi pensieri, distratto come da un’instabilità esistenziale che immaginavo simile all’effetto allucinato di quel riflesso circolare dei nostri volti, alla freddezza e precisione geometrica di quella scultura dal corpo profondamente nero su cui è stampato luminoso il titolo dell’opera – e capivo che l’arte non è solo un fatto formale, una speculazione intellettuale fine a se stessa, ma è innanzitutto un’esperienza umana, un processo esistenziale dentro cui perdersi
CAPITOLO III
OR :
Ci piacerebbe capire come lavorava nello specifico Ugo per costruire la collezione: ricordate qualcuno dei suoi viaggi per far visita agli artisti e come concretamente si muovesse? Voi siete stati inoltre tra i più giovani ai quali abbia dedicato una mostra personale alla Galleria, come ricordate quell'esperienza e come andarono le cose?
Andrea Nurcis:
Prima di rispondere direttamente a queste domande vorrei lasciarmi andare a una premessa fatta di liberi ricordi su alcuni aspetti della vita culturale della Cagliari di quegli anni, per contestualizzare meglio il clima sociale e culturale dentro cui Ugo operava e in cui noi stavamo facendo i primi passi.
Il dibattito di quel periodo in Sardegna era concentrato sul dualismo tra innovazione e tradizione, conservazione identitaria e superamento dell’isolamento culturale. Una discussione che si trascinava già dagli anni ‘60 ma che pare abbia ancora oggi una certa centralità. In quegli anni però tale diatriba era piuttosto accesa e aveva forti connotazioni ideologiche e politiche; vi erano spesso grandi polemiche con una netta separazione tra chi voleva “parlare sardo” e chi invece sentiva la necessità di impadronirsi di altri linguaggi per un confronto col resto del mondo.
In quel momento storico era difficile trovare mediazioni, specialmente per chi si occupava di arte visiva. Personalmente pensavo che il discorso etnico-identitario non poteva essere “ideologizzato”, al limite poteva far parte della sfera poetica dell’esperienza esistenziale dell’artista. Non ho mai accettato l’idea che un artista dovesse avere un senso di responsabilità intellettuale nei confronti del luogo di nascita, né che nel suo lavoro egli dovesse render conto delle proprie radici antropologiche. Il solo essere coinvolto in questo genere di problematica mi appariva una forte limitazione alla mia libertà creativa e alla mia immaginazione, preferendo considerare altri pianeti, altri territori oltre quello su cui mi trovavo, per un puro caso, ad appoggiare i piedi.
Detto questo, capivo e apprezzavo il lavoro di artisti come Maria Lai, Pinuccio Sciola – che fu anche mio professore al Liceo Artistico – e ancor più quello di Costantino Nivola: artisti che avevano diretti riferimenti alla Sardegna ma si tenevano lontani da ogni motivazione ideologica, e che si erano formati a stretto contatto con ambienti culturali internazionali.
Ebbi occasione di conoscere personalmente Costantino Nivola quando venne a Cagliari per realizzare alcuni lavori commissionati dalla Regione Sardegna, e potei così scoprire la profonda ironia che aveva nei confronti dei suoi corregionali. Nivola da ragazzo, umile apprendista muratore, abbandonò la sua isola per andare a studiare arte all’istituto di Monza, e venne in seguito assunto da Olivetti per il quale realizzò lavori dal linguaggio estremante nuovo; a causa della guerra si trasferì a New York assieme alla moglie Ruth Guggenheim, e qui realizzò importanti opere tra arte e architettura, pienamente accolto dall’ambiente culturale e artistico americano più avanzato. Nivola parlava dei conterranei sardi usando un tono tra il cinico e l’affettuoso, con lo stesso spirito di quando disegnava o modellava con la creta le sue buffe figurine dal sapore infantile e arcaico.
Non dimenticherò mai il suo racconto (di cui esiste anche un suo bellissimo disegno), sull’esperienza che ebbe a Roma assistendo per caso alla fucilazione dell’anarchico Schirru, condannato dal regime fascista per aver attentato alla vita del Duce. Nivola, tra incredulità e orrore, ci narrava di quando, passeggiando per Roma nella zona dei Fori imperiali e del Colosseo, iniziò a vedere decine e decine di sardi vestiti coi loro costumi tradizionali che ballavano o che preparavano gli arrosti per banchettare e festeggiare la fucilazione del loro conterraneo. Accennando a un sorriso, Nivola usò parole che mi sono rimaste impresse, molto forti ed estreme nella loro generalizzazione, come in un tentativo sofferto e un po’ disperato di dare una spiegazione a ciò a cui aveva assistito: “…può capitare che un popolo, quando si sia sempre sentito escluso dalla Storia, pur di farne parte si disponga a diventare il servo dei potenti più sanguinari andando a festeggiare la fucilazione di un loro fratello…”
La stessa Maria Lai, che conobbi in Sardegna e, qualche anno più tardi, incontrai di nuovo a Roma, aveva un atteggiamento che potrei definire “distaccato” e certamente non compiaciuto nei confronti delle sue origini native. Preparandoci a lasciare definitivamente la Sardegna per Roma, io e Enrico andammo a farle visita nella Capitale per chiederle consigli su come trovarvi uno spazio in cui vivere e lavorare. Era un pomeriggio estivo particolarmente caldo. Maria abitava in un grande appartamento nel quartiere delle Medaglie d’Oro e prima di riceverci ci fece attendere alcuni minuti in una stanza fresca e silenziosa, un salotto arredato sobriamente dove, su una parete, si faceva notare un bel quadro di Campigli.
Maria era una donna delicata e gentile, ma anche molto diretta e onesta: mentre ci offriva dell’acqua la prima cosa che ci disse fu che non aveva troppo piacere nel ricevere persone dalla Sardegna perché spesso venivano a cercare da lei la condivisione di una “sardità”, di un folklore, che non le erano mai del tutto appartenuti. Ci disse di averci ricevuto in quanto giovani artisti, ma riteneva di non poterci aiutare, neppure con consigli, in quanto Roma con le sue case e i suoi quartieri non la appassionava.
L’artista che rimase maggiormente legato alla sua dimensione etnica e alle sue origini contadine fu senz’altro Pinuccio Sciola, il quale nonostante questa scelta ebbe una così grande apertura e libertà umana e artistica da riuscire a proiettare la sua ricerca oltre i confini regionali. Dopo la sua giovanile esperienza messicana, Pinuccio importò nel suo paese il fenomeno del muralismo coinvolgendo l’intera popolazione: aveva infatti un’idea globale del mondo, un mondo senza confini, pur rimanendo radicato al suo “referente” sardo. E la sua grande casa-studio a San Sperate era sempre un crocevia di personaggi provenienti da tutto il mondo: lì noi potevamo incontrare leggende della musica del calibro di Sun Ra o Don Cherry, che soggiornavano da lui in cerca di relax durante i loro tour internazionali...
A proposito della musica va detto che, all’interno di questo dibattito tra tradizione e innovazione, la ricerca musicale in Sardegna aveva presto trovato delle interessanti soluzioni di “contaminazione”, come si usava dire a quei tempi. Sia nell’ambito del jazz d’avanguardia che della musica contemporanea diversi autori erano interessati a unire il linguaggio moderno a quello della cultura popolare e tradizionale. Attraverso Gaetano Brundu entrammo in contatto col critico jazz Alberto Rodriguez, col quale Gaetano condivideva lo studio in un appartamento nel quartiere di Castello a Cagliari. Anche Gaetano fu un grandissimo appassionato di jazz; la sua pittura fu certamente influenzata dai ritmi e dai colori di questa musica e ora che ci penso anche il suo modo di camminare seguiva la tipica andatura sincopata di quel genere musicale.
Gaetano dipingeva usando un approccio simile a quello del musicista jazz quando improvvisa il suo assolo. Facendosi trasportare dal ritmo di una semplice struttura geometrica dentro la quale costruiva liberamente la sua composizione, aveva la capacità di mettere sullo stesso piano la casualità di una colatura di colore e il controllo millimetrico della pennellata, con un equilibrio formale simile a quello del musicista che nella sua esecuzione improvvisata si lascia andare alla logica del proprio suonare in una serie di concatenazioni formali ed emotive. Enrico, nel suo intervento, ha già raccontato quanto la figura di Gaetano Brundu fosse stata centrale per noi non solo per i continui scambi di informazioni sull’arte, ma anche per la sua sommessa capacità nell’indirizzarci verso certi ambienti e certe persone, come appunto Ugo o Rodriguez. Quell’appartamento-studio che dalla cima di Castello aveva una vista magnifica sul panorama della vecchia Cagliari, dove lo sguardo poteva tuffarsi sino alle acque del porto, era letteralmente invaso dai dischi: Rodriguez, considerato uno dei critici jazz più importanti e stimati in Italia, fu un vero compagno di avventura dei musicisti più interessanti dell’epoca. Senz’altro fu un intellettuale che viveva pienamente il dibattito tra tradizione e innovazione e che col suo lavoro critico costruì un ponte concreto tra la Sardegna e il resto del mondo, e incontrarlo rappresentò per noi un arricchimento fondamentale.
Grazie a Rodriguez conoscemmo uno dei suoi compagni d’avventura, il compositore e contrabbassista Marcello Melis, anche lui cagliaritano e fondatore agli inizi degli anni ‘60 del movimento del free jazz italiano. Marcello, durante il suo periodo newyorkese alla metà degli anni ‘70, incise alcuni dischi in cui metteva a confronto i suoni della tradizione musicale sarda con quelli dell’improvvisazione, avvalendosi della collaborazione di grandissimi nomi del jazz afroamericano di ricerca. Al tempo stesso, nell’ambito della musica colta contemporanea anche Franco Oppo dava il suo importante contributo con opere in cui il linguaggio della musica sarda veniva decodificato e inserito perfettamente nel contesto della sperimentazione più avanzata. Ora, il ricordo di Oppo, anche se non ebbi mai occasione di conoscere di persona, è legato al fatto che fu animatore di eventi di grande livello, che nella piccola e provinciale città di Cagliari ebbero per me ed Enrico un valore formativo di grande impatto. Nonostante la mia totale impreparazione musicale in senso tecnico, la musica era per noi una passione altrettanto forte quanto quella per l’arte; a Cagliari, tra l’altro, non mancavano concerti di rilievo ed esisteva, come anche oggi credo, un pubblico sicuramente più numeroso e preparato di quanto non vi fosse per l’arte visiva.
Avere avuto da ragazzo, grazie a Oppo, la possibilità di partecipare a una serie di conferenze sulla musica elettronica, di incontrare personalmente Luigi Nono e assistere ad un suo concerto, di poter addirittura stare a stretto contatto con Karlheinz Stockhausen in occasione di una lezione sui suoi metodi compositivi, ha costituito un bagaglio di esperienze della cui eccezionalità riesco a rendermi conto solo oggi.
Lo ammetto, Stockhausen parlava in tedesco aiutato a malapena da un traduttore, e le sue disquisizioni erano talmente tecniche che ne capivo poco o nulla, ma aveva di certo una energia comunicativa notevole: andava su e giù per la stanza agitandosi e parlando al limite dell’urlo; mentre lo fissavo ammirato dalla sua bellissima camicia con enorme colletto merlettato a punta, lui mi guardava negli occhi spiegandomi cose per me indecifrabili, ed io annuivo e fingevo di capire tutto, ricevendo in cambio sorrisi ed espressioni di soddisfazione. Lui per me era lo Stockhausen che appariva sulla copertina di Sergent Pepper’s dei Beatles e che influenzò la musica di Miles Davis. Anche a livello popolare era considerato già uno dei maestri della musica del ‘900 e poi era il punto di riferimento di una serie di gruppi che incominciavamo ad ascoltare con entusiasmo, il Krautrock dei Can e dei Neu!, l’elettronica dei Kraftwerk… tutti musicisti che furono allievi di Stockhausen e che rappresentavano per noi la scena che sul finire degli anni ‘70 apriva il decennio degli ‘80 a una nuova sensibilità.
L’arte e la musica erano per noi lo strumento per costruire un ponte che ci metteva in diretto contatto col mondo, e quel ponte era la forma più alta di libertà di cui un essere umano può fare esperienza; in quella piccola città provinciale che era Cagliari, attraverso l’arte potevamo non limitarci a sognare, ma anche concretizzare realmente il superamento dell’isolamento culturale e fisico a cui l'insularità ci costringeva.
Potrei continuare coi ricordi, ma ho voluto fare solo alcuni esempi per dare maggiore concretezza al contesto in cui Ugo operava e nel quale l’abbiamo conosciuto. Il contributo di Ugo, sia col suo lavoro di artista che come creatore e direttore della collezione, rappresentava una risposta molto precisa alla problematica sul dualismo tra innovazione e conservazione della tradizione. Ugo era per l’innovazione e l’apertura totale, contro ogni forma di localismo e gabbia identitaria; probabilmente questa sua scelta così lontana da ogni compiacente demagogia non fu capita degli amministratori pubblici e col passare degli anni non possiamo dimenticare senza sofferenza che la “sua” collezione fu sempre più messa ai margini degli interessi pubblici, fino a essere del tutto sottratta alla fruizione cittadina, scomparendo negli anni ‘90 dalla memoria culturale di Cagliari e diventando quasi completamente sconosciuta alle generazioni più giovani.
Entrare nella Galleria di Ugo significava immergersi in un'altra dimensione spazio-temporale che poco aveva a che fare con ogni rumoreggiante cadenza dialettale. Varcata quella soglia, incominciava a mancare la forza di gravità. In quegli spazi si galleggiava con la mente e ogni legame con la propria terra scompariva. L’arte era l’unica entità che contasse: con i suoi enigmi linguistici e formali, i suoi segni dalle logiche giocose ma raggelate in una razionalità matematica, talvolta filosofica, col suo vuoto capace solo di porre dubbi intriganti.
Davanti al quadro di Enrico Castellani, Ugo mi spiegava quanto rimase affascinato nel vedere l’artista nel suo studio costruire l’intelaiatura sulla quale poi tendeva la tela e attraverso il gioco di centine e chiodi creare le sue famose tele estroflesse. Quella superficie che davanti allo sguardo ondeggiava e ritmicamente pulsava venendomi incontro per poi ritirarsi all’indietro, era così viva e dinamica perché, come tutti gli organismi che si muovono, vi era uno scheletro e una struttura cellulare a consentirglielo.
Senza esitazione, incurante della presenza o meno di altri visitatori, prese delicatamente il quadro, lo staccò dal muro e lo appoggiò con attenzione al pavimento, ruotandolo per mostrarmi la costruzione del retro. Vedere il lato nascosto del quadro di Castellani era altrettanto importante e stupefacente quanto vedere la superficie frontale. Da quel momento, ogni volta che osservo un quadro, istintivamente sono portato a guardare come si presenta dietro e, se ciò non è possibile, cerco di immaginarlo; a volte quello che un pittore scrive dietro la tela, la sua firma, le macchie di colore, la stessa trama della tela e il modo con cui il colore l’ha impregnata, possono svelare molto del senso di un’opera e delle intenzioni di un artista.
Ugo, davanti a un’opera, raramente si interessava a ciò che appariva agli occhi: lui preferiva indagare su quello che non si vedeva, sul contenuto nascosto, la tecnica o i materiali con cui era realizzata e talvolta anche sul vuoto, o sull’ assenza di materiali, in senso letterale.
Percorrendo insieme le sale della Galleria che risuonavano ai nostri passi, Ugo si fermò all’improvviso e, indicandomi un grande spazio vuoto lì davanti, mi disse: “vedi, qui ci avrei messo la sfera di carta di giornale e filo di ferro di Michelangelo Pistoletto… è un suo lavoro importante, lo conoscerai perché è stato pubblicato anche nel primo libro di Germano Celant sull’Arte Povera. Pistoletto la portava in giro, la faceva rotolare per le strade. Ero andato a trovarlo nel suo studio… una persona molto carismatica con una gran barba, sembrava un patriarca, viveva come in una comune circondato da tante persone che lavoravano con lui, faceva anche teatro. Mi fece aspettare un po’; quando finì di fare le sue cose si avvicinò a me per chiedermi piuttosto bruscamente chi fossi e cosa volessi. Gli parlai della collezione che stavo realizzando e del fatto che stessi girando per gli studi di tanti artisti. Lui si guardò intorno, mi indicò quella sfera e mi disse che, se volevo, potevo portarmi via quel lavoro. Ero entusiasta, era un lavoro che mi piaceva moltissimo! Telefonai subito a Cagliari per farmi organizzare un trasporto: era un’opera grande, non semplice da trasportare e non potevo farla rotolare dal Piemonte sino alla Sardegna! Purtroppo quando ci accingemmo a ritirarla l’opera non era più disponibile.
Ugo si riferiva all’opera di Michelangelo Pistoletto intitolata Mappamondo, realizzata tra il ‘66 e il ‘68. Un’opera effettivamente molto importante che è diventata una specie di icona del movimento dell’Arte Povera e di un momento di cambiamento del linguaggio dell’arte internazionale del secondo dopoguerra. Un’opera che oggi ha un valore non solo storico ma anche economico altissimo. Alcuni anni fa venni invitato ad esporre da Arnaldo Pomodoro a Milano, alla mostra di inaugurazione della sua Fondazione intitolata La scultura italiana del xx secolo in cui erano presenti una serie di capolavori storici del ‘900, da Medardo Rosso fino alle ultime generazioni. Naturalmente era presente il Mappamondo di Pistoletto, ma protetto da un cordone separatore e sorvegliato da una guardia in divisa! Pomodoro mi disse che il valore di quell’opera era talmente alto che non potevano permettersi di rischiare nessun genere di incidente. Osservavo il Mappamondo accanto alla guardia, distanziato dal pubblico tramite cordoni di protezione; lo osservavo con un senso di familiarità pensando alla storia raccontata da Ugo e ancora, a distanza di tanti anni, lo immaginavo nello “spazio ideale” in cui lui l’avrebbe collocato, in quell’angolo fisicamente vuoto ma non per questo, ai suoi occhi, privo di significato.
Come abbiamo detto, nel 1982 Ugo decise di aprire gli spazi della Galleria Comunale agli artisti giovani per registrare quello che di nuovo stava accadendo nella realtà cittadina. Il decennio degli anni ’60 e ’70 era ben più che rappresentato, sia a livello locale che nazionale, dalla collezione permanente che aveva messo in piedi. Ma i “cambiamenti” dell’arte e della cultura andavano avanti, trasformando tutto ancora una volta: il mercato, la critica, e la stessa ricerca artistica.
La conoscenza tra me e Ugo risaliva già a qualche anno prima di quel 1982 in cui mi diede la possibilità di realizzare la mia prima mostra personale negli spazi della Galleria comunale d’arte. Ugo mi chiedeva sempre a cosa lavorassi ed era curioso di vedere le mie realizzazioni. Con un grande senso di rispetto e discrezione era curioso anche della mia vita personale, dei miei genitori, della mia abitazione: come se per capire i miei lavori avesse bisogno di conoscere anche la dimensione privata ed umana. Il fatto che io provenissi da una famiglia estremamente umile e che abitassi in una modesta casetta sul colle di Tuvixeddu, ai piedi della nota necropoli, aumentava la sua curiosità. Probabilmente si chiedeva cosa avesse a che fare con l’arte contemporanea un ragazzo non ancora maggiorenne, figlio adottato da una casalinga e un muratore che non avevano terminato nemmeno gli studi elementari, educato e cresciuto in una dimensione sociale che sarebbe stata definita di “sottoproletariato”.
Allo stesso modo io ero incuriosito dal suo aspetto di signore borghese d’altri tempi, col suo modo di fare gentile e attento, vestito sempre elegante in giacca e cravatta, che amava fumare la pipa e indossare un cappello il quale non dimenticava mai di levarsi rispettosamente per salutare anche solo la guardia giurata che presiedeva l’ingresso della Galleria e che incontrava tutti i giorni.
Anche io ero molto interessato al suo lavoro di pittore e alla particolare tecnica che Ugo aveva elaborato: una tecnica molto particolare, una sorta di stampa a monotipo su carta in seguito incollata su tavola. Mi interessava non solo per la qualità pittorica che spesso giungeva a effetti stupefacenti di tridimensionalità, ma soprattutto per quel senso di valore “antipittorico” che io stesso andavo a cercare nei miei lavori. Una pittura non-pittura, nella quale il segno della pennellata aveva un senso più concettuale che figurativo. Un’arte fredda e mentale, fatta con pochi colori o addirittura monocromatica, che si teneva lontana da ogni compiacenza e coinvolgimento sentimentale come se fosse quasi un’impronta cerebrale più che un concreto processo di pittura.
La mostra che proposi a Ugo presentava una serie di lavori realizzati negli ultimi due anni che volevano confrontarsi proprio con quel momento storico di cambiamento, in cui l’esaurirsi del linguaggio prettamente concettuale riapriva la strada all’immagine e a un confronto con la storia attraverso gli strumenti della pittura e della scultura. Nel 1982 fenomeni come quello della Trans-avanguardia italiana, del Graffitismo newyorkese e dei Neuen Wilden tedeschi, avevano raggiunto un pieno riconoscimento sia da parte della critica che del mercato. Anche molti artisti delle generazioni precedenti, già affermati maestri dei movimenti dell’Arte concettuale, della Body art o dell’Arte povera, riprendevano in mano tele e pennelli riempiendo gallerie, musei e collezioni private di opere grondanti di materia pittorica e immagini figurative di qualsiasi tipo.
Per me fu un momento entusiasmante, e non credo che questa situazione di grande libertà creativa attraverso i linguaggi più legati alla tradizione volesse semplicemente adeguarsi al ruolo che il mercato dell’arte aveva assunto in maniera predominante provocando una grande richiesta di opere di pittura. C’era veramente l’esigenza da parte di tutti di liberarsi di certi modelli concettuali che ormai apparivano del tutto consumati, esauriti.
Eppure man mano che questo vitale cambiamento trovava sempre maggiori conferme dentro il sistema dell’arte, vi notavo la persistenza di elementi che non mi erano mai appartenuti e che mai mi avrebbero coinvolto: questi riguardavano essenzialmente il ruolo dell’artista che ritornava ad assumere il valore del “mestiere” del pittore, di colui che costruisce un segno, una forma di riconoscibilità da ripetere con varianti minime per mai tradire quella semplificazione e chiarezza richiesti da un crescente consumo culturale.
Nel 1981 decisi di iniziare un progetto a tutt’oggi ancora in corso, che consisteva nel realizzare un disegno ogni notte per tutto il resto della mia esistenza. Ogni disegno era eseguito con la stessa tecnica: biro su un foglio di carta sempre delle stesse dimensioni. Il disegno sarebbe terminato una volta che si fosse esaurito l’inchiostro della penna oppure la mia stessa resistenza fisica, trattandosi quasi sempre di un lungo lavoro che mi portava alle ore più tarde della notte. Si trattava di eseguire una sorta di ritualità tendente a riportare l’immagine verso il suo stato originale, ricacciandola indietro nel luogo oscuro della memoria a cui l’arte ha sempre cercato di dar luce. Proprio nel momento in cui le immagini si trovavano sotto nuovi e potenti riflettori della storia, decidevo invece di spegnere la luce, cancellare, creare il buio pesto della mente che arrivava sino al confine del sonno in cui, tremolante, poteva sopravvivere l’apparizione di un fantasma. In quella mostra presentavo le mie prime 50 notti dedicate a questa azione che occupavano buona parte di una grande parete del pianterreno della Galleria. Creare delle immagini non significava narrare, né sviluppare un segno, formalizzare uno stile o rendere omaggio alla storia rimpossessandomi di quelle modalità che nella ricerca artistica del ‘900 avevano gradualmente perso la loro centralità storica. Significava per me catalogare frammenti, lievi e inconsistenti apparizioni, barlumi mentali senza nessuna gerarchia. Accettavo qualsiasi cosa che scaturisse dalla ritualizzazione notturna di quel processo psicofisico che era il mio disegnare.
Sulla parete frontale invece avevo disposto 18 lastre in vetro che nella loro brillante esplosione di colore escludevano ogni tentativo di specchiare il lavoro che avevano davanti. Una contraddizione formale estrema ma allo stesso tempo la condivisione di un equilibrio come l’alternarsi ovvio della luce e del buio durante il giorno. Di fronte ai Disegni neri, spesso brandelli di carta sopravvissuti al lavoro insistente della penna, a volte tenuti insieme dal nastro adesivo, con la pesantezza psichica delle loro immagini, si schieravano le 18 Lastre di puro colore, leggere e astratte, freddamente antipittoriche perché ogni matericità, ogni possibile segno della mano erano assenti. Inventai una tecnica in cui il fare pittura nasceva da una manipolazione plastica della materia, e che nel risultato finale appariva nella sua valenza di pura schermata bidimensionale, delirante di colore come fosse una allucinazione psichedelica. Cellule di plastilina colorata, modellate in varie forme, cilindri o sfere in cui i colori mai si mescolavano del tutto ma rimanevano compressi dentro confini precisi come in un mosaico organico, venivano schiacciate sulle lastre di vetro. La tridimensionalità originale si espandeva sulla superfice trasparente, i colori rimanevano puri non contaminandosi tra loro; la plasticità della scultura diventava linguaggio pittorico nel gioco della manipolazione del pongo compresso e schiacciato sulla superfice.
Il resto delle opere presenti in mostra erano ancora una volta la negazione di uno stile, sfuggivano a una ricerca formale univoca e si proponevano come frammenti mentali intenti a esplorare il senso dei linguaggi e delle immagini. Piccole sculture in cera realizzate qualche anno prima sopravvissute al tempo erano sparse per la galleria, poste su basi in mezzo alle stanze oppure installate al muro sotto teche in vetro o plexiglas.
L’opera intitolata Stimolatore Ottico era tra queste sculture la più grande: una forma fallica di un metro d’altezza circa che in alto presentava un occhio di forma ovoidale racchiuso dentro una sfera in vetro. Si trattava di una sorta di grumo ceroso, tra l’animalesco e il vegetomorfo, come fosse una entità aliena che nei suoi numerosi dettagli fatti da filamenti, bubboni, peduncoli, pieghe, creste cancerose, tumefazioni trasudanti essenze sierose, aveva l’unico scopo di penetrare e violentare lo sguardo dello spettatore. Lo Stimolatore era l’opera più vicina allo spirito della nostra installazione Rarità Botaniche, della quale in mostra vi erano dei “relitti” sopravvissuti al caldo dell’estate 1981. Così, con lo stesso spirito, offrivo al pubblico un piccolo autoritratto rappresentato come un cadavere in putrescenza disteso su un tavolo d’obitorio in cui le mie sembianze apparivano ormai sfigurate, poco riconoscibili nella loro corruzione, per cui quella figura poteva essere, alla fine, il ritratto di chiunque… se non che le sue unghie e capelli erano realizzati con i miei veri capelli e con veri frammenti di mie unghie: gli unici elementi che realmente contenevano il DNA riconducibile alla mia identità di essere passato su questa terra.
Penso che la varietà di forme, l’invenzione di tecniche inedite e la continua messa in discussione dei linguaggi, fossero i motivi che principalmente suscitassero l’interesse di Ugo per il mio lavoro. Ugo nell’arte andava sempre a ricercare un senso di meraviglia, di mistero e incomprensibilità da indagare. Amava soffermare a lungo il suo sguardo sulle superfici, era il suo occhio a penetrare le opere per capire come fossero state realizzate, e con l’uso di quali materie. Credo che la possibilità che mi offrì di realizzare una personale in uno spazio pubblico prestigioso, con le sue enormi sale, rientrasse molto bene nel suo spirito intellettuale non conformista, disponibile al rischio e soprattutto curioso e generoso nei confronti di chi come me, iniziava il suo percorso nel mondo dell’arte.
OR :
Ci piacerebbe capire come lavorava nello specifico Ugo per costruire la collezione: ricordate qualcuno dei suoi viaggi per far visita agli artisti e come concretamente si muovesse? Voi siete stati inoltre tra i più giovani ai quali abbia dedicato una mostra personale alla Galleria, come ricordate quell'esperienza e come andarono le cose?
ENRICO CORTE :
Ugo ci ha raccontato spesso i suoi aneddoti sulle visite agli studi dei vari artisti; alcune di queste narrazioni sono confluite nel primo articolo che scrissi nel 2007 per L’Unione. Ho voluto scrivere quell’articolo proprio allo scopo di dare nuova luce alle vicende della Collezione, al tempo invisibile da anni (anzi, totalmente negletta), denunciarne un certo scempio e suggerire per la prima volta alle autorità competenti di intestare a Ugo il nome dell’intera raccolta d’arte, o di ciò che ne fosse rimasto. Per dare più forza alla tesi dell’importanza della Collezione, volli riportare nell’articolo alcuni prezzi e quotazioni d’asta di alcuni artisti, tra quelli selezionati da Ugo, che nel tempo si sono maggiormente affermati. Volevo privilegiare l’aspetto economico perché bene o male è un dato concreto che tutti possono intendere, al di là della comprensibilità o dell’apprezzamento individuale delle opere dei singoli artisti. Purtroppo un taglio di questo tipo, anche per evitare l’eccessiva lunghezza dello scritto, tendeva a escludere i nomi degli artisti locali, meno quotati di quelli operanti a livello nazionale. Ciò diede adito a critiche e malumori, e l’obbiettivo che mi ero posto fu fatto naufragare nel mare delle diatribe di provincia. Dovetti scrivere un secondo articolo, anni più tardi, perché le cose finalmente si smuovessero.
Per ciò che riguarda le nostre mostre personali in Galleria, ancora una volta fu Gaetano Brundu ad avere un ruolo centrale negli sviluppi di questa storia. La sua persona, la sua generosità – più che la sua pittura – si può dire che sia stata una sorta di catalizzatore, di eminenza grigia (o meglio, “bionda”) attraverso la quale si diffondevano le idee, le informazioni e le energie di quel piccolo ma vitale ambiente dell’arte cittadino.
Dopo esserci diplomati nel 1980 – e aver seguito nel 1981 quello che veniva chiamato il “corso integrativo” del liceo artistico, propedeutico agli studi universitari – io e Andrea ci iscrivemmo all’università di Cagliari, pur continuando a mantenere uno stretto rapporto d’amicizia e di frequentazione con alcuni dei nostri vecchi professori, e in particolare con Brundu. Verso i primi mesi del 1982 Gaetano ci disse che la Galleria comunale aveva in programma di organizzare una serie di mostre personali dedicate ad artisti contemporanei delle ultime generazioni; Ugo in persona, in qualità di direttore, avrebbe fatto la selezione. Gaetano ci suggerì di prendere appuntamento con Ugo per mostrargli alcuni lavori e presentargli un progetto specifico di mostra.
Occorre dire che dalla nostra prima mostra del 1980 – passando per l’esperienza di Immagini Sonore e per la nostra successiva installazione multimediale Rarità Botaniche all’Orto botanico nel 1981 – l’amicizia tra me e Andrea si era ulteriormente rafforzata, e l’energia e l’ispirazione del nostro lavoro individuale ne aveva vistosamente beneficiato.
Tra il 1980 e il 1982 io e Andrea passiamo gran parte del tempo che ci rimane oltre lo studio (e oltre ai vari lavori occasionali che svolgiamo per guadagnare qualche lira: grafici, fotomodelli, attori e soprattutto conduttori-DJ radiofonici alla sede regionale Rai) viaggiando in Italia e in Europa. Lo stimolo al viaggio ci viene, ancora, dall’Eminenza Bionda della situazione: è Gaetano che ci pungola in continuazione a “muoverci” e ci dà l’esempio viaggiando lui stesso il più possibile, per poi portarci in visione, al suo ritorno, cataloghi di mostre, riviste e foto fatte da lui nelle Capitali dell’arte europea. Se c’è stato un insegnamento, da parte di artisti della generazione precedente come Ugo e Gaetano, è stato quello dello spingerci alla conoscenza diretta e personale degli artisti e delle loro opere, nei luoghi del loro lavoro; l’importanza del guardare negli occhi un artista, un regista, uno scrittore o un musicista – e del dialogo a viva voce.
Io e Andrea visitiamo Venezia in occasione della Biennale arti visive del 1980 e, essendoci creati una rete di amicizie in città e una “base” piuttosto stabile, ci soggiorniamo anche per il Festival del Cinema. In quella edizione della Biennale Bonito Oliva e Harald Szeemann inauguravano ai Magazzini del sale lo spazio Aperto 80, spazio che avrebbe avuto una certa continuità negli anni e in cui veniva presentata per la prima volta la Transavanguardia in un contesto internazionale. Abbiamo così occasione di incontrare e parlare con gran parte dei personaggi dell’arte e della cultura emergenti in quegli anni come Enzo Cucchi, Mimmo Paladino e Francesco Clemente, non ancora famosi ma già sul trampolino di lancio che li avrebbe resi delle star internazionali; incontriamo inoltre Vito Acconci, Marina Abramović, Hermann Nitsch, James Lee Byars e molti altri artisti affermatisi tra gli anni ’60 e ’70 (L’Arte degli anni Settanta era appunto il tema generale della Biennale di quell’anno). Al Festival del cinema incontriamo Truffaut, Herzog, Fassbinder e molti altri registi e attori che amavamo: personaggi dai modi semplici e disponibili al dialogo, e attorno ai quali non c’era il “cordone di sicurezza” che si vede oggi. Nel luglio dell’80 siamo a Bologna per assistere alla settimana di concerti e performances organizzata dalla Galleria d’arte moderna, e vediamo e conosciamo di persona alcuni dei nostri idoli musicali come Lydia Lunch e la Love of Life Orchestra. Tra il 1980 e il 1982 cui rechiamo a Parigi e Berlino, visitando i musei e le gallerie d’arte più vive della scena di quegli anni, e assistendo a concerti di band oggi considerate mitiche. Nell’81 siamo a Genova, in occasione della serie di mostre e spettacoli organizzata da Germano Celant intitolata Il Gergo Inquieto e incentrata sull’arte/musica/cinema newyorkese del momento, che per la prima volta presenta al pubblico italiano una generazione di artisti che includeva tra gli altri Cindy Sherman, Barbara Kruger, Robert Longo e Robert Mapplethorpe, e con particolare attenzione alla scena No-wave di musicisti e filmaker come Beth & Scott B, Eric Mitchell, Amos Poe, Vivienne Dick, Lydia Lunch, e molti altri protagonisti di quell’epoca.
Nel 1982 iniziamo anche il nostro rapporto privilegiato con Roma visitando la mostra Avanguardia-Transavanguardia organizzata da Bonito Oliva e allestita attraverso un originalissimo percorso lungo le mura Aureliane (si sperimentava anche negli allestimenti, al tempo), dove avvengono nuovi incontri con le star dell’arte del periodo; subito dopo ci rechiamo a Venezia per la Biennale arti visive e saliamo fino a Kassel per l’inaugurazione di Documenta 7, continuando la nostra piena immersione nella cultura artistica di quel momento. Viaggiare non era troppo impegnativo dal punto di vista finanziario: un biglietto aereo per il “continente” costava circa 70mila lire, ma spesso abbandoniamo l’isola con un “passaggio ponte” in traghetto. D’estate, non ci disturba accomodarci per dormire letteralmente sul ponte della nave, con o senza sacco a pelo, dopo aver mangiato un panino, accompagnati dal sottofondo rumoristico-industriale prodotto dal motore della nave e dal suono delle onde: quella strana commistione naturale-artificiale che si addice bene alla nostra sensibilità fin dai tempi delle Rarità Botaniche. A quel tempo non c’era nemmeno bisogno di prenotare alberghi nelle varie destinazioni in cui ci rechiamo: anche nei giorni “caldi” delle grandi inaugurazioni delle Biennali e di Documenta arriviamo direttamente in città e troviamo subito qualche alberghetto economico girando per pochi minuti attorno alle stazioni ferroviarie (il via vai di prostitute, in particolare quelle tedesche, per noi era come un’altra forma d’arte). L’arte contemporanea era già un fenomeno di massa, ma non a livelli ipertrofici e paralizzanti di oggi; ovunque si andasse, sia che si tratti di visitare il Beaubourg, i Musei vaticani o la Sagrada Familia, non occorreva prenotarsi con settimane d’anticipo o fare file di ore e ore. Si viaggiava in totale libertà mentale, improvvisando gli itinerari in base al proprio piacere e spesso perdendo il senso del tempo, senza aver l’occhio in continuazione all’orologio o al telefono cellulare. Anzi: quando siamo in viaggio nemmeno perdiamo tempo a telefonare a casa, e scompariamo per settimane senza che nessuno dei nostri familiari o amici si preoccupi più di tanto.
A Kassel nel 1982 vediamo Joseph Beuys in azione mentre allestisce la sua gigantesca installazione 7000 Eichen, parliamo con Burri e Penone, incontriamo di persona una serie di artisti-chiave per gli anni a venire: Keith Haring, Robert Mapplethorpe, Gerhard Richter, Anselm Kiefer, Jenny Holzer, Hans Haacke, Mario Merz, Günther Brus (che in seguito ricontatterò e andrò a trovare nel suo studio di Graz per scrivere la mia tesi di laurea su di lui). Ogni qual volta torniamo a casa dopo questi viaggi, ci chiudiamo nei nostri studi a lavorare alle nostre opere. Sul finire del 1980 avevo preso in affitto da un parente, per poche lire, un vecchio magazzino in disuso nella zona industriale di Cagliari, per farci il mio studio: Andrea lavora invece a casa sua, un villino isolato sulla cima del colle di Tuvixeddu, sfruttando i grandi spazi del suo cortile che si estendevano fin dentro l’antica necropoli punica, facendosi ispirare dai fantasmi. Praticamente ci incontriamo ogni giorno, collaborando e scambiandoci gli spazi lavorativi senza problemi o rivalità. Ciò che vediamo in giro per l’Europa ci stimola e ci sprona, ma non ne siamo condizionati in modo passivo: il nostro lavoro si sviluppa senza scimmiottare nessuno, seguendo la nostra personale visione dell’arte, adattandosi e mutando forma secondo le suggestioni di uno stile di vita fuori da tutte le consuetudini, inclusi i comportamenti “alternativi” e le trasgressioni della generazione del dopo-Punk, la nostra generazione. Diventiamo come due alieni, atterrati su un’isola; e d’altronde non abbiamo mai voluto essere nient’altro che questo. Il modo di vestire, di muoverci, e persino il linguaggio che usiamo per comunicare tra di noi subisce una mutazione. Spesso chi ci frequenta prova difficoltà a intendere persino ciò che ci diciamo, tanto i nostri discorsi sono costruiti su allusioni o riferimenti esoterici a un nostro mondo personale ed esclusivo. Nonostante questo, siamo tutt’altro che isolati: viviamo connessi all’interno di una rete non virtuale, ma fatta di contatti reali, che presto ci permette di entrare in rapporto e collaborare attivamente con alcune tra le realtà più vive della cultura italiana dell’epoca, come il gruppo teatrale Falso Movimento a Napoli o la rivista Frigidaire a Roma. La nostra attività artistica si nutre di molti incontri, da Stockhausen a Sun Ra, da Leo de Berardinis a Costantino Nivola; parliamo con tutti, da tutti assorbiamo stimoli e idee. Quando l’accesso a un evento, a un party o a un’inaugurazione era troppo esclusivo, o vi fosse un biglietto troppo esoso da pagare, non ci mettiamo problemi a scavalcare steccati, cancelli o finestre ed entrare di straforo… non c’erano troppe videocamere di sorveglianza, evidentemente. Nessuno ci chiede credenziali o lasciapassare; siamo accolti dappertutto nel migliore dei modi perché possediamo ciò che gli anni Ottanta chiedono da noi: siamo giovanissimi, belli, alieni, sappiamo tutto di tutti e abbiamo un taglio di capelli assurdamente perfetto. Chiunque abbia vissuto quel periodo lavorando nell’ambiente dell’arte, del teatro, della musica, del fumetto, potrà descrivere la grande energia (e circolazione di denaro) che si percepiva nell’aria, sia a livello italiano che internazionale. Gli “anni di piombo” erano finiti; Roma era ancora un centro importante dell’arte contemporanea in cui transitavano i maggiori artisti e mercanti del pianeta (no, non sto vaneggiando), e anche nel contesto più piccolo e marginale della Cagliari del tempo il nostro lavoro e la nostra vita tende a assumere ritmi frenetici, amfetaminici. Quando le giornate sono troppo brevi per l’eccesso di cose da fare, si rinuncia al sonno, e va bene così. E quando nel 1982 ci fu prospettata l’eventualità di esporre alla Galleria comunale, nonostante la giovane età avevamo già realizzato opere sufficienti come numero e ambizione qualitativa per poter progettare due nostre rispettive mostre personali negli ampi spazi del piano terra del museo. Al momento di presentare il mio progetto di mostra personale a Ugo, mi si poneva un dilemma. Avevo diverse opere a disposizione, ma non mi andava di organizzare una cartella con le foto in bell’ordine, con le didascalie e tutto il resto, per portarla a far vedere a qualcuno. La proverbiale “cartellina”, il book d’artista, questo buffo accessorio, non ha mai fatto parte del mio modo di rapportarmi alla scena dell’arte, nemmeno negli anni successivi. Inoltre, mi rendevo conto che le foto delle mie opere non riuscivano in alcun modo a dare il senso del lavoro e delle tecniche usate, spesso di mia invenzione e lontane dalla tradizione. E le opere erano anche assai differenti tra di loro, prodotte sul filo di un libero percorso mentale e non di applicazione rigorosa su una specifica tecnica, per cui immaginavo una certa difficoltà nel metterle in relazione all’interno di una ricerca “coerente” se non tramite un’adeguata spiegazione del loro senso di origine, esclusivamente concettuale. Come artista, vivevo con una certa partecipazione quel momento dei primi anni ’80 in cui esplode un forte interesse per l’immagine figurativa, il ritorno alla manualità e alla pittura di matrice neoespressionista, il citazionismo visivo del Postmoderno; la mia provenienza era comunque l’arte concettuale, l’operazione mentale legata alla performance, all’uso del corpo e della fotografia. Decido quindi di tralasciare del tutto la presentazione di immagini di opere e concentrarmi sul senso concettuale e “linguistico” del mio progetto di mostra. Scrivo un testo che traccia un percorso analitico di una quindicina di opere scelte tra la produzione degli ultimi due anni, cercando di spiegarne i concetti-base ma senza allegare alcuna immagine di riferimento: un progetto di mostra scevro da riproduzioni di opere, strutturato come puro sentiero attraverso un labirinto mentale.
Il rifiuto di concentrarsi su un’unica tecnica, su un sistema di segni riconoscibile, per usufruire invece delle possibilità presenti nei vari linguaggi artistici, mi appariva la soluzione più consona all’infinita ricchezza delle esperienze del mondo, reale o mentale che fosse, che a 19 anni mi si apriva davanti. Ancora oggi a essere importante non è la parlata che si usa, non è l’identità linguistica, ma la capacità di arricchimento o mutazione imprevedibile del discorso sotto le diverse prospettive o commistioni di linguaggi differenti (l’idea di “identità” veniva proprio fatta a pezzi, nel mio scritto). Era questo il mistero da indagare in quel momento: la lingua è importante solo se apportatrice di Mistero, o di caos, e non di “spiegazioni”. E un vero poliglotta può anche inventare nuove lingue dal nulla.
Partivo da queste e da altre riflessioni per fare poi riferimento a una serie di mie opere lungo un testo di sette o otto pagine; lo feci dattiloscrivere a mia sorella e mi recai in Galleria per consegnarlo a Ugo. Sul posto, mi accolse il custode del museo che ritirò lo scritto assicurandomi che lo avrebbe consegnato al direttore, e suggerendo di tornare qualche giorno più tardi per avere una risposta, il responso positivo o negativo sul mio progetto di mostra.
Alcuni giorni dopo tornai in Galleria per incontrare Ugo. Mi accoglie il custode, che mi dice di salire al primo piano perché il direttore mi attendeva nel suo studio. Ricordo benissimo quei momenti, e i pensieri che avevo in testa mentre salivo le scale del museo osservando scorrere al mio fianco le opere di Paolini, di Castellani, di Rotella, di Griffa, di Pomodoro, di Staccioli: “che perdita di tempo”, pensavo, “è molto improbabile che mi si conceda questo spazio per fare una mostra personale a soli 19 anni e senza aver nemmeno presentato la foto di un quadro”. Ritenevo difficile credere che il mio scritto potesse essere in qualche modo intellegibile, soprattutto agli occhi di una persona di un’altra generazione. Temevo inoltre che l’episodio della sculturina-autofellatio e della presa per i fondelli di un paio d’anni prima avesse in qualche modo compromesso l’immagine di artista “serio” che avrei dovuto avere agli occhi di un direttore di museo. In quel momento Ugo non era ancora un “amico”, e le occasioni di incontrarlo e di parlarci fino ad allora erano state pochissime.
Nello slow-motion dei ricordi mi appare il momento in cui, attraversando il primo piano della Galleria, passo di fronte allo Spazio Elastico, l’installazione ambientale di Gianni Colombo costituita da una stanza dipinta di nero al cui interno una griglia di corde elastiche luminose si deforma, si allunga e si restringe grazie all’azione di motorini nascosti, deformando la prospettiva di chi vi stia in mezzo; davanti all’ingresso dell’installazione mi viene l’idea di deviare dal mio percorso e rinunciare all’incontro con Ugo, per perdermi nei meandri mentali di tale alterazione di coordinate spaziali. Più avanti ancora, ecco l’Ambientecronostatico degli artisti Boriani e De Vecchi, una camera oscura di forma cilindrica in cui una lampada pendente dal soffitto fino al centro dell’ambiente emette un flash di luce in modo da fissare per qualche tempo le ombre degli spettatori sulle pareti rivestite di carta speciale: mi viene in mente di entrarvi, di accendere la lampada e di scattare un selfie alla mia ombra, bloccando per pochi attimi il momento del mio fallimento.
(Installazioni come quelle sarebbero degne della considerazione che oggi si concede ad artisti come Eliasson, eppure sono state smantellate e distrutte per sempre.)
Oltre la fila di sale del museo, al termine del corridoio del primo piano, si apriva lo studio del direttore; mi avvicino alla porta semiaperta, busso, chiedo permesso e faccio capolino dentro la stanza. All’interno noto Ugo seduto in controluce di fonte alla finestra da cui si intravedono gli alberi del parco e una porzione di cielo piuttosto nuvoloso; in mano ha il mio testo e sta finendo di leggerne le ultime righe proprio in qual momento. Appena mi vede, balza dalla sedia e mi accoglie a braccia aperte: “carissimo! Complimenti, ho appena letto il tuo scritto ed è interessantissimo, non vedo l’ora di fare la tua mostra!”
Se qualcuno poteva capire il senso di quel testo, era Ugo. È abissale la differenza, sotto molti punti di vista, con certi altri dirigenti di museo incontrati negli anni a venire. Fu Ugo, inoltre, a volere che il mio testo fosse stampato e presentato in mostra come introduzione al mio lavoro – cosa che feci con l’aiuto di Salvatore Naitza, docente di Storia dell’arte contemporanea all’università, che volle leggere lo scritto in anteprima e discuterlo con me nel suo studio alla Cittadella dei musei, e che mi offrì l’uso gratuito del ciclostile della Facoltà per riprodurre lo scritto nel numero di copie necessarie.
Fu così che io e Ugo decidemmo di calendarizzare la mostra per l’inizio di novembre ’82. Mi sembra fosse la terza o la quarta della serie di personali che Ugo volle dedicare ad artisti contemporanei viventi – ma non giovani quanto me, che divenni da allora l’artista più giovane a cui una struttura museale italiana abbia mai dedicato una retrospettiva (titolo che probabilmente detengo tutt’oggi). I soldi per organizzare le varie mostre erano veramente pochi, ma agli artisti veniva garantito l’indispensabile, come ad esempio la stampa e la spedizione di cartoncini d’invito “ad hoc”, che ogni artista poteva personalizzare come meglio credesse. Io ritenevo che niente meglio dell’invito stesso si potesse prestare alla realizzazione di un’opera d’arte concettuale. A questo proposito pensai di realizzare il mio cartoncino d’invito come un’opera a doppia faccia (una tipologia di quadri che avevo in mente da tempo e che iniziai a produrre l’anno successivo). Su una faccia dell’invito, il lato principale con l’intestazione del museo, le date, ecc., sarebbe apparso un mio ritratto fotografico vintage, stile bianco/nero anni ’50, in giacca e cravatta e nella classica posa da foto-ricordo (l’ispirazione veniva da alcune copertine di dischi tipo l’edizione tedesca di Trans-Europe Express, l’album dei Kraftwerk del 1977, ma anche da certe foto pubblicitarie di band New-wave di gusto retrò o citazionista tipo quelle dei Soft Cell, Specials, Blue Rondo à la Turk, ecc. – oltre a Bowie, ovviamente). L’altro lato del cartoncino d’invito avrebbe dovuto presentare un’altra mia foto-ritratto, identica alla precedente come posa e espressione ma con me nudo e la mia faccia striata da rivoli di sperma. Entrambe gli scatti vennero realizzati nell’autunno dell‘82 nello studio fotografico di un amico, ma al momento della stampa del cartoncino d’invito sorsero dei problemi sulla divulgazione così ampia di un’immagine dai contenuti esplicitamente sessuali. Non fu Ugo a porre tali problemi; forse alla fine pensai io stesso di rinunciare all’idea di un invito di quel tipo anche per sopraggiunti scrupoli di carattere familiare, non ritenendo corretto imporre ad altri membri della mia famiglia la scelta di inviare a mezza città una fotografia che poteva essere soggetta a reazioni controverse e interpretazioni ingiuriose.
L’opera fotografica con lo sperma in faccia, intitolata Disegno, fu di fatto esposta in mostra, ma l’invito presentava solo l’immagine col look “giacca e cravatta”. Per aggiungere un tocco di ironia alla mia rinuncia, insistetti per far plastificare la foto sul cartoncino dell’invito in modo che ogni singola copia avesse una tonalità di diverso colore, e in questa versione arcobaleno l’invito fu inviato al pubblico dell’arte cittadino e nazionale. Pochi mesi fa uno dei miei inviti plastificati è stato riesumato, senza chiedermi il parere, per essere inserito in una mostra di carattere storico in un museo – ma privo della vicinanza e del confronto con il corrispettivo ritratto fotografico più “esplicito” il senso originario dell’operazione si perdeva del tutto.
Lavorare sulle strutture linguistiche della mostra, sul nucleo concettuale dell’idea di museo-galleria, e utilizzare tutto questo in modo creativo, più che semplicemente esporre una serie di opere, era ciò che mi interessava maggiormente nel 1982. In mostra erano presenti circa una quindicina di lavori di vario tipo, dalle opere fotografiche ai Ritagli-Ritratti realizzati ritagliando su carta velina precedentemente piegata i profili delle persone che incontravo nel mio “viaggio” attraverso l’arte (inclusi l’Ugo e l’Eminenza Bionda). Erano presenti anche alcuni disegni, opere pittoriche e un visore per diapositive che faceva scorrere a rotazione su schermo le immagini delle Rarità Botaniche realizzate con Andrea. Ma il mio intento era trasformare l’intero evento espositivo in una sorta di performance, creare un cortocircuito tra il concetto-base dello spazio espositivo e le contraddizioni e i filtri culturali di un contesto sociale in cui un’opera viene percepita e valutata.
Avendo notato che nelle vicinanze della Galleria comunale era situata una clinica ortopedica (oggi trasferita), e passandoci di fronte tutti i giorni durante l’allestimento della mostra, mi venne l’idea di avvicinare qualche paziente che transitava i quei paraggi per invitarlo a vedere la mia esposizione. Ebbi cura di scegliere i pazienti che presentassero seri problemi deambulatori o handicap fisici, e che necessitassero l’uso di attrezzature come sedie a rotelle, stampelle, collari anatomici, ingessature agli arti. Una volta preso appuntamento in Galleria con i pazienti della clinica, mi misi d’accordo con un fotografo per scattare alcune foto a questo particolare tipo di pubblico. Coinvolsi anche alcuni personaggi del mondo dell’arte cittadino, facendo indossare loro protesi anatomiche e fotografandoli in mostra tra i veri pazienti (in particolare davanti al quadro Marmo Malato, 3,15 metri di pittura serigrafata su fòrmica) come fossero anch’essi reduci da qualche infortunio o vittime di un handicap fisico. L’intera serie fotografica che ne trassi consta di 10 immagini ed è intitolata” Il Sistema dell’Arte”. E allora, tornando a Ugo… c’è ancora un ultimo ricordo da sciorinare. All’inaugurazione della mostra si recò anche mio padre, persona molto lontana per gusto e interessi dalle tematiche dell’arte contemporanea – al punto da non capire nemmeno l’opera di un Picasso, per intenderci. Ciò che andavo facendo in quegli anni, e in generale il mio stile di vita, gli appariva come qualcosa di talmente alieno e incomprensibile da bloccargli persino la facoltà di giudizio. Non ho mai subìto alcun tipo di critica o di ostruzionismo da mio padre riguardo al mio lavoro, ma è evidente che alcuni esiti “estremi” che tendevano a coinvolgere la mia persona fisica potessero causargli una forma di apprensione e forte perplessità; per questo, evitavo il più possibile di metterlo al corrente di certe “operazioni artistiche” che andavo facendo (le quali erano però ben documentate in mostra). Nonostante Ugo fosse di qualche anno più giovane di mio padre, e avessero preso strade diverse nella vita, facevano parte della stessa generazione e si conoscevano di vista fin da ragazzi. Nel corso dell’inaugurazione notai Ugo prendere in disparte mio padre e dirgli che la mia mostra era la cosa di gran lunga migliore che fosse stata organizzata in quello spazio. Vidi il volto di mio padre illuminarsi, poiché conosceva la reputazione di Ugo come rispettata figura culturale, oltre che gran galantuomo – e un galantuomo, agli occhi di mio padre, non poteva sbagliare. Da quel momento in poi, almeno per i dieci anni che gli restavano da vivere, l’atteggiamento di mio padre nei confronti del mio lavoro è stato molto più rilassato e sereno. Pur continuando a non capire.
La mostra, organizzata con un budget ristrettissimo e quasi per niente pubblicizzata, andò abbastanza bene ma non ricordo se qualcuno si disturbò al punto di scriverne la recensione. Non ho conservato alcun articolo, in ogni caso. Immediatamente dopo il ritorno delle opere in studio, ero già in viaggio – molto lontano dalla Sardegna, sempre di più.
CAPITOLO IV
OR :
A un certo punto l'idillio però si rompe. Non conosciamo bene le reali ragioni, ma sappiamo che a Ugo viene tolta la carica di direttore presso la Galleria Comunale di Cagliari. Saremmo curiosi di sapere da voi cosa successe, quali furono le conseguenze, come in sostanza mutò la vita artistica cittadina e la vostra senza più Ugo.
ENRICO CORTE :
L’attività di Ugo come direttore della Galleria comunale durò fino al 1985, dopodiché in Comune si decise di assegnargli mansioni del tutto differenti dall’arte, da svolgere in altri uffici, per quei due anni scarsi che gli rimanevano prima del pensionamento. Le motivazioni, del trasferimento prematuro furono, come spesso avviene in questi casi, probabilmente di natura politica; c’è da dire comunque che da tempo i finanziamenti pubblici alla Galleria si erano drasticamente ridotti e quindi si viveva un forte stallo già da prima. Questo non impedì a Ugo, finché stette in Galleria, di continuare per un certo tempo a organizzare la sua serie di personali di artisti contemporanei. Il guaio fu che dopo il trasferimento di Ugo la collezione contemporanea da lui ideata e realizzata fu smantellata e immagazzinata per troppo tempo in spazi inadeguati, per lasciar spazio a una raccolta d’arte del primo ‘900 donata al Comune di Cagliari da un’erede del collezionista laziale Francesco Paolo Ingrao. Ciò ha comportato il danneggiamento e la perdita irrecuperabile di alcune opere di valore della “collezione Ugo”.
Dopo la mia personale in Galleria, io trascorsi una parte del 1983 a Londra, tornando di tanto in tanto in Italia e continuando a seguire le mostre organizzate da Ugo nello spazio da lui diretto. Tra queste, mi piace ricordarne un paio, che ritengo indicative dello spirito con cui Ugo sceglieva gli artisti e organizzava le loro personali.
La prima è la mostra di Paolo Calia, fotografo di moda, arredatore, scenografo, pittore e scultore con esperienze di lavoro e di amicizia con Fellini (vi collaborò per il Casanova, ma i due rimasero amici per anni). Paolo si trasferì da ragazzo dalla natia Sardegna a Roma e in seguito a Parigi; in questa città trova la sua dimensione ideale all’interno dell’esperienza Les Frigos: un’enorme edificio industriale nel 13° arrondissement, splendidamente trasformato in case-studio per artisti in cui si installa e costruisce una sorta di fantasmagorica “Reggia camp”. Invitato da Ugo nel 1983 ad allestire una personale in Galleria, Paolo torna dopo tanti anni in Sardegna e si porta dietro una schiera di personaggi del mondo della moda parigina, stupende modelle e prestanti modelli trasferiti dalle passerelle chic alle sale del Museo, con costumi-sculture coloratissimi, realizzati da Paolo con materiali stravaganti o “di scarto”: materie plastiche mescolate a tulle e lustrini; pizzi, merletti e passamanerie cuciti assieme a oggetti di banale uso quotidiano, e via dicendo. Alle pareti, una serie di pitture figurative di gusto camp e fumettistico ma pervase di citazioni “colte” si alternavano a fotografie rappresentanti modelli dalla sessualità fluttuante traboccanti di paillettes in pose provocanti e piene d’ironia. Una mostra-performance che trasformò per una sera le sale della Galleria in un angolo della Parigi a confine tra arte, moda, cinema e puro sberleffo provocatorio. Paolo “dirigeva” i suoi modelli come fosse il Fellini della situazione, facendoli andare su e giù, facendo loro accennare passi di danza, incitandoli a strusciarsi contro il pubblico, ecc. Ricordo lo sguardo disgustato della guardia giurata che presidiava la Galleria, non avvezza all’esibizionismo sfacciato di Paolo; ricordo l’intervista offensiva e omofobica che gli venne fatta nei giorni successivi da un giornalista in un’emittente televisiva locale, e della quale venne a lamentarsi con noi… E ricordo la perplessità di Ugo di fronte a tanta ostilità preconcetta nei confronti di Paolo e della sua arte: “qui lo guardano male perché dicono che sia omosessuale”, mi diceva Ugo, “ma che importanza può avere! Io poi non so nemmeno se lo sia, omosessuale! Come fanno a dirlo??”
Era questa la grandezza di Ugo: qualsiasi pregiudizio gli era così distante da non capire nemmeno da cosa potesse nascere.
La seconda mostra che voglio ricordare è quella di Ornella Etzi, una delle poche donne incluse nel calendario delle mostre di quegli anni – non certo per colpa di Ugo, ma per via di una situazione culturale ancora troppo improntata su un maschilismo dominante che schiacciava a priori la creatività femminile. Ornella faceva parte di un gruppo di giovani creativi riuniti sotto il moniker Star System: non artisti provenienti da studi accademici, ma poeti e scrittori di formazione Rock (modello Patti Smith, per intenderci), musicisti New-wave, videomaker, fotografi, DJ. Il gruppo, già presente con un loro intervento all’interno della mostra Immagini Sonore, era costituito da un mutevole via vai di ragazzi e ragazze di belle speranze, ma aveva un nucleo portante fisso di cui facevano parte Ornella, Roberto Podda, e Roberto Coroneo (che in seguito fece una brillante carriera universitaria diventando uno studioso di arte medioevale di rilievo e preside della Facoltà di lettere e filosofia di Cagliari). Tutti loro, più anziani di qualche anno di me e di Andrea, erano nostri amici di vecchia data: li incontrammo alla fine degli anni ‘70 nella sede di Radio Alter, la radio del Movimento del ’77 cagliaritano, dove conducemmo molte trasmissioni su arte e musica, e in seguito nella sede regionale della Rai, in cui tutti noi trasferimmo la nostra esperienza di conduttori e DJ in un contesto più professionale.
Lo Star System fu un fenomeno effimero e realizzò pochissimi eventi (ricordati oggi da pochissime persone), ma questi risultarono essere tra i più divertenti e provocatori visti in città in quei primi anni Ottanta. Una volta organizzarono una performance in via Millelire, in pieno centro cittadino, che voleva creare una certa scossa nel contesto sonnacchioso di Cagliari; furono spediti in giro alcuni inviti a un “evento” abbastanza poco chiaro, e poi si diffuse la notizia col passaparola. In via Millelire vi era l’appartamento di Roberto Coroneo, all’ultimo piano di uno stabile degli anni ’30; si tratta ancora oggi di una strada un po’ appartata, stretta e lunga, che collega due grosse arterie piene di traffico e negozi, e quindi era la locazione ideale per preparare “in sordina” un evento che comunque attirasse un gran numero di persone. Una sera verso le 19 si sentì un’assordante sirena echeggiare per tutto il quartiere, proveniente da via Millelire: la gente accorreva sul posto e trovava un fortissimo fascio di luce proiettato dall’attico di Coroneo verso il marciapiede antistante l’edificio. Nel punto illuminato dal fascio di luce si trovava Ornella, come fosse morta: vestita con un abito nero da Dark lady anni ’40 perfetto in ogni minimo dettaglio e sdraiata a terra con la faccia contro il marciapiede, stava immobile circondata da un segno in gesso come si usa sulla scena di un crimine. Dopo qualche minuto di questa statica rappresentazione, mentre la sirena continuava a frastornare l’intero quartiere, si vide arrivare una pattuglia della Polizia che caricò Ornella e tutto lo Star System per portarli in Questura (non ho mai capito se questo intervento fosse previsto nella performance o meno). Qualche giorno più tardi, lo Star System organizzò nell’appartamento di Roberto una sorta di evento post-performance: le persone invitate si trovavano semplicemente a vagare tra le stanze buie e semivuote dell’appartamento, mentre una serie di enigmatici ragazzi e ragazze con cineprese a mano riprendevano silenziosamente il pubblico, senza peraltro chieder loro il permesso.
Star System ebbe la capacità di attrarre un folto pubblico di giovanissimi – più legati al mondo della musica New-wave, del cinema noir, delle fanzine e del fumetto d’autore, che alle gallerie d’arte – e ciò fece sì che alla personale-performance di Ornella alla Galleria comunale nel 1983 si presentò la folla delle discoteche del sabato sera: troppa gente per poter addirittura essere contenuta negli ampi spazi del Museo. Ricordo poco di quella mostra, sia perché si trattava di un evento tra teatro e Performance art di una sola serata (nei restanti giorni erano presenti solo materiali video o fotografie), sia per via della calca che ostruiva letteralmente la scena. Oltretutto venivano proiettati verso il pubblico dei fasci di luce accecanti che disturbavano la percezione dell’azione (be’, quest’idea però la copiarono dai Throbbing Gristle). Rammento solo sprazzi di immagini intraviste tra l’ondeggiare invadente di un pubblico che i restanti membri dello Star System dovevano tenere a bada o respingere con forza addirittura usando gigantesche grate di legno, con Ornella ferita morte da una pistolettata o roba simile che si trascina agonizzante lungo i muri della Galleria in abito anni ’40, sotto flash stroboscopici e mentre impazza una base di musica elettronica.
Ancora una volta, queste presenze in Galleria attestano la grandezza di Ugo: il suo non limitarsi a prediligere artisti “professionisti”, diplomati, con curriculum accademici e tutte le altre carte in regola. Paolo Calia e Star System rappresentavano altri aspetti della creatività, esterni alla pittura e scultura classicamente intese ma con forti legami con la comunicazione contemporanea, con i nuovi media, con quel tipo di sensibilità tra Pop elettronico, Nuova spettacolarità, video e moda che diverrà caratteristica di quello stralcio di anni Ottanta anche a livello internazionale. Per un uomo della generazione di Ugo, proveniente da una differente formazione culturale e ideologica, non è merito da poco aver percepito e accettato da subito questo cambiamento.
Poi avvenne il trasferimento di Ugo, il suo abbandono della Galleria, a malincuore. Io e Andrea continuammo a incontrarlo ogni tanto. Ci si vedeva alle mostre o in occasione di altri eventi culturali, e allora, in quegli spazi dell’arte che non erano più “il suo”, ritrovavo comunque l’Ugo di sempre, ancora pronto a intendere l’arte come qualcosa da toccare, da palpeggiare, da annusare, da far risuonare, e non solo da osservare a distanza con un senso di sacralità come davanti a un Caravaggio (peraltro, io una volta ho effettivamente toccato la superficie pittorica del Bacco di Caravaggio!). Mi ricordo di quando Ugo si fermava davanti a un quadro – un quadro qualsiasi in una della tante mostre cittadine in altri spazi espositivi – e ne sfiorava delicatamente col dorso della mano la superficie dipinta, per ritrovare il rapporto tattile ma prudente che aveva con le opere della Collezione, col Fleximofono di Fogliati, con la Superficie di Castellani o con il Portagiri di Agnetti, di cui ha già parlato Andrea. E ricordo che in quei casi, quando Ugo “allungava le mani”, interveniva un sorvegliante a redarguirlo per la sua inosservanza delle regole, per aver toccato un’opera… allora Ugo con uno sbuffo e un gesto d’insofferenza si girava di nuovo verso il quadro e continuava imperterrito a toccarlo, provocando il totale sbigottimento del sorvegliante che correva a chiamare qualcuno di più autorevole per fermare il trasgressore…
A volte Ugo veniva a trovarmi nel mio nuovo studio in cui mi ero trasferito a partire dall’estate del 1983, un appartamento al piano terra in via Donizetti a Cagliari. Quello studio, dove a volte si trasferiva anche Andrea per lavorare, nel corso del tempo divenne un po’ il punto di ritrovo di artisti, musicisti e operatori della cultura della Cagliari di quegli anni, e Ugo partecipava a questi incontri. Certo si sentiva la mancanza di quelle occasioni “istituzionali” che Ugo creava con le sue iniziative in Galleria; ad ogni modo, dalla seconda metà degli anni ’80 io e Andrea stavamo il più possibile lontani dalla Sardegna, frequentando soprattutto Roma, per cui la nostra attenzione era ormai rivolta altrove. A Napoli e Roma iniziamo a fare le nostre collettive e personali tra il 1986 e il 1989; nella Capitale soggiorniamo sempre più spesso e a lungo, troviamo il sostegno di vari collezionisti ed entriamo in confidenza con una serie di artisti da noi stimati. E’ ovvio che, soprattutto dopo la mia laurea, restare a Cagliari mi apparisse come una perdita di tempo. Il rapporto con la nostra città divenne schizofrenico, portandoci a eccessi come il chiuderci nello studio di via Donizetti per un mese filato, letteralmente senza mai uscire (a parte il prender aria nel cortile-giardinetto sul retro, di mia proprietà) e concentrandoci su noi stessi e il nostro lavoro in modo sempre più ossessivo, con una gentile amica che ci lasciava fuori dalla porta d’ingresso un cestino col pranzo e la cena cucinati da lei, e una borsa con una serie di dischi da lei comprati su nostra indicazione (la musica: il nostro vero carburante vitale).
Col finire del decennio, che aveva visto anche chiudere quel paio di gallerie private operanti con continuità negli anni Settanta-Ottanta, Cagliari entrò in uno stato di totale stagnazione: lo slancio che il “meccanismo” culturale di Ugo aveva innestato nell’ambiente artistico cittadino si inceppò irrimediabilmente senza la sua presenza alla direzione della Galleria. Inoltre, gli artisti della generazione precedente invecchiavano, immalinconiti dalle frustrazioni, e i “nuovi” non apparivano animati dallo stesso afflato, dalla stessa voglia di cambiare la Società e la cultura che ci si aspetterebbe da dei giovani. Anche i pochi collezionisti presenti in città, mancando galleristi di riferimento, smisero di comprare arte. Io e Andrea in quel contesto fummo sempre visti come gli alieni di sempre, creando brevi alleanze con altri artisti o giovani critici, ma senza notare in loro una reale convinzione nei nostri confronti. Riguardo ai critici sardi, ci sembrava di incontrare soprattutto personaggi privi di passione e interessati a usare gli artisti per la loro carriera, indirizzata verso l’ambito universitario o istituzionale: territori da cui noi ci tenevamo alla larga. Per crearsi un curriculum erano obbligati a coinvolgere gli artisti contemporanei nelle loro iniziative curatoriali, ma la loro adulazione e i complimenti si trasformavano presto in spregio e noncuranza quando gli artisti non servivano più. A parte questo loro fastidioso opportunismo, non poteva che creare infiniti malintesi l’insistenza di certi critici nel volerci inserire a forza nel contesto “identitario” della giovane arte sarda: una chiave di lettura assai utile a loro per aprire le porte delle Istituzioni, ma che noi vivevamo come una forzatura, un limite. Per noi non era possibile costruire nulla su queste basi.
Io vendetti il mio studio nel 1990 e usai il ricavato per comprare un rudere semidiroccato a Roma, che nel corso del ’91 restaurai io stesso con l’aiuto di Andrea. Nel ’92 mi trasferii definitivamente a Roma con Andrea, in quel rudere che trasformammo in una splendida e direi stravagante villetta rustica con giardino, grande abbastanza per viverci e lavorarci. Ugo fu l’unica persona del mondo dell’arte cagliaritano che andai a salutare a casa sua prima del mio ultimissimo trasloco, reduce tra l’altro dal recente funerale di mio padre; una tristissima sera di novembre in cui la città mi sembrava veramente sgretolata in un pozzo di noia e di squallore. Fu un incontro pieno di rimpianti per tutti i progetti che avrebbero potuto nascere, ma che non videro mai la luce. Un Ugo pensionato… strano a pensarci.
Fu solo dopo qualche tempo che mi resi conto di una curiosa coincidenza astrale: la data della sera di novembre del mio addio a Ugo coincideva con l’inaugurazione della mia personale alla Galleria comunale, dieci anni prima. Decisamente un ciclo si era concluso, ma bisogna ammettere che terminò con un tempismo piuttosto bizzarro: una di quelle paradossali coincidenze che spesso si trovano nelle storie newyorkesi di Paul Auster, e che solo anni dopo, vivendo a New York e incrociando parecchie coincidenze di quel tipo, ho capito essere molto meno improbabili di ciò che si potrebbe pensare.
Passarono sette anni prima che mettessi ancora piede in Sardegna – e per un giorno solo: ripartii in serata e tornai la seconda volta solo dopo ulteriori due anni di assenza totale.
Niente Sehnsucht nel mio caso, poco ma sicuro.
ANDREA NURCIS :
Non vi fu mai nessun vero idillio tra il progetto di Ugo e la massa dei cittadini con i loro amministratori pubblici. Nonostante che quegli anni rappresentassero un momento culturale vivace, con forti segnali di cambiamento dei quali arrivava qualche sentore anche nell’isola, Cagliari continuava ad essere come quello stomaco che nella fase di digestione ci fa cadere in un profondo e passivo torpore, riprendendo una metafora letteraria che uno scrittore del passato del quale non ricordo più il nome, usò per descrivere la sensazione che ebbe entrando in città. Se la collezione di Ugo da subito ottenne una risonanza nazionale con articoli come quello sul Corriere della Sera – in cui il giornalista si chiedeva perché a Milano non si riuscisse a creare una collezione pubblica di tale livello – a Cagliari l’accoglienza non fu tanto calorosa: una società ossessionata dal problema identitario e dalla continua ricerca delle proprie radici, probabilmente in quello specifico progetto di collezione – dalla vocazione totalmente internazionale – non riusciva a identificarsi come avrebbe voluto, percependola quindi come un elemento di “colonizzazione”, estraneo alla cultura locale.
Ugo era sempre pieno di idee e progetti e ogni volta che lo si andava a trovare nell’ufficio della Galleria non perdeva occasione di parlarne, anche se credo che lui stesso avesse la consapevolezza che l’amministrazione pubblica non gli avrebbe mai concesso la possibilità di realizzarli. Ad esempio, fu sua l’idea di recuperare le grotte sul costone dei giardini pubblici antistanti la Galleria per ampliare gli spazi espositivi: aveva addirittura chiamato di sua iniziativa degli ingegneri per capire come eliminare i problemi dell’umidità e dell’areazione. Ugo era interessato ad avere spazi specifici da dedicare alla sperimentazione e alle esperienze artistiche che necessitassero di luoghi meno formali delle asettiche sale del Museo. Per dire come le sue idee fossero così avanti, solo dopo più di 20 anni il comune di Cagliari ha capito l’importanza di recuperare quelle grotte per destinarle a scopi simili a quelli pensati da Ugo.
Un’altra delle sue idee era quella di coinvolgere nella mostra l’intero giardino, collocandovi sculture e interventi artistici. Essendo un artista, Ugo aveva una progettualità dal carattere creativo e visionario che, negli anni successivi, si sarebbe sviluppata nella direzione adottata oggi da molti musei internazionali: dei laboratori per l’arte in cui gli artisti non avrebbero avuto solo la possibilità di esporre ma anche di creare progetti specifici.
Ecco allora per fare un altro esempio che affiora alla mia memoria, l’intenzione di chiedere allo scultore Mauro Staccioli, già presente nella collezione, di collocare un suo Cuneo di acciaio sulla parete di roccia sovrastante a strapiombo i giardini e la Galleria. Sarebbe stato un segno di fortissimo impatto a livello urbanistico ed estetico, e avrebbe rappresentato una delle prime occasioni pubbliche offerte a uno scultore, Staccioli, oggi considerato internazionalmente come uno dei più grandi artisti per quanto riguarda il discorso tra scultura e interazione con l’ambiente e paesaggio.
Per Ugo non è possibile chiudere l’arte in nessun tipo di gabbia e il suo atteggiamento di curiosità e rispetto nei confronti di ogni fenomeno estetico ed espressivo gli permetteva di cogliere sempre “l’ossatura” formale, l’essenza delle motivazioni e il valore storico dei fenomeni artistici davanti a cui si trovava.
Così era perfettamente consapevole di come la sua collezione, se non aggiornata, rischiasse di entrare in una fase di decadenza diventando una mera archiviazione storica; cosa che avrebbe accettato mal volentieri convinto appunto che l’importanza del museo è innanzitutto quello di rapportarsi alla realtà, ai suoi flussi e anche alle sue contraddizioni. E il fatto che il Comune gli negasse le risorse economiche per attuare questa possibilità, credo che gli abbia sempre creato una certa sofferenza.
Aprire la galleria almeno a ciò che di nuovo stava accadendo nella realtà artistica locale era probabilmente la modalità in quel momento più fattibile e praticamente a costo zero di cui Ugo disponeva per continuare a rendere vivi gli spazi del Museo.
La galleria era inoltre un punto di riferimento sempre aperto e disponibile per personalità del mondo dell’arte di passaggio a Cagliari. A volte Ugo telefonava a casa e familiarmente scambiava qualche gentile parola con mio padre o mia madre prima di chiedere di me: “Andrea domani pomeriggio viene Mimmo Rotella a trovarmi in galleria, se passi te lo faccio conoscere!” Rotella mi apparve piuttosto spaesato, con una voce metallica e un aspetto un po’ sconvolto come di una persona stanca appena scesa dall’aereo dopo un volo non particolarmente tranquillo. Indossava un lungo cappotto che gli arrivava sino ai piedi la cui parte inferiore presentava un ampio strappo sfilacciato. Tra noi dopo ci chiedemmo cosa potesse aver causato quello strappo talmente lacero da far apparire quel cappotto come un vero e proprio cencio raccattato per la strada. Rotella sembrava reduce da qualche pericolosa avventura… lo immaginavo improvvisamente fuggito da qualche brutta situazione…
Un’altra volta Ugo mi chiamò per dirmi: “Andrea, portami un po’ di immagini del tuo lavoro; devo incontrarmi in Galleria con Gillo Dorfles e voglio fargli conoscere sia il tuo lavoro che quello di Enrico… avvisalo tu per favore!”
Ecco, l’amicizia con Ugo con la sua generosità e il suo lavoro di direttore e artista furono per me motivi importanti di crescita, penso di averlo già espresso in altre risposte ma mi piace sempre ribadirlo. Un’amicizia che rimaneva sempre viva e forte nonostante avessi iniziato con Enrico a viaggiare e in qualche modo ad allontanarmi sempre di più da Cagliari.
Lo smantellamento della Collezione Ugo in fondo coincise con l’iniziale decadenza e degrado politico e culturale in cui il nostro paese è entrato da almeno una ventina d’anni e ancora non sembra capace di uscirne. Il fatto che la collezione fu fatta “sparire” in malo modo per essere sostituita in blocco da una “quadreria” di opere del ‘900 – non poche delle quali di ispirazione fascista – invece che essere aggiornata nel tempo con un minimo di lavoro e di selezione critica e filologica, per me ebbe quasi il valore simbolico di un Paese in cui una certa volgarizzazione televisiva della cultura avrebbe preso il sopravvento.
CAPITOLO V
OR :
Dopo tutte queste domande su Ugo e le vostre risposte, ci siamo fatti un'idea non solo di Ugo ma anche di voi. Davanti ai vostri racconti sembra emergere il classico caso dell'enfant prodige, quello appunto di artisti capaci da subito di maneggiare e produrre concetti e forme di alto spessore artistico-culturale. Dalle vostre risposte emerge una solida preparazione e una capacità di analisi degli avvenimenti storici che diventano un importante filtro tra tre generazioni artistiche: quella di Ugo Ugo e Tonino Casula, la vostra (Enrico-Andrea), e la nostra (Enrico-Alessandro). Ma se in gioventù sembra che aveste trovato un ambiente consono a un primo processo di sviluppo artistico, grazie ad una cerchia di artisti molto più grandi di voi, successivamente è come se qualcosa fosse cambiato e il vostro viaggio sia continuato in solitudine, senza più quella interazione con un territorio che grazie al contributo di Ugo e di altri era diventato fertile e potenzialmente fruttuoso per il futuro. All'interno di un contesto storico ormai mutato, avete deciso di salutare la Sardegna non più adatta forse ad accogliere e comprendere il vostro percorso artistico. Ci stiamo sbagliando? In conclusione di questo nostro dialogo ci piacerebbe avere da voi qualche notizia in più sul vostro personale rapporto con la Sardegna.
ENRICO CORTE :
Mai trovati ambienti particolarmente consoni nell’Isola, né nella gioventù di allora né in quella di oggi. Ho avuto da subito sufficiente forza di carattere per non farmi imporre troppe restrizioni morali o estetiche, o pregiudizi di varia natura, dal mio ambito sociale e familiare – e questa libertà la si conquista non con la prepotenza ma con l’eleganza dell’intelletto. Ho incontrato artisti della generazione precedente (pochi) che di sicuro mi hanno aiutato con generosità e senza chiedere niente in cambio: costoro mi hanno insegnato parecchie cose, ma tante altre le ho apprese da nomi esterni alla Sardegna. All’inizio degli anni Ottanta un certo numero di collezionisti sardi ha sostenuto il mio lavoro, e con grande entusiasmo: una generazione di professionisti trentenni senza troppe aspirazioni intellettuali ma che forse percepivano nelle mie opere un senso di cambiamento verso una generica “contemporaneità” di cui si sentivano parte. Verso la fine del decennio i trentenni erano ormai oltre la quarantina, i loro figli richiedevano continue attenzioni economiche, le loro case si erano riempite di troppe opere piene di polvere e l’ardore per la contemporaneità si era stemperato. Ho ancora un debito di ringraziamento nei confronti di molti di loro, ma tutte queste figure isolate, per quanto importanti, non penso abbiano mai costituito un “ambiente”.
Peraltro, dando una scorsa con lo sguardo a tutte le cose dette in quest’intervista, mi accorgo – con un certo orrore – di aver fornito un resoconto assai parziale, di aver descritto un contesto culturale e sociale solo dal punto di vista dell’arte ufficiale, ruotante attorno all’istituzione della Galleria comunale e ai suoi frequentatori, o all’ambito degli studi artistici o universitari… ma se parliamo di ambienti, a Cagliari ne esisteva un più “sotterraneo”, assai più fertile e stimolante, ed è questo che andrebbe qui ricordato – perché anche Ugo fu una figura in un certo modo di confine tra la cultura istituzionale e i fermenti “dal basso”. Quell’underground della cultura e dei comportamenti – di certo legato a fattori storici e generazionali che si dissolsero col proseguire degli anni Ottanta, spazzati via dall’impazzare dell’eroina, dall’Aids, dallo yuppismo – è stato il vero campo di battaglia in cui ho formato la mia sensitività fin da giovanissimo, ed è ciò di cui lamento maggiormente la progressiva scomparsa. O meglio, non lamento il fatto che quel contesto sia “trascorso”, ma che non sia stato sostituito, nel decennio successivo, da fermenti altrettanto interessanti, caotici ed estremi… nel bene e nel male.
Penso a quel vecchio appartamento di via Tigellio in cui mi recavo a 13 anni, da studente del liceo artistico, che era una specie di centro sociale ante litteram; era un luogo preso in affitto da ragazzi e ragazze più grandi di me che dall’hinterland sardo venivano a Cagliari per studiare. Vi si svolgevano le riunioni di autocoscienza di un collettivo di femministe – mi sembra si chiamasse “collettivo Vulvanova” – che subito mi accolgono con simpatia perché probabilmente intravedono l’eventualità che da me ne venga fuori un maschio adulto un po’ meno coglione del solito. Alcuni giovani scrittori e fricchettoni assortiti erano tra i frequentatori abituali, ma non tutte le persone di quel giro avevano interessi culturali: molti si recavano nell’appartamento per fare del sesso, o per sperimentare con sostanze psicotrope (ma non sono esperienze culturali anche quelle?). Io mi ci recavo portando alcuni libri sulle Avanguardie storiche per studiarli e discuterne assieme ad altri colleghi di liceo che a loro volta portavano i loro, oppure facevo con loro scambio di dischi e nastri: era già una Taz, come si sarebbero chiamate negli anni ’90 quel genere di situazioni, oppure un social network non virtuale. Ebbene, in quell’appartamento di studenti un bel giorno fece irruzione una squadra antiterrorismo della Polizia, che trovò diverse armi e volantini delle Brigate Rosse nascosti nel bagno – lo stesso bagno in cui tante volte mi ero recato per far pipì. Tutti gli studenti affittuari dell’appartamento furono portati in Questura – che fossero consapevoli o meno di certe infiltrazioni terroristiche – schedati e rinviati a giudizio; alcune delle Vulvanova, provenienti da paesini dell’entroterra, ne ebbero la vita rovinata, con affibbiazione di fogli di via, interruzione di studi, strascichi familiari e gravi problematiche con “padri padroni” che si trascinarono a lungo… e fu per puro caso che io non mi trovassi presente in quella casa il giorno del blitz. (Ragazze, ovunque voi siate adesso vorrei sapeste che… oggi sono meno coglione anche grazie a voi).
E parlando di “ambiente”, c’è un altro vecchio appartamento da inserire tra i luoghi topici dell’epoca, un luogo veramente decadente, coi soffitti di canne intonacate che crollavano e i pavimenti fatti di traballanti e sconnesse piastrelle esagonali, situato al quarto piano di un palazzo sghimbescio e svettante sopra i tetti della città vecchia: si trovava in via Lamarmora e era la sede di radio Alter, un’altra “zona autonoma” che iniziai a frequentare da ragazzino, con Andrea. Basata sui principi del “collettivo proletario” e della responsabilità sociale – per cui il “proprietario” della radio, delle attrezzature e dei dischi, era chiunque in un dato momento conducesse una trasmissione – radio Alter svolse un importante ruolo di controinformazione politica negli anni caldi del Movimento, oltre a fornire inediti spazi di diffusione della cultura e controcultura, delle musiche alternative, ecc. Nel resto d’Italia, radio Alice a Bologna, radio Popolare a Milano, radio Onda Rossa e radio Città Futura a Roma svolgevano lo stesso ruolo.
Io e Andrea iniziammo a collaborare con radio Alter nel 1978 (i più giovani collaboratori in assoluto), inventandoci dal nulla il ruolo di conduttori radiofonici, prediligendo scalette musicali che andavano da Stockhausen a Steve Reich, da Tony Conrad ai Pere Ubu, da Moondog ai Dark Day, passando per le tappe della trilogia berlinese di Bowie (fresche di stampa), Residents, Pop Group, Young Marble Giants, Nico, Neu!, Cluster, B-52’s, Einstein on the Beach, Metal Machine Music e No New York. In radio, iniziamo a invitare alcuni personaggi dell’arte cittadina per discutere in diretta le tendenze contemporanee: così avviene l’incontro con Tonino Casula, pittore e intellettuale di spicco, felice reduce dalla pubblicazione di un paio di libri di teoria della percezione per i tipi di Einaudi (quando non era così facile pubblicare per Einaudi), grande amico e compagno di lotte di Ugo. Ma soprattutto, in radio siamo subito coinvolti e affascinati dalla “varia umanità” che vi circolava: personaggi più adulti di noi, dalle molteplici esperienze di vita e spesso a confine della devianza, che trovavano negli spazi della radio la possibilità di esprimere il loro anelito di cambiamento, di rivoluzione, come fosse un cagliaritano “Macondo” (mi riferisco al locale milanese, non a Garcia Marquez). E’ da subito evidente che Andrea e io facciamo parte di una generazione post-Punk e New-wave che poco ha a che spartire con gli stili di vita e gli obbiettivi di chi è più grande di noi, eppure è stato istruttivo e divertente osservare o anche farsi coinvolgere dagli eccessi di quelli tra loro che ci apparivano meno fricchettoni. Ricordo ad esempio le trasmissioni condotte da un gruppo di ragazzi queer (molto flaming, e anche molto punk, almeno dentro il “porto franco” della radio): le “Troie di Hitler” (nome poi modificato in Figlie di Hitler su suggerimento del collettivo della radio per motivi, um, di “comunicazione col pubblico”). Le Figlie di Hitler mettevano in scena durante i loro programmi ogni sorta di provocazione, molto oltre le soglie del camp, e avevano tra l’altro uno squisito gusto musicale oscillante tra Suicide, Wayne County (non ancora Jayne), New York Dolls, Nina Hagen, Roxy Music e i primi Ultravox: favolose e insostituibili, era uno spasso assistere alla loro totale distruzione della sensibilità borghese, religiosa e patriarcale, ai loro “terremoti gender” piuttosto avanti rispetto ai tempi. Mi chiedo se oggi sarebbe tollerata la messa in onda di trasmissioni simili.
E affiorano anche le memorie del notturno di radio Alter… perché la radio era operativa 24 ore al giorno, e dunque occorreva che qualcuno vi stesse durante la notte e fino all’alba del giorno dopo, conducendo lunghissime trasmissioni in cui aveva piena libertà di parola, di scelte, di comportamento. Le messe in onda notturne erano piuttosto seguite: ricordiamoci che all’epoca vi erano solo due o tre reti televisive (che a mezzanotte interrompevano le trasmissioni), e in città la notte non offriva un gran proliferare di locali in cui recarsi per trovare un minimo di svago. Tutti avevano ancora nella mente immagini come quelle dei carri armati che transitano per il centro di Bologna e altri episodi quotidiani di violenza urbana, persino durante i concerti rock, la cui frequenza in Italia si dirada rapidamente; poi sarebbe arrivato il rapimento Moro: una cappa di realtà opprimente schiacciava ogni anelito alla libertà d’immaginazione e ci faceva vivere come in una pentola a pressione. Quelle del notturno erano le ore in cui emergevano le pulsioni più nascoste – e, con la scusa della “zona franca” del Movimento e del portone sempre aperto, la radio di notte si prestava alle frequentazioni più particolari: prostitute ambosesso, ex-terroristi rossi, giovani scappati da casa, apprendisti nudisti (questi solo in estate), contrabbandieri della zona del porto, filosofi, tossici, spacciatori e dandy in cerca di emozioni rare… tutto questo mentre si continuava a pompare musica, letteratura, controinformazione e liberi deliri non-stop. La malavita organizzata non si interessava a noi, l’eroina girava ma ancora non troppo, l’Aids era un incubo ancora da immaginare, e in definitiva aleggiava un’atmosfera dolceamara da anarchismo amfetaminico. In quelle notti ho visto scene di sesso, di disagio esistenziale, di crisi di astinenza… ma mai un episodio di violenza. E qui sta il punto a cui voglio arrivare, perché un artista si riconosce anche da come vive la notte, da come produce cultura anche di notte, ed è meglio che impari a viverla da giovanissimo, come facemmo io e Andrea a 14 o 15 anni, stando fuori la notte, inventandoci la nostra Cultura, la nostra Etica, lontani dalla famiglia, da ogni controllo, dal rimbecillimento delle abitudini, dalla televisione, dai quiz a premi, dai festival di Sanremo, dai campionati di calcio, dai giochini di società sotto l’ombrellone.
Ma a volte per noi era più provocatorio lavorarci la mattina, in radio… come quando all’ora di pranzo di certi sabati o domeniche ci si cimentava nel leggere al pubblico seduto a tavola con la famiglia i passi più scabrosi dei libri di De Sade, di Masoch, di Mirbeau o di Krafft-Ebing – ma con sottofondo bucolico: Roedelius, Penguin Cafe Orchestra, Faust. Questo mescolamento indistinguibile di cultura e vita è stato il vero territorio su cui ci siamo formati e dentro il quale abbiamo cercato di trascinare gli artisti visivi con cui ritenevamo interessante dialogare: Casula coi suoi libri e quadri, Sciola di ritorno dai suoi viaggi, Enrico Baj e Mimmo Rotella in visita in città, la poetessa visiva e performer concettuale Tomaso Binga, il toscano Lorenzo Pezzatini (col quale nel 1979 collaborammo per una sua installazione sulla facciata della Galleria comunale), ecc.
Nonostante alcuni tra i programmisti della radio si attengano a metodi comunicativi piuttosto tradizionali per le loro messe in onda (siglette iniziali, stacchetti musicali, scalette ordinate e a tema, missaggi precisi, ecc.), per Andrea e me lavorare in radio ha significato anche stravolgere le consuetudini e innovare il linguaggio. Ci inventammo una metodologia basata sull’organizzazione del caos, sull’intervento a sorpresa, sullo shock, sul détournement e sul taglia-incolla sonoro che potrebbe avere il suo corrispondente visivo nel muro newyorkese sgretolato e ricoperto da strati multipli di graffiti, tag, brandelli di flyer, stencil, sticker e applicazioni di crocheting d’artista, ognuno in qualche modo dialogante con l’altro. (Tutto ‘sto Bengodi non è durato moltissimo: di radio Alter abbiamo seguito quasi tutta la parabola che la portò dall’essere un punto di riferimento politico del ’77 al filone pop-wave, per lasciarla scivolare, negli anni Ottanta, dentro esiti più commerciali e “tranquilli”, ma privi di brio. Dal 1981 le nostre sperimentazioni radiofoniche han trovato una più adeguata, e retribuita, collocazione nella sede regionale della Rai).
Vi è stato un momento in cui la cultura a Cagliari, come noi la si intendeva, sopravviveva solo grazie alla presenza di alcuni spazi autogestiti, di improvvisati teatrini fuori dai circuiti ufficiali dove si vedevano cose molto strane, sorprendenti, come quella volta che nell’inverno ’78 con Andrea mi recai in una sperduta zona di periferia per vedere Mario Mieli e il suo spettacolo La Traviata Norma, dentro uno spazio di recupero, a malapena agibile. E’ ancora molto viva nella mia mente l’immagine di Mario spiccante in altezza sui suoi tacchi vertiginosi e vestito con un “abito da sposa” realizzato in pluriball che ne faceva trasparire le pudenda; il suo spettacolo consisteva in un lungo monologo denso di citazioni letterarie che andavano da Proust a Rimbaud fino a autori contemporanei, in cui differenti epoche storiche si mescolavano a situazioni autobiografiche, all'interno di una scenografia poverissima, quasi inesistente. Non penso che Mario abbia percepito alcun compenso per la sua performance, a parte forse il rimborso del viaggio. Dopo lo spettacolo Mario si intrattenne col pubblico (i ricorrenti e famigerati “dibattiti” post-spettacolo erano la cosa migliore di tutto, sappiatelo) e la discussione di volse presto verso la coprofagia, una pratica che lui andava sperimentando da anni come stimolo erotico e che fu una delle cause che spinse la sua famiglia a sottoporlo ad elettroshock (“cura” abbastanza comunemente applicata ai gay dell’epoca). Un dibattito sui dettagli della coprofagia e sul sesso estremo tra giovani e giovanissimi (noi), nel buio di una notte del ’78 dentro un capannone industriale semiabbandonato nella suburra, coi cani che abbaiano alla luna nei cortili solitari in lontananza… e noi che, vincendo un certa timidezza, avviciniamo Mario per chiedergli di Milano, dei suoi rapporti con gli artisti.
Potrei continuare con altri esempi del genere: la grande cultura, la diffusione del Sapere, dell’Esperienza, non nascevano solo attorno alla Galleria comunale e ai suoi vernissage chic. O attorno al ristagnante ambito universitario.
E quindi, detto questo… il vero ruolo, il vero insegnamento di Ugo, quale è stato? Il suo insegnamento, al momento di prendere in mano la Galleria comunale, è stato quello di riuscire nella grande impresa di obliare se stesso, di evadere dal suo primario ruolo d’artista, per cedere la scena ad altri operatori artistici e culturali, per donare a noi tutti un più ampio respiro. L’insegnamento di rinunciare all’egocentrismo, al narcisismo dell’artista, alla focalizzazione sulla propria carriera, al feticismo della personalità. L’insegnamento a vivere l’arte come sistema di conoscenza del mondo, e non come stratagemma per sbarcare il lunario. L’insegnamento della mente aperta, priva di pregiudizi, pronta a includere il diverso da sé, pronta anche alla contraddizione, a quel “contenere moltitudini” di cui parlava Whitman. L’insegnamento di un marxista che sceglie di vivere sulla propria pelle l’ermeneutica che Adorno ci ha lasciato di Marx. L’insegnamento del Je est un autre. E al tempo stesso, l’insegnamento di “ritrovare se stesso nell’assoluta devastazione” (Hegel), di intuire che in ogni altro artista selezionato da lui – che fosse marginale o di chiara fama – vi era in fondo un pezzettino di se stesso, e che quindi dall’insieme complessivo delle opere degli altri artisti raccolte in Galleria poteva scaturire un proprio ideale, frammentario, multifaccettato, stupefacente autoritratto.
E questo è ciò che anche io e Andrea abbiamo cercato di mettere in pratica, nel momento in cui la sorte ci ha fornito l’opportunità di essere “artisti-curatori”. Quando nel 1998 ri-incontriamo Harald Szeemann a Venezia (vi ricordate la mostra Aperto 80 curata da lui e Bonito Oliva ai Magazzini del Sale durante la Biennale del 1980, di cui ho parlato all’inizio? E’ un altro cerchio che si chiude) è lui che vuole affidare a noi e ad altri artisti di un nostro network romano la curatela di una sezione del padiglione Italia della Biennale ’99. Ed è la logica di Ugo che in quel caso mettiamo in pratica: perdersi, atomizzarsi negli eventi altrui – e attraverso questi, ricomporsi come autoritratto pulviscolare, percepibile solo a barlumi, a singhiozzi, a schegge, in controluce… negli angoli più oscuri del puzzle, o forse nel buio tra i tasselli mancanti. No Light, video-opera collaborativa in cui tra me e Andrea avviene l’interscambio più profondo – e in cui, frammentandoci l’un l’altro, assumiamo i ruoli di nuove personificazioni – non a caso fu presentata proprio in quell’occasione.
E quindi, una volta inteso che l’Ego vada decostruito e ricomposto con l’attitudine del bambino che smonta i suoi giocattoli – e li rimonta poi a caso, seguendo l’estro del momento – posso dire che la solitudine a cui accennate nella vostra ultima domanda, in un certo senso non so cosa sia… o forse sì, se la si intende come la solitudine dell’Alieno che cade sulla Terra – ma nel caso mio e di Andrea, essendo in due, l’abbiamo sentita di meno, o l’abbiamo trasformata in una gioiosa opera d’arte, o in cifra stilistica. Ma poi, diciamo la verità, se sei un/a giovane artista non puoi soffrire veramente la solitudine: prima di tutto ci sarà sempre qualche ammiratore o ammiratrice che ti sta intorno, e in caso contrario basta uscire dallo studio e provare a bazzicare quegli spazi in cui si vive la creatività urbana – che non siano le solite, noiose gallerie d’arte, prive di vita vera.
Una vera interazione col territorio, basata su un’identificazione profonda col proprio contesto di nascita, almeno da parte mia non c’è mai stata. C’è stata la mia curiosità di scoprire il mondo attraverso l’arte, partendo da ciò che mi circondava – senza pregiudizi verso ambienti sociali e situazioni culturali di vario genere – per allargarmi sempre più. Ma da quando son nato, sono stato immerso in un sistema di stimoli, informazioni, immagini, libri, musica che era già globale. Ricordi la mia avversione per il concetto di “Identità”, come misi in chiaro già da quello scritto di presentazione che piacque tanto a Ugo? Ecco, le proprie origini, l’etnia, così come la generazione di riferimento, il genere di appartenenza, l’età, il censo, la religione, la razza, la lingua, e anche il proprio nome… tutto questo, tutte queste identità, ho sempre pensato che fossero catene, lucchetti, gabbie che ci vengono imposte dalla nascita ma da cui è meglio evadere prima possibile. Anche la mia idea di “artista” è intesa nel modo più genderfluido e trans-identitario possibile, e include il produrre arte visiva, il creare musica, smarrirsi nel viaggio, mutare pelle, tramutare sesso – e include persino quest’intervista, che non può che essere in se stessa una grande opera d’arte, in quanto unico esempio che io conosca in cui due artisti intervistano altri due artisti su un quinto artista che è stato pure promotore di artisti.
Fu grazie ad Andrea che misi subito a fuoco la mia idea riguardo l’Identità e le “radici” quando un giorno di tanti anni fa mi prestò un libretto che aveva appena comprato, di cui aveva sentito parlare alla radio. Avevo 14 anni, era il 1978 e ci conoscevamo appena, ma ci sembrava di intenderci su molte cose. Il librino, veramente una “sottiletta”, proveniva dalla Francia e si intitolava Rizoma, e in qualche modo riusciva a sintetizzare in poco spazio tutto quello che da tempo percepivamo nell’aria, il senso della vita come ci pareva più ovvio che fosse.
Il futuro nell’Isola – nonostante l’impegno e i sacrifici di Ugo e di altri – ci è sempre apparso opaco e incerto, e questo fu vissuto da molti di noi con un senso di inquietudine profonda, portandoci spesso a praticare drastiche scelte, a vivere situazioni di lacerazione, a suscitare il dolore altrui: quando la mia ragazza – sgomenta mentre preparavo il trasloco – mi chiese se, avendo avuto per ipotesi un gallerista importante a Cagliari e l’appoggio di un mercato sufficiente a farmi vivere con agiatezza facendo solo l’artista, mi sarei trasferito ugualmente, la mia risposta fu subito “sì, io me ne andrei in ogni caso, anche se qui avessi trovato tutte le occasioni che un artista può desiderare”. Trasformare il dolore in arte è la sfida più difficile… ma a volte ciò che ancora non esiste, ossia il Futuro, ha già in anticipo un peso, una profondità di suono, una gravitazione magnetica così grande da obnubilare tutto il resto.
Il mio luogo di nascita oggi mi appare un posto come un altro, di cui a tratti mi ricordo senza passione, rimpianto o avversione, dove ci si torna se vi è qualcosa da fare e da cui si sta volentieri lontano se non serve tornarci. E a volte non serve nemmeno tornarci di persona, per combinarci qualcosa di buono: nel 2015, dopo aver scritto un altro articolo, scegliendo le parole e toccando le “corde giuste”, sono finalmente riuscito a far intestare a Ugo Ugo il nome della collezione contemporanea della Galleria comunale. Perché alla fine forse è proprio vero che soltanto un artista può capire il valore di un altro artista.
Oggi vivo bene molto distante.
Il mondo è grande, pieno di cose belle; il compito dell’artista è abitare molte vite. Plurime, varieganti, caleidotropiche.
CAPITOLO VI
OR :
Dopo tutte queste domande su Ugo e le vostre risposte, ci siamo fatti un'idea non solo di Ugo ma anche di voi. Davanti ai vostri racconti sembra emergere il classico caso dell'enfant prodige, quello appunto di artisti capaci da subito di maneggiare e produrre concetti e forme di alto spessore artistico-culturale. Dalle vostre risposte emerge una solida preparazione e una capacità di analisi degli avvenimenti storici che diventano un importante filtro tra tre generazioni artistiche: quella di Ugo Ugo e Tonino Casula, la vostra (Enrico-Andrea), e la nostra (Enrico-Alessandro). Ma se in gioventù sembra che aveste trovato un ambiente consono a un primo processo di sviluppo artistico, grazie ad una cerchia di artisti molto più grandi di voi, successivamente è come se qualcosa fosse cambiato e il vostro viaggio sia continuato in solitudine, senza più quella interazione con un territorio che grazie al contributo di Ugo e di altri era diventato fertile e potenzialmente fruttuoso per il futuro. All'interno di un contesto storico ormai mutato, avete deciso di salutare la Sardegna non più adatta forse ad accogliere e comprendere il vostro percorso artistico. Ci stiamo sbagliando? In conclusione di questo nostro dialogo ci piacerebbe avere da voi qualche notizia in più sul vostro personale rapporto con la Sardegna.
ANDREA NURCIS :
Già dalla mia prima adolescenza nient’altro mi interessava tranne l’arte, che istintivamente mi appariva lo strumento migliore per affrontare il mondo, il filtro per dare un senso agli stili di vita, ai bisogni, agli affetti, alle amicizie a cui aspiravo.
I motivi per cui un individuo sceglie di dedicare la propria esistenza all’arte non sono mai facilmente sondabili. Di base vi è spesso un miscuglio alchemico di fattori tra loro contrastanti: fortune e sfortune della propria sfera personale e psichica attraverso il confronto teso con la Storia, che hanno il potere di deviare persino dai percorsi già rigidamente programmati dalla famiglia o dal proprio ambiente sociale. Ogni ancoraggio di sicurezza viene abbandonato per lasciarsi trasportare dai flussi incontrollabili del mare dell’arte, nelle cui acque, oltre ogni confine, qualsiasi evento sia nel bene che nel male diventa possibile, diventa accettabile.
Non ho mai sentito nessun senso di appartenenza alla terra e alla città in cui sono nato e ho sempre sentito disagio nei confronti di ogni imposizione di fattori identitari: che fossero intesi in senso anagrafico oppure etnico o sessuale - nonché addirittura stilistico, per quanto riguarda il mio lavoro artistico.
Cagliari era solo un luogo vuoto in cui ogni tanto accadeva qualcosa. In quel momento storico come uno specchio lontano la città rifletteva sfocatamente le turbolenze che sconvolgevano certi ordini del Paese. I fumi delle molotov e dei lacrimogeni appannavano le vetrine della Rinascente che poi cadevano infrante sotto i colpi delle mazze e dei calci dei manifestanti coi volti coperti dai fazzoletti, mentre fuggivano dalla carica della polizia. Dall’asfalto si sollevava il calore che velava la scena rendendola tremolante come la proiezione di una vecchia pellicola.
Attraversavo quella confusione, attento a non prendere manganellate o pietre sulla testa; me la defilavo stando un po’ curvo, come quando si passa davanti allo schermo del cinema per non disturbare gli spettatori, lasciando la sala diventata soffocante nel momento in cui il film apparisse ormai ripetitivo e poco interessante.
Nel 1977 ero uno studente di 15 anni del liceo Artistico. L’ex convento di via S. Giuseppe nel quartiere di Castello era la sede della scuola, di cui già Enrico ha fatto una intensa descrizione in uno dei precedenti capitoli. Il liceo era un luogo aperto, occupato da indiani metropolitani, frikkettoni di ogni sorta, reietti in cerca di un diploma facile, suonatori di tamburi, dandy tossicomani, artistoidi e poetastri il cui unico talento era quello di partecipare da protagonisti a quel grande spettacolo di anarchia a cui assistevo e del quale mi piaceva assimilare le energie più coinvolgenti.
La pittura aveva invaso gli spazi del liceo. Dalle finestre delle aule dei piani alti qualche studente buttava secchi di colore nel cortile interno su cui erano stesi a terra grandi cartoni e tele; i ragazzi nel cortile urlavano eccitati e divertiti cercando di evitare gli schizzi della pittura, poi uno di loro con una scopa spandeva il colore sulle superfici, un altro vi tracciava delle figure, un altro ancora scriveva frasi tratte dalle sue poesie. I professori lasciavano fare: chi si limitava a guardare dubbioso, chi invece stimolava ad andare avanti in quell’esplosione di creatività liberatoria dove contava solo il gesto fine a se stesso e non la ricerca della qualità, perché in quel momento le urgenze non erano quelle di fare un bel quadro.
Il liceo era come una specie di oasi in cui la politica, con i suoi slogan e la sua violenza, non aveva messo radici come in altre realtà scolastiche.
Spesso arrivavano degli artisti: Alvin Curran fece una performance inaspettata, correndo intorno al grande cortile medievale urlando con le braccia aperte. La sua voce nell’acustica dello spazio risuonava sempre differente a seconda del punto del cortile in cui lui si trovava. Nessuno l’aveva annunciato; gli studenti si affacciavano alle finestre ad osservare la scena, alcuni sorpresi, altri indifferenti: forse pensavano fosse il solito frikkettone del quartiere sotto l’effetto dell’acido, e invece era uno dei più importanti musicisti della scena contemporanea internazionale.
E di nuovo devo ricordare Costantino Nivola, che arrivò in maniera più “formale” accolto da studenti e professori nella grande aula delle assemblee - ma non fu formale il suo incontro col pubblico. Mentre tutti si aspettavano una lezione sull’architettura e sulla scultura moderna, Nivola invece divagò imprevedibilmente raccontando del lavoro di muratore che faceva da ragazzo in Sardegna e della fragranza di caffè appena fatto che era sempre presente nello studio del suo grande amico Le Corbusier. Fu quella la prima volta che ebbi un contatto con lui: senza esitazione mi avvicinai e gli dissi orgogliosamente che anche mio padre era un muratore.
Anche i muri di Cagliari venivano invasi dalla pittura, da slogan politici, da frasi poetiche e deliranti, da immagini e segni di tutti i tipi. L’uso del pennello e della pittura era più frequente di quello delle bombolette spray, così i muri vibravano ricoperti dai veloci segni delle pennellate che colavano liquide tra le crepe degli intonaci, oppure più dense si raggrumavano sul rosso dei mattoni o sporcavano di velature le superfici dei portoni o dei manifesti stradali.
Ero affascinato dai tentativi di cancellazione di questo materiale dal carattere politico e creativo, non tanto attraverso la rimozione o la copertura completa delle scritte, ma piuttosto mediante l’aggiunta di segni a-significanti che si sovrapponevano alle lettere dando vita ad un alfabeto inedito. Una scritta su un muro diventava così una misteriosa architettura di segni, un simbolo politico si mutava in una forma geometrica complicata e indefinibile. Quelle forme censorie, di annullamento del significato, per me avevano una forte valenza artistica e pittorica. Qualche anno dopo rimasi piuttosto colpito dal fenomeno del graffitismo newyorkese, in cui alcuni artisti, utilizzando un metodo simile di sovrapposizione di segni, trasformavano le lettere dell’alfabeto in un linguaggio grafico del tutto personale, una scrittura criptica in conflitto con quella ufficiale.
L’arte per me sin dagli esordi ha sempre avuto un valore di trasformazione, attraverso forme di “negazione”, sovrapposizione, stratificazione. E in fondo anche oggi quando lavoro non faccio altro che stratificare segni ed esperienze sino alla saturazione dell’idea iniziale. Mi fermo solo quando riesco a provocarne l’implosione.
L’arte era l’unico mio interesse perché attraverso essa riuscivo a dare un senso a tutta la mia vita, a tutte le cose che mi circondavano, alla realtà dentro la quale potevo tuffarmi senza aver paura di nulla. Furono in particolare due libri gli strumenti di connessione teorica tra l’arte e il mondo: Avanguardia di massa di Maurizio Calvesi e soprattutto La linea analitica dell'arte moderna di Filiberto Menna, che alcuni anni dopo conobbi personalmente perché fu uno dei commissari che selezionarono il mio lavoro e quello di Enrico per la partecipazione alla Quadriennale di Roma.
Attraverso l’arte riuscivo a relazionarmi col mondo in maniera diretta, lontano da ogni forma di intellettualismo. Nel mio entusiasmo di quindicenne e nella mia grande curiosità, senza una lira in tasca che mi permettesse di viaggiare, nell’epoca in cui internet e i social network erano ancora da immaginare, quando su un libro o una rivista vedevo il lavoro di un artista che mi piaceva non avevo problemi a telefonargli per esprimergli la mia stima, per fargli delle domande. Così mi capitò con Luciano Fabro, affascinato dalle sue opere, dai suoi Piedi realizzati in tessuti di seta merlettata e materiali preziosi come il vetro di Murano: feci con lui alcune lunghe chiacchierate in cui, con grande gentilezza e forse stupito ad avere un giovane estimatore dalla lontana Sardegna, mi raccontava i dettagli delle fasi tecniche nella realizzazione di quelle sue sculture, delle difficoltà e anche dei sacrifici economici che gli costarono. La stessa cosa avvenne con Mimmo Paladino, di cui mi colpì molto un suo disegno visto su una rivista che presentava uno dei primi articoli sul fenomeno della Transavanguardia. Paladino mi sembrò quasi lusingato e intimidito dalla mia telefonata, mi raccontò dei suoi viaggi in Brasile, del senso del colore che in quel paese aveva sviluppato, del suo interesse per certe forme primitive ed arcaiche, ma anche cose molto semplici della sua vita di pittore e di insegnante a Milano.
In fondo furono queste ingenue telefonate i miei primi contatti artistici oltre i confini dell’isola, attraverso i quali capivo che l’arte necessitasse di un’esperienza umana da vivere pienamente e non solo di essere studiata sui libri o osservata da spettatore lontano. I racconti di Ugo sui suoi rapporti con gli artisti, le sue visite nei loro studi - narrati sempre in modo dettagliato, attenti alla descrizione dell’aspetto umano dell’artista - contribuirono non poco a farmi maturare questa sensibilità, e le tensioni delle ricerche internazionali che le opere della sua collezione esemplarmente offrivano agli sguardi e alla mente mi indicavano che la scelta dell’arte esigeva un confronto con un mondo di idee non limitato ai confini geografici e culturali della Sardegna.
Nel 1986 io ed Enrico fummo selezionati per partecipare all’XI Quadriennale di Roma. Il commissario responsabile per fare la prima selezione regionale era Tonino Casula e la selezione definitiva venne fatta dai critici Enrico Crispolti e Filiberto Menna. Gli altri artisti sardi selezionati furono Pinuccio Sciola e Rosanna Rossi.
A Roma durante i giorni di allestimento ebbi modo di incontrare sia Menna che Crispolti, e molti artisti che ammiravamo e con i quali ancora oggi siamo rimasti amici.
Io e Enrico, tra le sale del Palazzo dei Congressi dell’Eur, che in quell’anno era stato scelto come sede per l’esposizione nazionale, notammo a un certo punto un signore vestito con un completo color verdino, con scarpe di coccodrillo complete di ghette e, dettaglio ancora più peculiare, un ombrello di colore intonato all’abito nonostante ci trovassimo in un giugno dal clima particolarmente caldo e afoso.
Si trattava di Luigi Ontani che aveva appena finito di posizionare la sua opera nel posto assegnatogli e che ora si faceva un giro solo soletto, guardandosi intorno e facendo risuonare spensieratamente i suoi passi tra quelle sale marmorizzate. Gli andammo dietro e ci presentammo, e lui subito ci chiese di voler vedere il nostro lavoro.
Anche Ontani era uno di quegli artisti che già erano apparsi nelle narrazioni di Ugo, perché negli anni ‘70 ogni volta che Ontani faceva tappa a Parigi non mancava mai di andare a trovare l’amico Paolo Calia nella sua particolare casa-studio, e gli aneddoti su queste visite raccontati da Ugo erano sempre molto divertenti.
Luigi Ontani rimase piuttosto colpito dai nostri lavori e nei giorni successivi ci incontrammo nuovamente; in quelle occasioni ci presentò alle persone del mondo dell’arte con cui aveva rapporti di amicizia e di lavoro e ci invitò nel suo studio in via Brunetti che pareva essere una sorta di fumeria d’oppio orientale, col pavimento pieno di tappeti e cuscini per sedersi o distendersi e le pareti dipinte di rosso pompeiano.
In quegli anni l’ambiente dell’arte italiano aveva ancora una dimensione quasi familiare in cui tutti si conoscevano e i rapporti si basavano su un livello di interazione umana più che rigidamente professionale. Così nessuno ti chiedeva il curriculum, con quale gallerista lavorassi, che critico conoscessi, quali giri frequentassi, che quotazioni avessero i tuoi lavori o cose di questo tipo che da lì a pochi anni sarebbero diventate le forme consuete delle relazioni all’interno del sistema dell’arte.
Un giorno a Cagliari verso la fine degli anni ’80 realizzai da sonnambulo una scultura che fu l’ultima opera che creai in Sardegna prima di trasferirmi.
Probabilmente avrei potuto dissotterrare gli eccellenti resti secolari di un santo o di un artista, trafugandoli dalla cripta di qualche antico monastero, affinché potessi impadronirmi del loro fragile cranio per ricavarne la calotta attraverso una precisa sezione longitudinale.
Invece usai la calotta già sezionata di un vecchio cranio che era stato usato per fare lezioni di anatomia e che Enrico anni prima trovò gettato tra i rifiuti del nostro liceo Artistico, tra le macerie pronte allo sgombero, insieme a sedie rotte, armadi, banchi sgangherati e varie attrezzature scolastiche in disuso.
I santi bizantini dalla testa piatta tenevano tra le mani la loro stessa calotta; Yogini Sarvabuddha tiene una calotta cranica (kapala, thod-pa) nella mano sinistra. Il Santo sepolcro di Gerusalemme voleva evocare la grande volta dell'universo che l'uomo rappresenta con la sua calotta cranica.
Mi intrufolai nei vicoli vecchi del quartiere della Marina, odorosi di salsedine portuale e piscio di gatto, cercando su indicazione di Nivola il laboratorio di un artigiano specializzato in piccole fusioni e bronzetti nuragici da vendere al mercato turistico. Alla fine lo trovai: privo di ogni indicazione in un cortiletto interno, ingombro di scorie e macerie di muratura, il fonditore lavorava in un seminterrato annerito dalla fuliggine e oscuro come una caverna malsana, dentro il quale mi calai facendo pochi scalini sberciati. Intorno a me attrezzi da fabbro e su una parete, come un massiccio monolite proveniente da un’epoca antica e indefinibile, sporgeva la fornace che silenziosa pareva in attesa di rianimarsi con fuoco e leghe metalliche. Mi venne incontro un vecchio dai lineamenti gentili che indossava occhiali dalle lenti così spesse da ingrandirgli grottescamente gli occhi, come spessi erano i calli delle sue mani rovinate e forti. Con me avevo portato due calchi in gesso e cera della calotta, e chiesi all’artigiano il costo delle due fusioni in bronzo e della saldatura che le avrebbe unite, in modo che la forma finale ricordasse quella di un grande uovo: “stia attento però che nella saldatura delle due calotte in bronzo le linee di sutura coincidano come fosse una linea continua, come una crepa su tutta la superfice di questo uovo che deve sembrare precorso da una unica e simmetrica frattura”.
Il vecchio mi rispose che poteva provarci e mi disse il prezzo del lavoro, corrispondente a tutti i miei risparmi; in quel momento ne avevo in tasca solo una piccola parte, che gli offrì come anticipo.
Tornai alcuni giorni dopo. Su un bancone sporco della caverna, appena sputato dalla bocca della fucina insieme a decine di bronzetti da ripulire e patinare, v’era un grumo bronzeo, un bolo dalla forma ovale che doveva essere il mio “uovo”. Il vecchio si lamentava perché per ottenere quella forma aveva dovuto perdere più tempo di quello previsto e pretendeva da me altri soldi oltre quelli concordati. Svuotai il portafoglio e le tasche dandogli tutto quello che avevo, pure gli spiccioli. Nervosamente prese il danaro, mise il bronzo tra le mie mani e mi mandò via ripetendo che ci aveva perso troppo tempo e che non avrebbe accettato mai più lavori del genere.
A casa dovetti fare un lungo lavoro di limatura e cesellatura per ottenere la forma che avevo in mente; misi poi a sciogliere nell’acqua un pezzo di fegato di zolfo, ottenendone la sostanza puzzolente come il fiato marcio di un demonio che occorreva per la patinatura del bronzo. Diverse mani di fegato di zolfo date con pennello e straccio mi permisero di ottenere una ossidazione pesante di nero metallico che in alcuni punti dava dei bagliori cupi d’un rosso sangue coagulato; con un bulino da incisore dalla punta sottile ripresi tutto il disegno della linea di sutura, ripulendola dalla patina ed evidenziandola più profondamente laddove nella fusione non fosse venuta sufficientemente visibile, così che il disegno della frattura, in contrasto col nero della patina, brillasse nella luce dorata che ha in origine il bronzo.
Appunto, sarebbe stata l’ultima opera creata in Sardegna poco prima che con Enrico abbandonassi definitivamente l’isola. L’Uovo presentava sulla sua superficie il segno d’una frattura che attraversava tutta la superfice in modo centrale, simmetrico. Da subito - forse dalla mia infanzia, sicuramente dalla mia adolescenza - scegliendo l’arte come motivo di vita, avevo interiorizzato che prima o poi questa frattura con le mie origini, con la terra che mi aveva dato i natali, si sarebbe concretizzata.
UU - The artist as director
Un'intervista di Montecristo Project a Enrico Corte ed Andrea Nurcis sulla figura di Ugo Ugo.
PROLOGO
Montecristo Project inaugura Montecristo Writings: un nuovo spazio teorico in forma di blog in relazione alla linea di ricerca intrapresa nel sodalizio artistico e curatoriale di Enrico Piras - Alessandro Sau. Abbiamo deciso di dedicare questo progetto a temi che riteniamo importanti ed affini a quelle problematiche che stiamo affrontando sull'isola.
Il primo progetto è dedicato alla figura di Ugo Ugo (Cagliari-1924): personaggio cruciale per la storia dell'arte sarda e pioniere di una pratica artistica molto particolare e singolare. Ugo è stato infatti non solo un intellettuale ed artista, ma anche il direttore della Galleria Comunale d'Arte di Cagliari dal 1967 al 1985, Museo per il quale ha costruito dal nulla una ricca e raffinata collezione d'arte che comprende artisti sardi e tra quelli che si sono rivelati tra i più importanti del panorama nazionale dagli anni ‘50 agli anni ‘80.
La figura di questo pioniere, artista, direttore e curatore, viene qui presentata attraverso un dialogo con gli artisti Andrea Nurcis ed Enrico Corte, che lo stesso Ugo tutt'ora considera come tra i suoi più vicini e cari amici e che si sono mobilitati affinchè l'ormai nomade e mutilata collezione messa su da Ugo gli potesse venire finalmente intitolata. Attraverso lo sguardo di Andrea ed Enrico vorremmo far emergere la figura di un uomo e di un artista, intellettuale, disegnatore vivace, curioso e la cui opera più grande cerca ancora oggi una vera casa ed una storia scritta.
CAPITOLO I
OR :
Cari Andrea ed Enrico, per iniziare questa nostra conversazione la prima cosa che ci viene naturale chiedervi è di parlarci di Ugo Ugo. Come lo avete conosciuto e avete incontrato il suo lavoro di artista e direttore della Galleria Comunale?
Enrico Corte :
Ugo Ugo, in quanto artista del gruppo Transazionale e direttore della Galleria comunale di Cagliari, era un personaggio conosciuto nel piccolo mondo dell’arte che ruotava attorno al liceo artistico e agli artisti che vi insegnavano. Io frequentavo il liceo artistico dall’età di 13 anni; era facile entrare in confidenza con gli insegnanti e prender parte alle loro discussioni, riflessioni e polemiche: mi inserii così nel loro ambiente e nel loro “giro” di frequentazioni. C'è da dire che il liceo artistico di quel periodo – sono gli anni attorno al cruciale ‘77 – nelle due sedi separate di piazzetta Dettori e via S. Giuseppe, rappresentava un ambiente di totale anticonformismo, libertà di pensiero e di comportamento imparagonabile a qualsiasi altro istituto scolastico cagliaritano (e molto lontano anche dal liceo artistico di oggi). Gli studenti chiamavano gli insegnanti per nome, non con l'attuale e ridicolo “prof”. La stessa architettura delle due sedi, due ex conventi, aveva aspetti stravaganti (aule enormi senza muri divisori in cui ci si poteva spostare in qualsiasi momento, stanzette segrete, labirinti, pertugi, antiche terrazze con passaggi tra le cupole e i tetti della vecchia Cagliari) al punto che tutt'oggi me la sogno la notte, di tanto in tanto – e sono sogni intessuti di magia, meraviglia e incanto.
A quel tempo al liceo artistico insegnavano personaggi come Primo Pantoli, Gaetano Brundu e Pinuccio Sciola, e io seguivo le loro lezioni. Gaetano, una mattina del 1979 al liceo, notò una sculturina che avevo realizzato in creta e che Pinuccio aveva fatto cuocere nel forno che usava per le sue opere; la statuina, di carattere piuttosto goliardico e realizzata per far ridere i compagni di classe, rappresentava un personaggio fumettistico che aveva un membro eretto enorme, talmente lungo e arcuato che la figuretta era rappresentata nell’atto di praticarsi una autofellatio. Gaetano, vedendo la sculturina, ebbe l’idea di suggerirmi di mostrare l’opera a Ugo, che era entrato a far parte di una commissione selezionatrice per una mostra programmata per l’anno successivo. Infatti, all’inizio del 1980 venne organizzata nei locali della Fiera Internazionale della Sardegna a Cagliari una grossa mostra di carattere regionale, in cui vi erano due sezioni: una per le opere di artisti già in qualche modo riconosciuti, e un’altra basata su una selezione meno rigorosa (le scelte furono effettuate da una commissione di “esperti”). L’intento di Gaetano era ovviamente quello di “prendere in giro” il suo grande amico Ugo inviandogli un giovanissimo artista con una sculturina pornografica. Io in effetti andai a mostrare l’operetta a Ugo e lui mi ricevette subito (non c’era bisogno di telefonate o appuntamenti: si andava in Galleria e lo si trovava); non si scompose per niente ma a un certo punto quasi sbottò, non per il carattere della statuina ma perché riteneva che con quel gesto io lo considerassi una sorta di “borghese” da scandalizzare: “io non mi scandalizzo mica!” mi disse. Quella fu la prima volta che parlai con Ugo; ricordo benissimo quel giorno, l’aspetto del suo studio al primo piano della Galleria, gli scaffali con i cataloghi d’arte, i quadri incorniciati alle pareti tra cui un disegno originale di Modigliani. Ricordo anche che non mi parve il tipo da incutere alcuna soggezione: era piuttosto un personaggio portatore di una signorilità apparentemente d’altri tempi, ma con una mente e atteggiamenti molto moderni e dinamici. In seguito, parlando con Ugo, venne fuori che l’idea di mostrargli la sculturina proveniva da Gaetano, e allora fu chiaro l’intento di “presa in giro” tra amici (non completamente andata a segno, comunque). Nel 1980, in ogni caso, io e Andrea fummo inclusi nella mostra regionale negli spazi della Fiera di Cagliari, ovviamente non tra gli artisti “affermati”; fu la nostra primissima esposizione in pubblico, io non avevo ancora compiuto 17 anni, Andrea ne aveva 18. Nel catalogo si trova un’introduzione di Ugo e una presentazione di Salvatore Naitza. (Io non esposi la sculturina).
L’anno dopo, nel 1981, fummo invitati da Primo Pantoli a una mostra di gruppo che lui e il regista Giovanni Columbu stavano organizzando alla Galleria comunale. La mostra si intitolava Immagini Sonore; vi erano invitati 36 artisti e operatori culturali non necessariamente originari della Sardegna ma operanti nell’isola in quel periodo. Il concetto di base era questo: ad ogni artista veniva fornito un nastro registrato con suoni di un gregge di pecore in campagna (belati, campanacci, e roba simile) e si chiedeva loro di “intervenire” su questi suoni nel modo più libero possibile (manipolando il nastro, tagliando o cancellando i suoni delle pecore, sovrincidendo altri suoni o musica, ecc.). In pratica, ogni artista doveva fornire le proprie nuove registrazioni effettuate su audiocassette, o le proprie indicazioni di manipolazione del nastro originale, a uno studio della sede Rai regionale, i cui tecnici – seguendo le indicazioni degli artisti sotto la supervisione di Columbu – avrebbero provveduto a creare un “master” per ognuno, da presentare in mostra. Ad ogni artista veniva anche chiesto di abbinare al nastro un “oggetto” a propria scelta: non necessariamente un prodotto artistico ma un qualsiasi oggetto fosse in qualche modo relazionato al loro intervento su nastro. I vari oggetti furono esposti su uno stretto ripiano di plexiglas trasparente che correva lungo il perimetro delle pareti di tutto il piano terra della Galleria, a pochi centimetri dal pavimento; sulle pareti, in corrispondenza dei singoli oggetti, una sfilza di minuscoli altoparlanti installati all’altezza dell’orecchio umano diffondeva, se il pubblico si avvicinava, i suoni manipolati dagli artisti invitati.
Immagini Sonore fu, per me e Andrea, la prima vera mostra “ufficiale”, con una selezione qualitativa e un concetto-base più precisi rispetto all’esposizione precedente, un catalogo con riproduzioni delle opere e testi critici, una trasmissione televisiva in due puntate su Rai 3 dedicata all’evento, e persino il primo articolo di giornale sul nostro lavoro (una piccola intervista per L’Unione Sarda che ci fece Annamaria Janin). Trovammo inoltre interessante l’idea di abbinare in una mostra artisti visivi e operatori di altre discipline culturali: giornalisti, registi di cinema e televisione, musicisti, scrittori, designers, ecc.; ciò ci permise di ampliare lo spettro dei nostri contatti. Fu soprattutto importante essere ospitati nell’ampio e prestigioso spazio della Galleria comunale; occorre dire che Ugo, nonostante fosse anch’egli un riconosciuto artista, in quanto direttore della Galleria preferì non essere incluso tra gli artisti espositori per evitare il “conflitto d’interessi”. Ricordo che a quella mostra io e Andrea scegliemmo di partecipare non come singole figure ma con un intervento “a quattro mani”. Io ebbi l’idea di inserire, tra i suoni delle pecore, il famoso urlo di Tarzan, ma c’era il problema del dove recuperare quell’effetto sonoro talmente caratteristico e riconoscibile da non poter essere riprodotto da noi con la voce. Andrea ebbe la capacità di notare che, per stranissima coincidenza, in televisione in quel periodo trasmettevano proprio dei cartoni animati americani con Tarzan come protagonista: col suo registratore a cassette effettuò la registrazione dell’urlo originale direttamente dal televisore e poi fornimmo alla Rai l’indicazione di inserirlo per tre volte all’interno dei suoni delle pecore, a volume crescente – come se Tarzan, di urlo in urlo, si stesse avvicinando progressivamente all’orecchio dello spettatore. L’oggetto che abbinammo alla registrazione non era direttamente collegato a Tarzan: si trattava di un piccolo, classicheggiante piedistallo realizzato da Andrea in finto marmo verde e intarsi di fòrmica rosa, con sopra un minuscolo barattolino in vetro contenente i miei denti di latte (finto marmo, fòrmica, e elementi macabri e kitsch degli anni ’60: erano tutte “suggestioni” estetiche su cui ruotava il nostro lavoro in quegli anni, che confluiranno qualche mese più tardi nell’installazione urbana Rarità Botaniche all’Orto botanico di Cagliari). La mostra Immagini Sonore fu in ogni caso l’occasione di rivedere Ugo e dimostrargli che, per quanto molto giovani, e nemmeno diplomati, già ci si potesse ormai considerare facenti parte integrante del mondo dell’arte cagliaritana a tutti gli effetti.
Andrea Nurcis :
Quando ero uno studente del Liceo Artistico di Cagliari, verso la fine degli anni ’70, qualche volta mi capitava di sentir pronunciare da alcuni miei insegnanti il nome di Ugo Ugo. L’originalità del nome mi incuriosiva e già mi rendeva simpatica la persona che lo possedeva, pur senza conoscerla.
I miei insegnanti erano artisti riconosciuti da tempo a livello locale, e di grande spessore intellettuale; una parte di loro, assieme a Ugo, già dal decennio precedente fece parte di un gruppo di operatori culturali che animò un importante dibattito sulla “modernizzazione” della cultura in Sardegna. Sul finire degli anni ’60 tale dibattito ebbe come principale risultato la nascita della collezione d’arte contemporanea della Galleria comunale di Cagliari, di cui Ugo fu il principale artefice nonché direttore.
Se cerco di ricordare quando conobbi Ugo di persona, nella mia memoria appare quella tipica gran luce immobile e calda dei pomeriggi cagliaritani e la sensazione di un tempo che galleggia nel vuoto: credo che attendessi l’apertura della Galleria seduto su una panchina dei Giardini Pubblici. Ugo era sempre presente nelle sale fresche del museo, pronto ad accogliere i visitatori e illustrare il senso delle opere esposte. Ma di lui ebbi una conoscenza più diretta nel 1980 durante la partecipazione a una mostra di carattere regionale il cui intento era fare il punto sulla situazione dell’arte visiva in Sardegna, e che venne organizzata, tra gli altri, dallo stesso Ugo.
Tra le mie ossessioni di artista adolescente v’erano le ceroplastiche ottocentesche di Clemente Susini, allora conservate in una stanza buia e polverosa dell’Istituto di Anatomia patologica dell’università di Cagliari, peraltro visitabili solo su appuntamento. Inoltre il lavoro che facevo in quel periodo – che definirei un minimalismo organico dalle valenze psico-simboliche, e sicuramente affascinato dalle forme delle opere in lattice di Eva Hesse – consisteva nella realizzazione di centinaia di piccoli cilindri di cera mescolata a guscio d’uovo triturato, poco più grandi di un capezzolo, che attaccavo sulla parete della mia stanza al punto da riempirla quasi fino al soffitto come se fossero delle piccole escrescenze del muro. Il calore estivo poi modificava la regolarità dei cilindri in cera e la rigidità seriale con cui erano stati installati sulla parete.
Così per quella mostra decisi di proporre, in chiave figurativa e realistica, una serie di capezzoli umani in cera che incollai su un pilastro della sede in cui si teneva la grande esposizione regionale (i locali della Fiera internazionale della Sardegna). Attorno ai “capezzoli” aggiunsi alcuni interventi grafici a penna e matita tra cui la trascrizione del testo di un brano dei Residents (“Constantinople”), band che in quel periodo seguivo assiduamente. Ricordo che Ugo rimase colpito dalla mia installazione e mi fece i suoi apprezzamenti.
Per me fu facile rapportarmi con Ugo, uomo estremamente curioso e disponibile sul piano umano, e instaurare un legame di amicizia che dura ancora oggi. Mi ritrovavo spesso con Enrico a frequentare il suo ufficio della Galleria comunale trascorrendo con lui lunghi pomeriggi a parlare d’arte, ad ascoltare le sue narrazioni sui suoi amici artisti o gli aneddoti dell’avventura che lo portò in giro per l’Italia incontrando gli artisti più importanti di quegli anni per acquisire a prezzo politico le opere da inserire nella Collezione.
CAPITOLO II
OR :
Da quello che ci scrivete ci sembra già di vedere alcuni tratti precisi del carattere di Ugo e della sua particolare attività. Quella di Ugo è la storia di uno spirito creativo, curioso, un intellettuale, un artista divenuto direttore di un museo, del quale ha creato una notevole collezione di artisti contemporanei. Ci sembra che questa collezione sia parte fondamentale dell'opera di Ugo e che questa non sarebbe potuta nemmeno esistere se a metterla su non ci fosse stata le curiosità intellettuale e creativa di un artista. Qual è il vostro punto di vista a riguardo? Come ha lavorato Ugo come direttore e come ha creato questa collezione?
Enrico Corte :
La collezione della Galleria comunale – o Collezione civica, come dice qualcuno, o Collezione Ugo, com’è giusto che sia chiamata d’ora in poi – è frutto di varie congiunture storiche che riguardano il modo di pensare l’arte e di agire all’interno del suo Sistema non solo da parte di Ugo, ma anche degli artisti contemporanei di allora. L’idea di una collezione simile nasce tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, per poi giungere a compimento con l’inaugurazione nel 1975 (si arricchirà di alcuni pezzi negli anni successivi, ma senza che si realizzi quel piano di acquisti e aggiornamento continuo nel tempo che Ugo avrebbe voluto). Qualsiasi artista o critico o operatore culturale di rilevanza nazionale o internazionale che abbia vissuto di persona il passaggio dagli anni ’70 agli ’80, potrà descrivervi una sorta di mutamento epocale per cui in poco tempo spariscono i luoghi e le modalità di aggregazione degli artisti (parlo proprio dell’uso di vedersi la sera in certi bar o trattorie, per parlare d’arte), e una certa idea di “ambiente dell’arte” (in cui ci si conosce tutti, ci si frequenta quotidianamente, si collabora gratuitamente, si condividono gli studi, si litiga, ci si ubriaca, ci si droga assieme, ecc.), e subentrano invece le strategie individuali di perseguimento del successo, della ricchezza, del potere.
L’idea di competizione tra artisti esiste da sempre, ma le circostanze economiche degli anni ’80, il cambio di mentalità verso il “reaganismo” e un maggiore afflusso di denaro nel mercato dell’arte hanno reso le cose più ciniche. Lo status di un artista inizia a essere rappresentato dal numero di segretarie o di assistenti che ne mandano avanti il lavoro, e soprattutto dalla “top gallery” che lo rappresenta; si valuta la qualità di un’opera in base alle quotazioni d’asta, che in alcuni casi di artisti giovani diventano rapidamente astronomiche; inoltre, prende sempre più piede da parte dei dealers l’attitudine a pilotare le compravendite d’asta in modo da far accrescere le quotazioni dei propri artisti. C’è un libro di Jean Clair del 1983, Considérations sur l'État des Beaux-Arts, che descrive lo sviluppo di questa fase storica. Anch’io ho percepito questa mutazione, di sguincio e nella sua fase finale: già verso la metà degli anni ’80 vedevo molti artisti, anche della mia stessa generazione e soprattutto del nord Italia, iniziare a comportarsi come direttori di banca (espressione sentita dire da un gallerista di Roma che frequentavo al tempo) piuttosto che personaggi spinti dalla propria creatività verso una visione alternativa del mondo. Non faccio una critica moralista, esprimo una semplice constatazione – e d'altronde è anche giusto che ogni epoca abbia le proprie modalità di azione e le proprie mode comportamentali; voglio solo dire che Ugo forse non avrebbe potuto realizzare quella collezione se si fosse mosso qualche anno più tardi.
Prima che la convivenza tra le figure del Sistema dell’arte subisse questa mutazione, prima che l’aumento dei prezzi delle opere creasse una burocratizzazione dei rapporti interpersonali, prima che il management del gallerista di turno filtrasse ogni rapporto tra l’artista e il mondo, Ugo ebbe il tempo di girare per gli studi di diversi artisti, già noti oppure giovani promesse, e, con la sua signorilità, discrezione e sincerità di rapporto, riuscire a farsi vendere a un prezzo politico assai basso (leggi: “regalare”) una serie di opere importanti. Certo, la curiosità intellettuale e creativa implicita nell’Ugo “artista” è stata fondamentale per trovare lo slancio necessario, per azzeccare certe scelte e dunque per creare una buona raccolta di opere, ma anche e soprattutto fu importante quella squisitezza e sincerità dei suoi modi, a tratti anche disarmanti, che non creava alterigia, soggezione o tantomeno sospetto agli occhi degli artisti che andava incontrando.
Ora, il principale problema era la totale arretratezza degli organismi comunali, dei dirigenti degli uffici amministrativi e dalla burocrazia isolana a cui Ugo doveva render conto per le sue scelte e spese. Un quadro che fosse solo minimamente astratto già creava problemi in quanto “incomprensibile”. Il fatto che alcuni nomi di artisti selezionati fossero assai conosciuti significava poco per i burocrati dell’amministrazione comunale, e qualsiasi prezzo “stracciato” fosse stato pagato per certe opere moderne poteva sembrare loro eccessivo (quindi mettere in crisi l’intero ruolo culturale di Ugo). Quando, dopo l’inaugurazione del 1975, apparve sul quotidiano L’Unione una recensione a firma dello scrittore e critico Francesco Masala (che, per combinazione, abitava nel mio palazzo, due piani sopra il mio) intitolato qualcosa come “Il nulla mercificato”, ecco che già solo questo poteva bloccare qualsiasi finanziamento alla collezione e alle successive iniziative culturali che Ugo aveva in mente per la Galleria.
In un modo o nell’altro la Galleria riuscì ad andare avanti, ma la mancanza di grandi finanziamenti per la creazione di mostre è stata una delle caratteristiche dell’attività direttoriale di Ugo. Ciò non ha impedito che si siano create parecchie iniziative di livello molto alto: questo si deve anche alla buona volontà di tutti gli artisti coinvolti, ovviamente trascinati dall’energia, dal buonumore e dall’ironia di Ugo, coi suoi modi diretti e signorili. Personaggi come Corrado Maltese, Salvatore Naitza, Gillo Dorfles, Vittorio Fagone, Marisa Volpi Orlandini Aldo Passoni e Antonello Negri aiutarono Ugo nella selezione degli artisti e nei contatti, e di certo i loro nomi, almeno nella prima fase, servirono a dare credibilità all’intero progetto agli occhi dei burocrati del Comune; credo però che solo Ugo avesse la giusta capacità di relazione per identificare e farsi cedere certe opere. A questo proposito, qualcuno sostiene che solo un artista può giudicare un altro artista, e a volte anch’io penso che ciò sia vero.
Andrea Nurcis :
Essendo Ugo innanzitutto un artista, ancor prima di un funzionario pubblico nel ruolo di direttore di un museo, mi è sempre sembrato evidente che la sua sensibilità creativa l’abbia portato a realizzare una collezione d’arte contemporanea quasi con la stessa passione che avrebbe avuto nel realizzare una sua opera.
La costruì, se ne prese cura e la condusse negli anni secondo dei criteri abbastanza inusuali, non conformi alle aspettative istituzionali e dell’opinione pubblica cagliaritana, le quali purtroppo sono sempre state refrattarie alle novità, prediligendo posizioni conservatrici e tradizionaliste.
Così quel settecentesco edificio neoclassico dei Giardini pubblici, ex Polveriera reale, conosciuta da tutti come Galleria comunale d’arte, grazie a Ugo riusciva ancora a conservare qualcosa di deflagrante nei confronti della sonnolente cittadinanza, non solo per il contenuto innovativo delle opere esposte, ma anche per una certa modalità nella gestione di uno spazio di libertà: uno spazio che pretendeva da parte degli avventurosi e fortunati visitatori una fruizione partecipata e una interazione con le opere.
Ugo per una sua ragione etica e professionale scelse con generosità di mettere in ombra la sua figura d’artista proponendosi sempre come la guida gioiosa al percorso della collezione da lui creata. Non mi è mai apparso come un burocrate conservatore o direttore paludato, né come pedante intellettuale dal tono professorale. Occorre riconoscere a Ugo anche la capacità e il coraggio di aver messo a diretto confronto, e in una collezione permanente, le punte più avanzate dell’arte italiana del momento con gli artisti locali maggiormente innovativi. Questa scelta si rivelò un’efficace spinta propulsiva per la crescita e il riconoscimento degli artisti operanti in Sardegna.
Ugo era sempre presente e disponibile, entusiasta nel comunicare il senso vitale dell’arte e il valore di profonda libertà che l’arte può insegnarci. Ecco allora che nella mia mente ancora oggi risuona vivo il ricordo del fracasso prodotto dalle molle d’acciaio della scultura Fleximofono del torinese Piero Fogliati, quando la si faceva risuonare nella grande sala in cui era sospesa, offrendosi liberamente alla “manipolazione” affinché il suo rumore si espandesse creando concettualmente un’ulteriore plasticità dell’opera. La materia di una scultura può infatti essere anche una vibrante onda sonora che invade lo spazio infrangendosi violenta sulle pareti della sala.
E ancora ricordo l’opera di Giulio Paolini che, nella semplicità formale di una tela bianca attraversata da lunghi fili di nylon colorati come fossero delle gocce di pittura colanti sino al pavimento, chiedeva all’osservatore di comporre a mano il “proprio” quadro disponendo quei fili colorati a suo piacere sulla superfice vuota della tela.
Ugo aveva creato una collezione che era come un organismo vivente di cui lui conosceva i segreti e le varie possibilità, e ti permetteva di scoprirli un po’ alla volta durante l’esplorazione in cui ti conduceva.
In qualche modo la sua “conduzione”, o quella del personale da lui istruito, era fondamentale: non tanto per la spiegazione delle opere, quanto per la loro utilizzazione pratica, per l’apertura delle loro possibilità di manipolazione, per il rifiuto di una fruizione passiva, per la pulsione all’intervento.
Non si percepiva nessuna fredda intellettualizzazione o senso di feticismo meditativo dentro le sale della Galleria. Ugo aveva impostato l’esposizione considerando necessario il coinvolgimento fisico dello spettatore; in questo modo ti spingeva ad attraversare e sfiorare i grandi monoliti oscuri dell’opera Pondus di Rodolfo Aricò, a penetrare nello Spazio elastico di Gianni Colombo, a lasciare che la tua ombra venisse impressa sulla parete curva dell’istallazione Ambiente cronostatico circolare di Davide Boriani & Gabriele De Vecchi.
Ma altrettanto coinvolgenti, ai miei occhi, erano le opere più legate alla pratica della pittura analitica o dell’astrazione, come il quadro “povero” e senza telaio di Giorgio Griffa, che mi appariva assieme estremo e rigoroso, oppure la commistione fotografia/parola di Bruno Di Bello, con una grande opera in cui il concetto di “arte” veniva letteralmente fatto a pezzi.
E oltre la fruizione della Collezione, Ugo ti offriva il racconto dei suoi viaggi, degli incontri con gli artisti, delle persone dietro le loro creazioni. Ancora lo ricordo mentre mi illustra la misteriosa opera di Vincenzo Agnetti Portagiri – Flusso e riflusso territoriale, di cui cerca di farmi capire il senso attraverso la narrazione della sua visita nello studio dell’artista a Milano.
Mentre vedevo roteare il disco metallico che specchiava i nostri volti distorti, ondeggianti all’interno di un movimento ellittico come in cerca di una stabilità, di un centro, di un equilibrio, Ugo mi raccontava dell’artista Agnetti e dei suoi modi assenti, di lui perduto tra i suoi pensieri, distratto come da un’instabilità esistenziale che immaginavo simile all’effetto allucinato di quel riflesso circolare dei nostri volti, alla freddezza e precisione geometrica di quella scultura dal corpo profondamente nero su cui è stampato luminoso il titolo dell’opera – e capivo che l’arte non è solo un fatto formale, una speculazione intellettuale fine a se stessa, ma è innanzitutto un’esperienza umana, un processo esistenziale dentro cui perdersi
CAPITOLO III
OR :
Ci piacerebbe capire come lavorava nello specifico Ugo per costruire la collezione: ricordate qualcuno dei suoi viaggi per far visita agli artisti e come concretamente si muovesse? Voi siete stati inoltre tra i più giovani ai quali abbia dedicato una mostra personale alla Galleria, come ricordate quell'esperienza e come andarono le cose?
Andrea Nurcis:
Prima di rispondere direttamente a queste domande vorrei lasciarmi andare a una premessa fatta di liberi ricordi su alcuni aspetti della vita culturale della Cagliari di quegli anni, per contestualizzare meglio il clima sociale e culturale dentro cui Ugo operava e in cui noi stavamo facendo i primi passi.
Il dibattito di quel periodo in Sardegna era concentrato sul dualismo tra innovazione e tradizione, conservazione identitaria e superamento dell’isolamento culturale. Una discussione che si trascinava già dagli anni ‘60 ma che pare abbia ancora oggi una certa centralità. In quegli anni però tale diatriba era piuttosto accesa e aveva forti connotazioni ideologiche e politiche; vi erano spesso grandi polemiche con una netta separazione tra chi voleva “parlare sardo” e chi invece sentiva la necessità di impadronirsi di altri linguaggi per un confronto col resto del mondo.
In quel momento storico era difficile trovare mediazioni, specialmente per chi si occupava di arte visiva. Personalmente pensavo che il discorso etnico-identitario non poteva essere “ideologizzato”, al limite poteva far parte della sfera poetica dell’esperienza esistenziale dell’artista. Non ho mai accettato l’idea che un artista dovesse avere un senso di responsabilità intellettuale nei confronti del luogo di nascita, né che nel suo lavoro egli dovesse render conto delle proprie radici antropologiche. Il solo essere coinvolto in questo genere di problematica mi appariva una forte limitazione alla mia libertà creativa e alla mia immaginazione, preferendo considerare altri pianeti, altri territori oltre quello su cui mi trovavo, per un puro caso, ad appoggiare i piedi.
Detto questo, capivo e apprezzavo il lavoro di artisti come Maria Lai, Pinuccio Sciola – che fu anche mio professore al Liceo Artistico – e ancor più quello di Costantino Nivola: artisti che avevano diretti riferimenti alla Sardegna ma si tenevano lontani da ogni motivazione ideologica, e che si erano formati a stretto contatto con ambienti culturali internazionali.
Ebbi occasione di conoscere personalmente Costantino Nivola quando venne a Cagliari per realizzare alcuni lavori commissionati dalla Regione Sardegna, e potei così scoprire la profonda ironia che aveva nei confronti dei suoi corregionali. Nivola da ragazzo, umile apprendista muratore, abbandonò la sua isola per andare a studiare arte all’istituto di Monza, e venne in seguito assunto da Olivetti per il quale realizzò lavori dal linguaggio estremante nuovo; a causa della guerra si trasferì a New York assieme alla moglie Ruth Guggenheim, e qui realizzò importanti opere tra arte e architettura, pienamente accolto dall’ambiente culturale e artistico americano più avanzato. Nivola parlava dei conterranei sardi usando un tono tra il cinico e l’affettuoso, con lo stesso spirito di quando disegnava o modellava con la creta le sue buffe figurine dal sapore infantile e arcaico.
Non dimenticherò mai il suo racconto (di cui esiste anche un suo bellissimo disegno), sull’esperienza che ebbe a Roma assistendo per caso alla fucilazione dell’anarchico Schirru, condannato dal regime fascista per aver attentato alla vita del Duce. Nivola, tra incredulità e orrore, ci narrava di quando, passeggiando per Roma nella zona dei Fori imperiali e del Colosseo, iniziò a vedere decine e decine di sardi vestiti coi loro costumi tradizionali che ballavano o che preparavano gli arrosti per banchettare e festeggiare la fucilazione del loro conterraneo. Accennando a un sorriso, Nivola usò parole che mi sono rimaste impresse, molto forti ed estreme nella loro generalizzazione, come in un tentativo sofferto e un po’ disperato di dare una spiegazione a ciò a cui aveva assistito: “…può capitare che un popolo, quando si sia sempre sentito escluso dalla Storia, pur di farne parte si disponga a diventare il servo dei potenti più sanguinari andando a festeggiare la fucilazione di un loro fratello…”
La stessa Maria Lai, che conobbi in Sardegna e, qualche anno più tardi, incontrai di nuovo a Roma, aveva un atteggiamento che potrei definire “distaccato” e certamente non compiaciuto nei confronti delle sue origini native. Preparandoci a lasciare definitivamente la Sardegna per Roma, io e Enrico andammo a farle visita nella Capitale per chiederle consigli su come trovarvi uno spazio in cui vivere e lavorare. Era un pomeriggio estivo particolarmente caldo. Maria abitava in un grande appartamento nel quartiere delle Medaglie d’Oro e prima di riceverci ci fece attendere alcuni minuti in una stanza fresca e silenziosa, un salotto arredato sobriamente dove, su una parete, si faceva notare un bel quadro di Campigli.
Maria era una donna delicata e gentile, ma anche molto diretta e onesta: mentre ci offriva dell’acqua la prima cosa che ci disse fu che non aveva troppo piacere nel ricevere persone dalla Sardegna perché spesso venivano a cercare da lei la condivisione di una “sardità”, di un folklore, che non le erano mai del tutto appartenuti. Ci disse di averci ricevuto in quanto giovani artisti, ma riteneva di non poterci aiutare, neppure con consigli, in quanto Roma con le sue case e i suoi quartieri non la appassionava.
L’artista che rimase maggiormente legato alla sua dimensione etnica e alle sue origini contadine fu senz’altro Pinuccio Sciola, il quale nonostante questa scelta ebbe una così grande apertura e libertà umana e artistica da riuscire a proiettare la sua ricerca oltre i confini regionali. Dopo la sua giovanile esperienza messicana, Pinuccio importò nel suo paese il fenomeno del muralismo coinvolgendo l’intera popolazione: aveva infatti un’idea globale del mondo, un mondo senza confini, pur rimanendo radicato al suo “referente” sardo. E la sua grande casa-studio a San Sperate era sempre un crocevia di personaggi provenienti da tutto il mondo: lì noi potevamo incontrare leggende della musica del calibro di Sun Ra o Don Cherry, che soggiornavano da lui in cerca di relax durante i loro tour internazionali...
A proposito della musica va detto che, all’interno di questo dibattito tra tradizione e innovazione, la ricerca musicale in Sardegna aveva presto trovato delle interessanti soluzioni di “contaminazione”, come si usava dire a quei tempi. Sia nell’ambito del jazz d’avanguardia che della musica contemporanea diversi autori erano interessati a unire il linguaggio moderno a quello della cultura popolare e tradizionale. Attraverso Gaetano Brundu entrammo in contatto col critico jazz Alberto Rodriguez, col quale Gaetano condivideva lo studio in un appartamento nel quartiere di Castello a Cagliari. Anche Gaetano fu un grandissimo appassionato di jazz; la sua pittura fu certamente influenzata dai ritmi e dai colori di questa musica e ora che ci penso anche il suo modo di camminare seguiva la tipica andatura sincopata di quel genere musicale.
Gaetano dipingeva usando un approccio simile a quello del musicista jazz quando improvvisa il suo assolo. Facendosi trasportare dal ritmo di una semplice struttura geometrica dentro la quale costruiva liberamente la sua composizione, aveva la capacità di mettere sullo stesso piano la casualità di una colatura di colore e il controllo millimetrico della pennellata, con un equilibrio formale simile a quello del musicista che nella sua esecuzione improvvisata si lascia andare alla logica del proprio suonare in una serie di concatenazioni formali ed emotive. Enrico, nel suo intervento, ha già raccontato quanto la figura di Gaetano Brundu fosse stata centrale per noi non solo per i continui scambi di informazioni sull’arte, ma anche per la sua sommessa capacità nell’indirizzarci verso certi ambienti e certe persone, come appunto Ugo o Rodriguez. Quell’appartamento-studio che dalla cima di Castello aveva una vista magnifica sul panorama della vecchia Cagliari, dove lo sguardo poteva tuffarsi sino alle acque del porto, era letteralmente invaso dai dischi: Rodriguez, considerato uno dei critici jazz più importanti e stimati in Italia, fu un vero compagno di avventura dei musicisti più interessanti dell’epoca. Senz’altro fu un intellettuale che viveva pienamente il dibattito tra tradizione e innovazione e che col suo lavoro critico costruì un ponte concreto tra la Sardegna e il resto del mondo, e incontrarlo rappresentò per noi un arricchimento fondamentale.
Grazie a Rodriguez conoscemmo uno dei suoi compagni d’avventura, il compositore e contrabbassista Marcello Melis, anche lui cagliaritano e fondatore agli inizi degli anni ‘60 del movimento del free jazz italiano. Marcello, durante il suo periodo newyorkese alla metà degli anni ‘70, incise alcuni dischi in cui metteva a confronto i suoni della tradizione musicale sarda con quelli dell’improvvisazione, avvalendosi della collaborazione di grandissimi nomi del jazz afroamericano di ricerca. Al tempo stesso, nell’ambito della musica colta contemporanea anche Franco Oppo dava il suo importante contributo con opere in cui il linguaggio della musica sarda veniva decodificato e inserito perfettamente nel contesto della sperimentazione più avanzata. Ora, il ricordo di Oppo, anche se non ebbi mai occasione di conoscere di persona, è legato al fatto che fu animatore di eventi di grande livello, che nella piccola e provinciale città di Cagliari ebbero per me ed Enrico un valore formativo di grande impatto. Nonostante la mia totale impreparazione musicale in senso tecnico, la musica era per noi una passione altrettanto forte quanto quella per l’arte; a Cagliari, tra l’altro, non mancavano concerti di rilievo ed esisteva, come anche oggi credo, un pubblico sicuramente più numeroso e preparato di quanto non vi fosse per l’arte visiva.
Avere avuto da ragazzo, grazie a Oppo, la possibilità di partecipare a una serie di conferenze sulla musica elettronica, di incontrare personalmente Luigi Nono e assistere ad un suo concerto, di poter addirittura stare a stretto contatto con Karlheinz Stockhausen in occasione di una lezione sui suoi metodi compositivi, ha costituito un bagaglio di esperienze della cui eccezionalità riesco a rendermi conto solo oggi.
Lo ammetto, Stockhausen parlava in tedesco aiutato a malapena da un traduttore, e le sue disquisizioni erano talmente tecniche che ne capivo poco o nulla, ma aveva di certo una energia comunicativa notevole: andava su e giù per la stanza agitandosi e parlando al limite dell’urlo; mentre lo fissavo ammirato dalla sua bellissima camicia con enorme colletto merlettato a punta, lui mi guardava negli occhi spiegandomi cose per me indecifrabili, ed io annuivo e fingevo di capire tutto, ricevendo in cambio sorrisi ed espressioni di soddisfazione. Lui per me era lo Stockhausen che appariva sulla copertina di Sergent Pepper’s dei Beatles e che influenzò la musica di Miles Davis. Anche a livello popolare era considerato già uno dei maestri della musica del ‘900 e poi era il punto di riferimento di una serie di gruppi che incominciavamo ad ascoltare con entusiasmo, il Krautrock dei Can e dei Neu!, l’elettronica dei Kraftwerk… tutti musicisti che furono allievi di Stockhausen e che rappresentavano per noi la scena che sul finire degli anni ‘70 apriva il decennio degli ‘80 a una nuova sensibilità.
L’arte e la musica erano per noi lo strumento per costruire un ponte che ci metteva in diretto contatto col mondo, e quel ponte era la forma più alta di libertà di cui un essere umano può fare esperienza; in quella piccola città provinciale che era Cagliari, attraverso l’arte potevamo non limitarci a sognare, ma anche concretizzare realmente il superamento dell’isolamento culturale e fisico a cui l'insularità ci costringeva.
Potrei continuare coi ricordi, ma ho voluto fare solo alcuni esempi per dare maggiore concretezza al contesto in cui Ugo operava e nel quale l’abbiamo conosciuto. Il contributo di Ugo, sia col suo lavoro di artista che come creatore e direttore della collezione, rappresentava una risposta molto precisa alla problematica sul dualismo tra innovazione e conservazione della tradizione. Ugo era per l’innovazione e l’apertura totale, contro ogni forma di localismo e gabbia identitaria; probabilmente questa sua scelta così lontana da ogni compiacente demagogia non fu capita degli amministratori pubblici e col passare degli anni non possiamo dimenticare senza sofferenza che la “sua” collezione fu sempre più messa ai margini degli interessi pubblici, fino a essere del tutto sottratta alla fruizione cittadina, scomparendo negli anni ‘90 dalla memoria culturale di Cagliari e diventando quasi completamente sconosciuta alle generazioni più giovani.
Entrare nella Galleria di Ugo significava immergersi in un'altra dimensione spazio-temporale che poco aveva a che fare con ogni rumoreggiante cadenza dialettale. Varcata quella soglia, incominciava a mancare la forza di gravità. In quegli spazi si galleggiava con la mente e ogni legame con la propria terra scompariva. L’arte era l’unica entità che contasse: con i suoi enigmi linguistici e formali, i suoi segni dalle logiche giocose ma raggelate in una razionalità matematica, talvolta filosofica, col suo vuoto capace solo di porre dubbi intriganti.
Davanti al quadro di Enrico Castellani, Ugo mi spiegava quanto rimase affascinato nel vedere l’artista nel suo studio costruire l’intelaiatura sulla quale poi tendeva la tela e attraverso il gioco di centine e chiodi creare le sue famose tele estroflesse. Quella superficie che davanti allo sguardo ondeggiava e ritmicamente pulsava venendomi incontro per poi ritirarsi all’indietro, era così viva e dinamica perché, come tutti gli organismi che si muovono, vi era uno scheletro e una struttura cellulare a consentirglielo.
Senza esitazione, incurante della presenza o meno di altri visitatori, prese delicatamente il quadro, lo staccò dal muro e lo appoggiò con attenzione al pavimento, ruotandolo per mostrarmi la costruzione del retro. Vedere il lato nascosto del quadro di Castellani era altrettanto importante e stupefacente quanto vedere la superficie frontale. Da quel momento, ogni volta che osservo un quadro, istintivamente sono portato a guardare come si presenta dietro e, se ciò non è possibile, cerco di immaginarlo; a volte quello che un pittore scrive dietro la tela, la sua firma, le macchie di colore, la stessa trama della tela e il modo con cui il colore l’ha impregnata, possono svelare molto del senso di un’opera e delle intenzioni di un artista.
Ugo, davanti a un’opera, raramente si interessava a ciò che appariva agli occhi: lui preferiva indagare su quello che non si vedeva, sul contenuto nascosto, la tecnica o i materiali con cui era realizzata e talvolta anche sul vuoto, o sull’ assenza di materiali, in senso letterale.
Percorrendo insieme le sale della Galleria che risuonavano ai nostri passi, Ugo si fermò all’improvviso e, indicandomi un grande spazio vuoto lì davanti, mi disse: “vedi, qui ci avrei messo la sfera di carta di giornale e filo di ferro di Michelangelo Pistoletto… è un suo lavoro importante, lo conoscerai perché è stato pubblicato anche nel primo libro di Germano Celant sull’Arte Povera. Pistoletto la portava in giro, la faceva rotolare per le strade. Ero andato a trovarlo nel suo studio… una persona molto carismatica con una gran barba, sembrava un patriarca, viveva come in una comune circondato da tante persone che lavoravano con lui, faceva anche teatro. Mi fece aspettare un po’; quando finì di fare le sue cose si avvicinò a me per chiedermi piuttosto bruscamente chi fossi e cosa volessi. Gli parlai della collezione che stavo realizzando e del fatto che stessi girando per gli studi di tanti artisti. Lui si guardò intorno, mi indicò quella sfera e mi disse che, se volevo, potevo portarmi via quel lavoro. Ero entusiasta, era un lavoro che mi piaceva moltissimo! Telefonai subito a Cagliari per farmi organizzare un trasporto: era un’opera grande, non semplice da trasportare e non potevo farla rotolare dal Piemonte sino alla Sardegna! Purtroppo quando ci accingemmo a ritirarla l’opera non era più disponibile.
Ugo si riferiva all’opera di Michelangelo Pistoletto intitolata Mappamondo, realizzata tra il ‘66 e il ‘68. Un’opera effettivamente molto importante che è diventata una specie di icona del movimento dell’Arte Povera e di un momento di cambiamento del linguaggio dell’arte internazionale del secondo dopoguerra. Un’opera che oggi ha un valore non solo storico ma anche economico altissimo. Alcuni anni fa venni invitato ad esporre da Arnaldo Pomodoro a Milano, alla mostra di inaugurazione della sua Fondazione intitolata La scultura italiana del xx secolo in cui erano presenti una serie di capolavori storici del ‘900, da Medardo Rosso fino alle ultime generazioni. Naturalmente era presente il Mappamondo di Pistoletto, ma protetto da un cordone separatore e sorvegliato da una guardia in divisa! Pomodoro mi disse che il valore di quell’opera era talmente alto che non potevano permettersi di rischiare nessun genere di incidente. Osservavo il Mappamondo accanto alla guardia, distanziato dal pubblico tramite cordoni di protezione; lo osservavo con un senso di familiarità pensando alla storia raccontata da Ugo e ancora, a distanza di tanti anni, lo immaginavo nello “spazio ideale” in cui lui l’avrebbe collocato, in quell’angolo fisicamente vuoto ma non per questo, ai suoi occhi, privo di significato.
Come abbiamo detto, nel 1982 Ugo decise di aprire gli spazi della Galleria Comunale agli artisti giovani per registrare quello che di nuovo stava accadendo nella realtà cittadina. Il decennio degli anni ’60 e ’70 era ben più che rappresentato, sia a livello locale che nazionale, dalla collezione permanente che aveva messo in piedi. Ma i “cambiamenti” dell’arte e della cultura andavano avanti, trasformando tutto ancora una volta: il mercato, la critica, e la stessa ricerca artistica.
La conoscenza tra me e Ugo risaliva già a qualche anno prima di quel 1982 in cui mi diede la possibilità di realizzare la mia prima mostra personale negli spazi della Galleria comunale d’arte. Ugo mi chiedeva sempre a cosa lavorassi ed era curioso di vedere le mie realizzazioni. Con un grande senso di rispetto e discrezione era curioso anche della mia vita personale, dei miei genitori, della mia abitazione: come se per capire i miei lavori avesse bisogno di conoscere anche la dimensione privata ed umana. Il fatto che io provenissi da una famiglia estremamente umile e che abitassi in una modesta casetta sul colle di Tuvixeddu, ai piedi della nota necropoli, aumentava la sua curiosità. Probabilmente si chiedeva cosa avesse a che fare con l’arte contemporanea un ragazzo non ancora maggiorenne, figlio adottato da una casalinga e un muratore che non avevano terminato nemmeno gli studi elementari, educato e cresciuto in una dimensione sociale che sarebbe stata definita di “sottoproletariato”.
Allo stesso modo io ero incuriosito dal suo aspetto di signore borghese d’altri tempi, col suo modo di fare gentile e attento, vestito sempre elegante in giacca e cravatta, che amava fumare la pipa e indossare un cappello il quale non dimenticava mai di levarsi rispettosamente per salutare anche solo la guardia giurata che presiedeva l’ingresso della Galleria e che incontrava tutti i giorni.
Anche io ero molto interessato al suo lavoro di pittore e alla particolare tecnica che Ugo aveva elaborato: una tecnica molto particolare, una sorta di stampa a monotipo su carta in seguito incollata su tavola. Mi interessava non solo per la qualità pittorica che spesso giungeva a effetti stupefacenti di tridimensionalità, ma soprattutto per quel senso di valore “antipittorico” che io stesso andavo a cercare nei miei lavori. Una pittura non-pittura, nella quale il segno della pennellata aveva un senso più concettuale che figurativo. Un’arte fredda e mentale, fatta con pochi colori o addirittura monocromatica, che si teneva lontana da ogni compiacenza e coinvolgimento sentimentale come se fosse quasi un’impronta cerebrale più che un concreto processo di pittura.
La mostra che proposi a Ugo presentava una serie di lavori realizzati negli ultimi due anni che volevano confrontarsi proprio con quel momento storico di cambiamento, in cui l’esaurirsi del linguaggio prettamente concettuale riapriva la strada all’immagine e a un confronto con la storia attraverso gli strumenti della pittura e della scultura. Nel 1982 fenomeni come quello della Trans-avanguardia italiana, del Graffitismo newyorkese e dei Neuen Wilden tedeschi, avevano raggiunto un pieno riconoscimento sia da parte della critica che del mercato. Anche molti artisti delle generazioni precedenti, già affermati maestri dei movimenti dell’Arte concettuale, della Body art o dell’Arte povera, riprendevano in mano tele e pennelli riempiendo gallerie, musei e collezioni private di opere grondanti di materia pittorica e immagini figurative di qualsiasi tipo.
Per me fu un momento entusiasmante, e non credo che questa situazione di grande libertà creativa attraverso i linguaggi più legati alla tradizione volesse semplicemente adeguarsi al ruolo che il mercato dell’arte aveva assunto in maniera predominante provocando una grande richiesta di opere di pittura. C’era veramente l’esigenza da parte di tutti di liberarsi di certi modelli concettuali che ormai apparivano del tutto consumati, esauriti.
Eppure man mano che questo vitale cambiamento trovava sempre maggiori conferme dentro il sistema dell’arte, vi notavo la persistenza di elementi che non mi erano mai appartenuti e che mai mi avrebbero coinvolto: questi riguardavano essenzialmente il ruolo dell’artista che ritornava ad assumere il valore del “mestiere” del pittore, di colui che costruisce un segno, una forma di riconoscibilità da ripetere con varianti minime per mai tradire quella semplificazione e chiarezza richiesti da un crescente consumo culturale.
Nel 1981 decisi di iniziare un progetto a tutt’oggi ancora in corso, che consisteva nel realizzare un disegno ogni notte per tutto il resto della mia esistenza. Ogni disegno era eseguito con la stessa tecnica: biro su un foglio di carta sempre delle stesse dimensioni. Il disegno sarebbe terminato una volta che si fosse esaurito l’inchiostro della penna oppure la mia stessa resistenza fisica, trattandosi quasi sempre di un lungo lavoro che mi portava alle ore più tarde della notte. Si trattava di eseguire una sorta di ritualità tendente a riportare l’immagine verso il suo stato originale, ricacciandola indietro nel luogo oscuro della memoria a cui l’arte ha sempre cercato di dar luce. Proprio nel momento in cui le immagini si trovavano sotto nuovi e potenti riflettori della storia, decidevo invece di spegnere la luce, cancellare, creare il buio pesto della mente che arrivava sino al confine del sonno in cui, tremolante, poteva sopravvivere l’apparizione di un fantasma. In quella mostra presentavo le mie prime 50 notti dedicate a questa azione che occupavano buona parte di una grande parete del pianterreno della Galleria. Creare delle immagini non significava narrare, né sviluppare un segno, formalizzare uno stile o rendere omaggio alla storia rimpossessandomi di quelle modalità che nella ricerca artistica del ‘900 avevano gradualmente perso la loro centralità storica. Significava per me catalogare frammenti, lievi e inconsistenti apparizioni, barlumi mentali senza nessuna gerarchia. Accettavo qualsiasi cosa che scaturisse dalla ritualizzazione notturna di quel processo psicofisico che era il mio disegnare.
Sulla parete frontale invece avevo disposto 18 lastre in vetro che nella loro brillante esplosione di colore escludevano ogni tentativo di specchiare il lavoro che avevano davanti. Una contraddizione formale estrema ma allo stesso tempo la condivisione di un equilibrio come l’alternarsi ovvio della luce e del buio durante il giorno. Di fronte ai Disegni neri, spesso brandelli di carta sopravvissuti al lavoro insistente della penna, a volte tenuti insieme dal nastro adesivo, con la pesantezza psichica delle loro immagini, si schieravano le 18 Lastre di puro colore, leggere e astratte, freddamente antipittoriche perché ogni matericità, ogni possibile segno della mano erano assenti. Inventai una tecnica in cui il fare pittura nasceva da una manipolazione plastica della materia, e che nel risultato finale appariva nella sua valenza di pura schermata bidimensionale, delirante di colore come fosse una allucinazione psichedelica. Cellule di plastilina colorata, modellate in varie forme, cilindri o sfere in cui i colori mai si mescolavano del tutto ma rimanevano compressi dentro confini precisi come in un mosaico organico, venivano schiacciate sulle lastre di vetro. La tridimensionalità originale si espandeva sulla superfice trasparente, i colori rimanevano puri non contaminandosi tra loro; la plasticità della scultura diventava linguaggio pittorico nel gioco della manipolazione del pongo compresso e schiacciato sulla superfice.
Il resto delle opere presenti in mostra erano ancora una volta la negazione di uno stile, sfuggivano a una ricerca formale univoca e si proponevano come frammenti mentali intenti a esplorare il senso dei linguaggi e delle immagini. Piccole sculture in cera realizzate qualche anno prima sopravvissute al tempo erano sparse per la galleria, poste su basi in mezzo alle stanze oppure installate al muro sotto teche in vetro o plexiglas.
L’opera intitolata Stimolatore Ottico era tra queste sculture la più grande: una forma fallica di un metro d’altezza circa che in alto presentava un occhio di forma ovoidale racchiuso dentro una sfera in vetro. Si trattava di una sorta di grumo ceroso, tra l’animalesco e il vegetomorfo, come fosse una entità aliena che nei suoi numerosi dettagli fatti da filamenti, bubboni, peduncoli, pieghe, creste cancerose, tumefazioni trasudanti essenze sierose, aveva l’unico scopo di penetrare e violentare lo sguardo dello spettatore. Lo Stimolatore era l’opera più vicina allo spirito della nostra installazione Rarità Botaniche, della quale in mostra vi erano dei “relitti” sopravvissuti al caldo dell’estate 1981. Così, con lo stesso spirito, offrivo al pubblico un piccolo autoritratto rappresentato come un cadavere in putrescenza disteso su un tavolo d’obitorio in cui le mie sembianze apparivano ormai sfigurate, poco riconoscibili nella loro corruzione, per cui quella figura poteva essere, alla fine, il ritratto di chiunque… se non che le sue unghie e capelli erano realizzati con i miei veri capelli e con veri frammenti di mie unghie: gli unici elementi che realmente contenevano il DNA riconducibile alla mia identità di essere passato su questa terra.
Penso che la varietà di forme, l’invenzione di tecniche inedite e la continua messa in discussione dei linguaggi, fossero i motivi che principalmente suscitassero l’interesse di Ugo per il mio lavoro. Ugo nell’arte andava sempre a ricercare un senso di meraviglia, di mistero e incomprensibilità da indagare. Amava soffermare a lungo il suo sguardo sulle superfici, era il suo occhio a penetrare le opere per capire come fossero state realizzate, e con l’uso di quali materie. Credo che la possibilità che mi offrì di realizzare una personale in uno spazio pubblico prestigioso, con le sue enormi sale, rientrasse molto bene nel suo spirito intellettuale non conformista, disponibile al rischio e soprattutto curioso e generoso nei confronti di chi come me, iniziava il suo percorso nel mondo dell’arte.
OR :
Ci piacerebbe capire come lavorava nello specifico Ugo per costruire la collezione: ricordate qualcuno dei suoi viaggi per far visita agli artisti e come concretamente si muovesse? Voi siete stati inoltre tra i più giovani ai quali abbia dedicato una mostra personale alla Galleria, come ricordate quell'esperienza e come andarono le cose?
ENRICO CORTE :
Ugo ci ha raccontato spesso i suoi aneddoti sulle visite agli studi dei vari artisti; alcune di queste narrazioni sono confluite nel primo articolo che scrissi nel 2007 per L’Unione. Ho voluto scrivere quell’articolo proprio allo scopo di dare nuova luce alle vicende della Collezione, al tempo invisibile da anni (anzi, totalmente negletta), denunciarne un certo scempio e suggerire per la prima volta alle autorità competenti di intestare a Ugo il nome dell’intera raccolta d’arte, o di ciò che ne fosse rimasto. Per dare più forza alla tesi dell’importanza della Collezione, volli riportare nell’articolo alcuni prezzi e quotazioni d’asta di alcuni artisti, tra quelli selezionati da Ugo, che nel tempo si sono maggiormente affermati. Volevo privilegiare l’aspetto economico perché bene o male è un dato concreto che tutti possono intendere, al di là della comprensibilità o dell’apprezzamento individuale delle opere dei singoli artisti. Purtroppo un taglio di questo tipo, anche per evitare l’eccessiva lunghezza dello scritto, tendeva a escludere i nomi degli artisti locali, meno quotati di quelli operanti a livello nazionale. Ciò diede adito a critiche e malumori, e l’obbiettivo che mi ero posto fu fatto naufragare nel mare delle diatribe di provincia. Dovetti scrivere un secondo articolo, anni più tardi, perché le cose finalmente si smuovessero.
Per ciò che riguarda le nostre mostre personali in Galleria, ancora una volta fu Gaetano Brundu ad avere un ruolo centrale negli sviluppi di questa storia. La sua persona, la sua generosità – più che la sua pittura – si può dire che sia stata una sorta di catalizzatore, di eminenza grigia (o meglio, “bionda”) attraverso la quale si diffondevano le idee, le informazioni e le energie di quel piccolo ma vitale ambiente dell’arte cittadino.
Dopo esserci diplomati nel 1980 – e aver seguito nel 1981 quello che veniva chiamato il “corso integrativo” del liceo artistico, propedeutico agli studi universitari – io e Andrea ci iscrivemmo all’università di Cagliari, pur continuando a mantenere uno stretto rapporto d’amicizia e di frequentazione con alcuni dei nostri vecchi professori, e in particolare con Brundu. Verso i primi mesi del 1982 Gaetano ci disse che la Galleria comunale aveva in programma di organizzare una serie di mostre personali dedicate ad artisti contemporanei delle ultime generazioni; Ugo in persona, in qualità di direttore, avrebbe fatto la selezione. Gaetano ci suggerì di prendere appuntamento con Ugo per mostrargli alcuni lavori e presentargli un progetto specifico di mostra.
Occorre dire che dalla nostra prima mostra del 1980 – passando per l’esperienza di Immagini Sonore e per la nostra successiva installazione multimediale Rarità Botaniche all’Orto botanico nel 1981 – l’amicizia tra me e Andrea si era ulteriormente rafforzata, e l’energia e l’ispirazione del nostro lavoro individuale ne aveva vistosamente beneficiato.
Tra il 1980 e il 1982 io e Andrea passiamo gran parte del tempo che ci rimane oltre lo studio (e oltre ai vari lavori occasionali che svolgiamo per guadagnare qualche lira: grafici, fotomodelli, attori e soprattutto conduttori-DJ radiofonici alla sede regionale Rai) viaggiando in Italia e in Europa. Lo stimolo al viaggio ci viene, ancora, dall’Eminenza Bionda della situazione: è Gaetano che ci pungola in continuazione a “muoverci” e ci dà l’esempio viaggiando lui stesso il più possibile, per poi portarci in visione, al suo ritorno, cataloghi di mostre, riviste e foto fatte da lui nelle Capitali dell’arte europea. Se c’è stato un insegnamento, da parte di artisti della generazione precedente come Ugo e Gaetano, è stato quello dello spingerci alla conoscenza diretta e personale degli artisti e delle loro opere, nei luoghi del loro lavoro; l’importanza del guardare negli occhi un artista, un regista, uno scrittore o un musicista – e del dialogo a viva voce.
Io e Andrea visitiamo Venezia in occasione della Biennale arti visive del 1980 e, essendoci creati una rete di amicizie in città e una “base” piuttosto stabile, ci soggiorniamo anche per il Festival del Cinema. In quella edizione della Biennale Bonito Oliva e Harald Szeemann inauguravano ai Magazzini del sale lo spazio Aperto 80, spazio che avrebbe avuto una certa continuità negli anni e in cui veniva presentata per la prima volta la Transavanguardia in un contesto internazionale. Abbiamo così occasione di incontrare e parlare con gran parte dei personaggi dell’arte e della cultura emergenti in quegli anni come Enzo Cucchi, Mimmo Paladino e Francesco Clemente, non ancora famosi ma già sul trampolino di lancio che li avrebbe resi delle star internazionali; incontriamo inoltre Vito Acconci, Marina Abramović, Hermann Nitsch, James Lee Byars e molti altri artisti affermatisi tra gli anni ’60 e ’70 (L’Arte degli anni Settanta era appunto il tema generale della Biennale di quell’anno). Al Festival del cinema incontriamo Truffaut, Herzog, Fassbinder e molti altri registi e attori che amavamo: personaggi dai modi semplici e disponibili al dialogo, e attorno ai quali non c’era il “cordone di sicurezza” che si vede oggi. Nel luglio dell’80 siamo a Bologna per assistere alla settimana di concerti e performances organizzata dalla Galleria d’arte moderna, e vediamo e conosciamo di persona alcuni dei nostri idoli musicali come Lydia Lunch e la Love of Life Orchestra. Tra il 1980 e il 1982 cui rechiamo a Parigi e Berlino, visitando i musei e le gallerie d’arte più vive della scena di quegli anni, e assistendo a concerti di band oggi considerate mitiche. Nell’81 siamo a Genova, in occasione della serie di mostre e spettacoli organizzata da Germano Celant intitolata Il Gergo Inquieto e incentrata sull’arte/musica/cinema newyorkese del momento, che per la prima volta presenta al pubblico italiano una generazione di artisti che includeva tra gli altri Cindy Sherman, Barbara Kruger, Robert Longo e Robert Mapplethorpe, e con particolare attenzione alla scena No-wave di musicisti e filmaker come Beth & Scott B, Eric Mitchell, Amos Poe, Vivienne Dick, Lydia Lunch, e molti altri protagonisti di quell’epoca.
Nel 1982 iniziamo anche il nostro rapporto privilegiato con Roma visitando la mostra Avanguardia-Transavanguardia organizzata da Bonito Oliva e allestita attraverso un originalissimo percorso lungo le mura Aureliane (si sperimentava anche negli allestimenti, al tempo), dove avvengono nuovi incontri con le star dell’arte del periodo; subito dopo ci rechiamo a Venezia per la Biennale arti visive e saliamo fino a Kassel per l’inaugurazione di Documenta 7, continuando la nostra piena immersione nella cultura artistica di quel momento. Viaggiare non era troppo impegnativo dal punto di vista finanziario: un biglietto aereo per il “continente” costava circa 70mila lire, ma spesso abbandoniamo l’isola con un “passaggio ponte” in traghetto. D’estate, non ci disturba accomodarci per dormire letteralmente sul ponte della nave, con o senza sacco a pelo, dopo aver mangiato un panino, accompagnati dal sottofondo rumoristico-industriale prodotto dal motore della nave e dal suono delle onde: quella strana commistione naturale-artificiale che si addice bene alla nostra sensibilità fin dai tempi delle Rarità Botaniche. A quel tempo non c’era nemmeno bisogno di prenotare alberghi nelle varie destinazioni in cui ci rechiamo: anche nei giorni “caldi” delle grandi inaugurazioni delle Biennali e di Documenta arriviamo direttamente in città e troviamo subito qualche alberghetto economico girando per pochi minuti attorno alle stazioni ferroviarie (il via vai di prostitute, in particolare quelle tedesche, per noi era come un’altra forma d’arte). L’arte contemporanea era già un fenomeno di massa, ma non a livelli ipertrofici e paralizzanti di oggi; ovunque si andasse, sia che si tratti di visitare il Beaubourg, i Musei vaticani o la Sagrada Familia, non occorreva prenotarsi con settimane d’anticipo o fare file di ore e ore. Si viaggiava in totale libertà mentale, improvvisando gli itinerari in base al proprio piacere e spesso perdendo il senso del tempo, senza aver l’occhio in continuazione all’orologio o al telefono cellulare. Anzi: quando siamo in viaggio nemmeno perdiamo tempo a telefonare a casa, e scompariamo per settimane senza che nessuno dei nostri familiari o amici si preoccupi più di tanto.
A Kassel nel 1982 vediamo Joseph Beuys in azione mentre allestisce la sua gigantesca installazione 7000 Eichen, parliamo con Burri e Penone, incontriamo di persona una serie di artisti-chiave per gli anni a venire: Keith Haring, Robert Mapplethorpe, Gerhard Richter, Anselm Kiefer, Jenny Holzer, Hans Haacke, Mario Merz, Günther Brus (che in seguito ricontatterò e andrò a trovare nel suo studio di Graz per scrivere la mia tesi di laurea su di lui). Ogni qual volta torniamo a casa dopo questi viaggi, ci chiudiamo nei nostri studi a lavorare alle nostre opere. Sul finire del 1980 avevo preso in affitto da un parente, per poche lire, un vecchio magazzino in disuso nella zona industriale di Cagliari, per farci il mio studio: Andrea lavora invece a casa sua, un villino isolato sulla cima del colle di Tuvixeddu, sfruttando i grandi spazi del suo cortile che si estendevano fin dentro l’antica necropoli punica, facendosi ispirare dai fantasmi. Praticamente ci incontriamo ogni giorno, collaborando e scambiandoci gli spazi lavorativi senza problemi o rivalità. Ciò che vediamo in giro per l’Europa ci stimola e ci sprona, ma non ne siamo condizionati in modo passivo: il nostro lavoro si sviluppa senza scimmiottare nessuno, seguendo la nostra personale visione dell’arte, adattandosi e mutando forma secondo le suggestioni di uno stile di vita fuori da tutte le consuetudini, inclusi i comportamenti “alternativi” e le trasgressioni della generazione del dopo-Punk, la nostra generazione. Diventiamo come due alieni, atterrati su un’isola; e d’altronde non abbiamo mai voluto essere nient’altro che questo. Il modo di vestire, di muoverci, e persino il linguaggio che usiamo per comunicare tra di noi subisce una mutazione. Spesso chi ci frequenta prova difficoltà a intendere persino ciò che ci diciamo, tanto i nostri discorsi sono costruiti su allusioni o riferimenti esoterici a un nostro mondo personale ed esclusivo. Nonostante questo, siamo tutt’altro che isolati: viviamo connessi all’interno di una rete non virtuale, ma fatta di contatti reali, che presto ci permette di entrare in rapporto e collaborare attivamente con alcune tra le realtà più vive della cultura italiana dell’epoca, come il gruppo teatrale Falso Movimento a Napoli o la rivista Frigidaire a Roma. La nostra attività artistica si nutre di molti incontri, da Stockhausen a Sun Ra, da Leo de Berardinis a Costantino Nivola; parliamo con tutti, da tutti assorbiamo stimoli e idee. Quando l’accesso a un evento, a un party o a un’inaugurazione era troppo esclusivo, o vi fosse un biglietto troppo esoso da pagare, non ci mettiamo problemi a scavalcare steccati, cancelli o finestre ed entrare di straforo… non c’erano troppe videocamere di sorveglianza, evidentemente. Nessuno ci chiede credenziali o lasciapassare; siamo accolti dappertutto nel migliore dei modi perché possediamo ciò che gli anni Ottanta chiedono da noi: siamo giovanissimi, belli, alieni, sappiamo tutto di tutti e abbiamo un taglio di capelli assurdamente perfetto. Chiunque abbia vissuto quel periodo lavorando nell’ambiente dell’arte, del teatro, della musica, del fumetto, potrà descrivere la grande energia (e circolazione di denaro) che si percepiva nell’aria, sia a livello italiano che internazionale. Gli “anni di piombo” erano finiti; Roma era ancora un centro importante dell’arte contemporanea in cui transitavano i maggiori artisti e mercanti del pianeta (no, non sto vaneggiando), e anche nel contesto più piccolo e marginale della Cagliari del tempo il nostro lavoro e la nostra vita tende a assumere ritmi frenetici, amfetaminici. Quando le giornate sono troppo brevi per l’eccesso di cose da fare, si rinuncia al sonno, e va bene così. E quando nel 1982 ci fu prospettata l’eventualità di esporre alla Galleria comunale, nonostante la giovane età avevamo già realizzato opere sufficienti come numero e ambizione qualitativa per poter progettare due nostre rispettive mostre personali negli ampi spazi del piano terra del museo. Al momento di presentare il mio progetto di mostra personale a Ugo, mi si poneva un dilemma. Avevo diverse opere a disposizione, ma non mi andava di organizzare una cartella con le foto in bell’ordine, con le didascalie e tutto il resto, per portarla a far vedere a qualcuno. La proverbiale “cartellina”, il book d’artista, questo buffo accessorio, non ha mai fatto parte del mio modo di rapportarmi alla scena dell’arte, nemmeno negli anni successivi. Inoltre, mi rendevo conto che le foto delle mie opere non riuscivano in alcun modo a dare il senso del lavoro e delle tecniche usate, spesso di mia invenzione e lontane dalla tradizione. E le opere erano anche assai differenti tra di loro, prodotte sul filo di un libero percorso mentale e non di applicazione rigorosa su una specifica tecnica, per cui immaginavo una certa difficoltà nel metterle in relazione all’interno di una ricerca “coerente” se non tramite un’adeguata spiegazione del loro senso di origine, esclusivamente concettuale. Come artista, vivevo con una certa partecipazione quel momento dei primi anni ’80 in cui esplode un forte interesse per l’immagine figurativa, il ritorno alla manualità e alla pittura di matrice neoespressionista, il citazionismo visivo del Postmoderno; la mia provenienza era comunque l’arte concettuale, l’operazione mentale legata alla performance, all’uso del corpo e della fotografia. Decido quindi di tralasciare del tutto la presentazione di immagini di opere e concentrarmi sul senso concettuale e “linguistico” del mio progetto di mostra. Scrivo un testo che traccia un percorso analitico di una quindicina di opere scelte tra la produzione degli ultimi due anni, cercando di spiegarne i concetti-base ma senza allegare alcuna immagine di riferimento: un progetto di mostra scevro da riproduzioni di opere, strutturato come puro sentiero attraverso un labirinto mentale.
Il rifiuto di concentrarsi su un’unica tecnica, su un sistema di segni riconoscibile, per usufruire invece delle possibilità presenti nei vari linguaggi artistici, mi appariva la soluzione più consona all’infinita ricchezza delle esperienze del mondo, reale o mentale che fosse, che a 19 anni mi si apriva davanti. Ancora oggi a essere importante non è la parlata che si usa, non è l’identità linguistica, ma la capacità di arricchimento o mutazione imprevedibile del discorso sotto le diverse prospettive o commistioni di linguaggi differenti (l’idea di “identità” veniva proprio fatta a pezzi, nel mio scritto). Era questo il mistero da indagare in quel momento: la lingua è importante solo se apportatrice di Mistero, o di caos, e non di “spiegazioni”. E un vero poliglotta può anche inventare nuove lingue dal nulla.
Partivo da queste e da altre riflessioni per fare poi riferimento a una serie di mie opere lungo un testo di sette o otto pagine; lo feci dattiloscrivere a mia sorella e mi recai in Galleria per consegnarlo a Ugo. Sul posto, mi accolse il custode del museo che ritirò lo scritto assicurandomi che lo avrebbe consegnato al direttore, e suggerendo di tornare qualche giorno più tardi per avere una risposta, il responso positivo o negativo sul mio progetto di mostra.
Alcuni giorni dopo tornai in Galleria per incontrare Ugo. Mi accoglie il custode, che mi dice di salire al primo piano perché il direttore mi attendeva nel suo studio. Ricordo benissimo quei momenti, e i pensieri che avevo in testa mentre salivo le scale del museo osservando scorrere al mio fianco le opere di Paolini, di Castellani, di Rotella, di Griffa, di Pomodoro, di Staccioli: “che perdita di tempo”, pensavo, “è molto improbabile che mi si conceda questo spazio per fare una mostra personale a soli 19 anni e senza aver nemmeno presentato la foto di un quadro”. Ritenevo difficile credere che il mio scritto potesse essere in qualche modo intellegibile, soprattutto agli occhi di una persona di un’altra generazione. Temevo inoltre che l’episodio della sculturina-autofellatio e della presa per i fondelli di un paio d’anni prima avesse in qualche modo compromesso l’immagine di artista “serio” che avrei dovuto avere agli occhi di un direttore di museo. In quel momento Ugo non era ancora un “amico”, e le occasioni di incontrarlo e di parlarci fino ad allora erano state pochissime.
Nello slow-motion dei ricordi mi appare il momento in cui, attraversando il primo piano della Galleria, passo di fronte allo Spazio Elastico, l’installazione ambientale di Gianni Colombo costituita da una stanza dipinta di nero al cui interno una griglia di corde elastiche luminose si deforma, si allunga e si restringe grazie all’azione di motorini nascosti, deformando la prospettiva di chi vi stia in mezzo; davanti all’ingresso dell’installazione mi viene l’idea di deviare dal mio percorso e rinunciare all’incontro con Ugo, per perdermi nei meandri mentali di tale alterazione di coordinate spaziali. Più avanti ancora, ecco l’Ambientecronostatico degli artisti Boriani e De Vecchi, una camera oscura di forma cilindrica in cui una lampada pendente dal soffitto fino al centro dell’ambiente emette un flash di luce in modo da fissare per qualche tempo le ombre degli spettatori sulle pareti rivestite di carta speciale: mi viene in mente di entrarvi, di accendere la lampada e di scattare un selfie alla mia ombra, bloccando per pochi attimi il momento del mio fallimento.
(Installazioni come quelle sarebbero degne della considerazione che oggi si concede ad artisti come Eliasson, eppure sono state smantellate e distrutte per sempre.)
Oltre la fila di sale del museo, al termine del corridoio del primo piano, si apriva lo studio del direttore; mi avvicino alla porta semiaperta, busso, chiedo permesso e faccio capolino dentro la stanza. All’interno noto Ugo seduto in controluce di fonte alla finestra da cui si intravedono gli alberi del parco e una porzione di cielo piuttosto nuvoloso; in mano ha il mio testo e sta finendo di leggerne le ultime righe proprio in qual momento. Appena mi vede, balza dalla sedia e mi accoglie a braccia aperte: “carissimo! Complimenti, ho appena letto il tuo scritto ed è interessantissimo, non vedo l’ora di fare la tua mostra!”
Se qualcuno poteva capire il senso di quel testo, era Ugo. È abissale la differenza, sotto molti punti di vista, con certi altri dirigenti di museo incontrati negli anni a venire. Fu Ugo, inoltre, a volere che il mio testo fosse stampato e presentato in mostra come introduzione al mio lavoro – cosa che feci con l’aiuto di Salvatore Naitza, docente di Storia dell’arte contemporanea all’università, che volle leggere lo scritto in anteprima e discuterlo con me nel suo studio alla Cittadella dei musei, e che mi offrì l’uso gratuito del ciclostile della Facoltà per riprodurre lo scritto nel numero di copie necessarie.
Fu così che io e Ugo decidemmo di calendarizzare la mostra per l’inizio di novembre ’82. Mi sembra fosse la terza o la quarta della serie di personali che Ugo volle dedicare ad artisti contemporanei viventi – ma non giovani quanto me, che divenni da allora l’artista più giovane a cui una struttura museale italiana abbia mai dedicato una retrospettiva (titolo che probabilmente detengo tutt’oggi). I soldi per organizzare le varie mostre erano veramente pochi, ma agli artisti veniva garantito l’indispensabile, come ad esempio la stampa e la spedizione di cartoncini d’invito “ad hoc”, che ogni artista poteva personalizzare come meglio credesse. Io ritenevo che niente meglio dell’invito stesso si potesse prestare alla realizzazione di un’opera d’arte concettuale. A questo proposito pensai di realizzare il mio cartoncino d’invito come un’opera a doppia faccia (una tipologia di quadri che avevo in mente da tempo e che iniziai a produrre l’anno successivo). Su una faccia dell’invito, il lato principale con l’intestazione del museo, le date, ecc., sarebbe apparso un mio ritratto fotografico vintage, stile bianco/nero anni ’50, in giacca e cravatta e nella classica posa da foto-ricordo (l’ispirazione veniva da alcune copertine di dischi tipo l’edizione tedesca di Trans-Europe Express, l’album dei Kraftwerk del 1977, ma anche da certe foto pubblicitarie di band New-wave di gusto retrò o citazionista tipo quelle dei Soft Cell, Specials, Blue Rondo à la Turk, ecc. – oltre a Bowie, ovviamente). L’altro lato del cartoncino d’invito avrebbe dovuto presentare un’altra mia foto-ritratto, identica alla precedente come posa e espressione ma con me nudo e la mia faccia striata da rivoli di sperma. Entrambe gli scatti vennero realizzati nell’autunno dell‘82 nello studio fotografico di un amico, ma al momento della stampa del cartoncino d’invito sorsero dei problemi sulla divulgazione così ampia di un’immagine dai contenuti esplicitamente sessuali. Non fu Ugo a porre tali problemi; forse alla fine pensai io stesso di rinunciare all’idea di un invito di quel tipo anche per sopraggiunti scrupoli di carattere familiare, non ritenendo corretto imporre ad altri membri della mia famiglia la scelta di inviare a mezza città una fotografia che poteva essere soggetta a reazioni controverse e interpretazioni ingiuriose.
L’opera fotografica con lo sperma in faccia, intitolata Disegno, fu di fatto esposta in mostra, ma l’invito presentava solo l’immagine col look “giacca e cravatta”. Per aggiungere un tocco di ironia alla mia rinuncia, insistetti per far plastificare la foto sul cartoncino dell’invito in modo che ogni singola copia avesse una tonalità di diverso colore, e in questa versione arcobaleno l’invito fu inviato al pubblico dell’arte cittadino e nazionale. Pochi mesi fa uno dei miei inviti plastificati è stato riesumato, senza chiedermi il parere, per essere inserito in una mostra di carattere storico in un museo – ma privo della vicinanza e del confronto con il corrispettivo ritratto fotografico più “esplicito” il senso originario dell’operazione si perdeva del tutto.
Lavorare sulle strutture linguistiche della mostra, sul nucleo concettuale dell’idea di museo-galleria, e utilizzare tutto questo in modo creativo, più che semplicemente esporre una serie di opere, era ciò che mi interessava maggiormente nel 1982. In mostra erano presenti circa una quindicina di lavori di vario tipo, dalle opere fotografiche ai Ritagli-Ritratti realizzati ritagliando su carta velina precedentemente piegata i profili delle persone che incontravo nel mio “viaggio” attraverso l’arte (inclusi l’Ugo e l’Eminenza Bionda). Erano presenti anche alcuni disegni, opere pittoriche e un visore per diapositive che faceva scorrere a rotazione su schermo le immagini delle Rarità Botaniche realizzate con Andrea. Ma il mio intento era trasformare l’intero evento espositivo in una sorta di performance, creare un cortocircuito tra il concetto-base dello spazio espositivo e le contraddizioni e i filtri culturali di un contesto sociale in cui un’opera viene percepita e valutata.
Avendo notato che nelle vicinanze della Galleria comunale era situata una clinica ortopedica (oggi trasferita), e passandoci di fronte tutti i giorni durante l’allestimento della mostra, mi venne l’idea di avvicinare qualche paziente che transitava i quei paraggi per invitarlo a vedere la mia esposizione. Ebbi cura di scegliere i pazienti che presentassero seri problemi deambulatori o handicap fisici, e che necessitassero l’uso di attrezzature come sedie a rotelle, stampelle, collari anatomici, ingessature agli arti. Una volta preso appuntamento in Galleria con i pazienti della clinica, mi misi d’accordo con un fotografo per scattare alcune foto a questo particolare tipo di pubblico. Coinvolsi anche alcuni personaggi del mondo dell’arte cittadino, facendo indossare loro protesi anatomiche e fotografandoli in mostra tra i veri pazienti (in particolare davanti al quadro Marmo Malato, 3,15 metri di pittura serigrafata su fòrmica) come fossero anch’essi reduci da qualche infortunio o vittime di un handicap fisico. L’intera serie fotografica che ne trassi consta di 10 immagini ed è intitolata” Il Sistema dell’Arte”. E allora, tornando a Ugo… c’è ancora un ultimo ricordo da sciorinare. All’inaugurazione della mostra si recò anche mio padre, persona molto lontana per gusto e interessi dalle tematiche dell’arte contemporanea – al punto da non capire nemmeno l’opera di un Picasso, per intenderci. Ciò che andavo facendo in quegli anni, e in generale il mio stile di vita, gli appariva come qualcosa di talmente alieno e incomprensibile da bloccargli persino la facoltà di giudizio. Non ho mai subìto alcun tipo di critica o di ostruzionismo da mio padre riguardo al mio lavoro, ma è evidente che alcuni esiti “estremi” che tendevano a coinvolgere la mia persona fisica potessero causargli una forma di apprensione e forte perplessità; per questo, evitavo il più possibile di metterlo al corrente di certe “operazioni artistiche” che andavo facendo (le quali erano però ben documentate in mostra). Nonostante Ugo fosse di qualche anno più giovane di mio padre, e avessero preso strade diverse nella vita, facevano parte della stessa generazione e si conoscevano di vista fin da ragazzi. Nel corso dell’inaugurazione notai Ugo prendere in disparte mio padre e dirgli che la mia mostra era la cosa di gran lunga migliore che fosse stata organizzata in quello spazio. Vidi il volto di mio padre illuminarsi, poiché conosceva la reputazione di Ugo come rispettata figura culturale, oltre che gran galantuomo – e un galantuomo, agli occhi di mio padre, non poteva sbagliare. Da quel momento in poi, almeno per i dieci anni che gli restavano da vivere, l’atteggiamento di mio padre nei confronti del mio lavoro è stato molto più rilassato e sereno. Pur continuando a non capire.
La mostra, organizzata con un budget ristrettissimo e quasi per niente pubblicizzata, andò abbastanza bene ma non ricordo se qualcuno si disturbò al punto di scriverne la recensione. Non ho conservato alcun articolo, in ogni caso. Immediatamente dopo il ritorno delle opere in studio, ero già in viaggio – molto lontano dalla Sardegna, sempre di più.
CAPITOLO IV
OR :
A un certo punto l'idillio però si rompe. Non conosciamo bene le reali ragioni, ma sappiamo che a Ugo viene tolta la carica di direttore presso la Galleria Comunale di Cagliari. Saremmo curiosi di sapere da voi cosa successe, quali furono le conseguenze, come in sostanza mutò la vita artistica cittadina e la vostra senza più Ugo.
ENRICO CORTE :
L’attività di Ugo come direttore della Galleria comunale durò fino al 1985, dopodiché in Comune si decise di assegnargli mansioni del tutto differenti dall’arte, da svolgere in altri uffici, per quei due anni scarsi che gli rimanevano prima del pensionamento. Le motivazioni, del trasferimento prematuro furono, come spesso avviene in questi casi, probabilmente di natura politica; c’è da dire comunque che da tempo i finanziamenti pubblici alla Galleria si erano drasticamente ridotti e quindi si viveva un forte stallo già da prima. Questo non impedì a Ugo, finché stette in Galleria, di continuare per un certo tempo a organizzare la sua serie di personali di artisti contemporanei. Il guaio fu che dopo il trasferimento di Ugo la collezione contemporanea da lui ideata e realizzata fu smantellata e immagazzinata per troppo tempo in spazi inadeguati, per lasciar spazio a una raccolta d’arte del primo ‘900 donata al Comune di Cagliari da un’erede del collezionista laziale Francesco Paolo Ingrao. Ciò ha comportato il danneggiamento e la perdita irrecuperabile di alcune opere di valore della “collezione Ugo”.
Dopo la mia personale in Galleria, io trascorsi una parte del 1983 a Londra, tornando di tanto in tanto in Italia e continuando a seguire le mostre organizzate da Ugo nello spazio da lui diretto. Tra queste, mi piace ricordarne un paio, che ritengo indicative dello spirito con cui Ugo sceglieva gli artisti e organizzava le loro personali.
La prima è la mostra di Paolo Calia, fotografo di moda, arredatore, scenografo, pittore e scultore con esperienze di lavoro e di amicizia con Fellini (vi collaborò per il Casanova, ma i due rimasero amici per anni). Paolo si trasferì da ragazzo dalla natia Sardegna a Roma e in seguito a Parigi; in questa città trova la sua dimensione ideale all’interno dell’esperienza Les Frigos: un’enorme edificio industriale nel 13° arrondissement, splendidamente trasformato in case-studio per artisti in cui si installa e costruisce una sorta di fantasmagorica “Reggia camp”. Invitato da Ugo nel 1983 ad allestire una personale in Galleria, Paolo torna dopo tanti anni in Sardegna e si porta dietro una schiera di personaggi del mondo della moda parigina, stupende modelle e prestanti modelli trasferiti dalle passerelle chic alle sale del Museo, con costumi-sculture coloratissimi, realizzati da Paolo con materiali stravaganti o “di scarto”: materie plastiche mescolate a tulle e lustrini; pizzi, merletti e passamanerie cuciti assieme a oggetti di banale uso quotidiano, e via dicendo. Alle pareti, una serie di pitture figurative di gusto camp e fumettistico ma pervase di citazioni “colte” si alternavano a fotografie rappresentanti modelli dalla sessualità fluttuante traboccanti di paillettes in pose provocanti e piene d’ironia. Una mostra-performance che trasformò per una sera le sale della Galleria in un angolo della Parigi a confine tra arte, moda, cinema e puro sberleffo provocatorio. Paolo “dirigeva” i suoi modelli come fosse il Fellini della situazione, facendoli andare su e giù, facendo loro accennare passi di danza, incitandoli a strusciarsi contro il pubblico, ecc. Ricordo lo sguardo disgustato della guardia giurata che presidiava la Galleria, non avvezza all’esibizionismo sfacciato di Paolo; ricordo l’intervista offensiva e omofobica che gli venne fatta nei giorni successivi da un giornalista in un’emittente televisiva locale, e della quale venne a lamentarsi con noi… E ricordo la perplessità di Ugo di fronte a tanta ostilità preconcetta nei confronti di Paolo e della sua arte: “qui lo guardano male perché dicono che sia omosessuale”, mi diceva Ugo, “ma che importanza può avere! Io poi non so nemmeno se lo sia, omosessuale! Come fanno a dirlo??”
Era questa la grandezza di Ugo: qualsiasi pregiudizio gli era così distante da non capire nemmeno da cosa potesse nascere.
La seconda mostra che voglio ricordare è quella di Ornella Etzi, una delle poche donne incluse nel calendario delle mostre di quegli anni – non certo per colpa di Ugo, ma per via di una situazione culturale ancora troppo improntata su un maschilismo dominante che schiacciava a priori la creatività femminile. Ornella faceva parte di un gruppo di giovani creativi riuniti sotto il moniker Star System: non artisti provenienti da studi accademici, ma poeti e scrittori di formazione Rock (modello Patti Smith, per intenderci), musicisti New-wave, videomaker, fotografi, DJ. Il gruppo, già presente con un loro intervento all’interno della mostra Immagini Sonore, era costituito da un mutevole via vai di ragazzi e ragazze di belle speranze, ma aveva un nucleo portante fisso di cui facevano parte Ornella, Roberto Podda, e Roberto Coroneo (che in seguito fece una brillante carriera universitaria diventando uno studioso di arte medioevale di rilievo e preside della Facoltà di lettere e filosofia di Cagliari). Tutti loro, più anziani di qualche anno di me e di Andrea, erano nostri amici di vecchia data: li incontrammo alla fine degli anni ‘70 nella sede di Radio Alter, la radio del Movimento del ’77 cagliaritano, dove conducemmo molte trasmissioni su arte e musica, e in seguito nella sede regionale della Rai, in cui tutti noi trasferimmo la nostra esperienza di conduttori e DJ in un contesto più professionale.
Lo Star System fu un fenomeno effimero e realizzò pochissimi eventi (ricordati oggi da pochissime persone), ma questi risultarono essere tra i più divertenti e provocatori visti in città in quei primi anni Ottanta. Una volta organizzarono una performance in via Millelire, in pieno centro cittadino, che voleva creare una certa scossa nel contesto sonnacchioso di Cagliari; furono spediti in giro alcuni inviti a un “evento” abbastanza poco chiaro, e poi si diffuse la notizia col passaparola. In via Millelire vi era l’appartamento di Roberto Coroneo, all’ultimo piano di uno stabile degli anni ’30; si tratta ancora oggi di una strada un po’ appartata, stretta e lunga, che collega due grosse arterie piene di traffico e negozi, e quindi era la locazione ideale per preparare “in sordina” un evento che comunque attirasse un gran numero di persone. Una sera verso le 19 si sentì un’assordante sirena echeggiare per tutto il quartiere, proveniente da via Millelire: la gente accorreva sul posto e trovava un fortissimo fascio di luce proiettato dall’attico di Coroneo verso il marciapiede antistante l’edificio. Nel punto illuminato dal fascio di luce si trovava Ornella, come fosse morta: vestita con un abito nero da Dark lady anni ’40 perfetto in ogni minimo dettaglio e sdraiata a terra con la faccia contro il marciapiede, stava immobile circondata da un segno in gesso come si usa sulla scena di un crimine. Dopo qualche minuto di questa statica rappresentazione, mentre la sirena continuava a frastornare l’intero quartiere, si vide arrivare una pattuglia della Polizia che caricò Ornella e tutto lo Star System per portarli in Questura (non ho mai capito se questo intervento fosse previsto nella performance o meno). Qualche giorno più tardi, lo Star System organizzò nell’appartamento di Roberto una sorta di evento post-performance: le persone invitate si trovavano semplicemente a vagare tra le stanze buie e semivuote dell’appartamento, mentre una serie di enigmatici ragazzi e ragazze con cineprese a mano riprendevano silenziosamente il pubblico, senza peraltro chieder loro il permesso.
Star System ebbe la capacità di attrarre un folto pubblico di giovanissimi – più legati al mondo della musica New-wave, del cinema noir, delle fanzine e del fumetto d’autore, che alle gallerie d’arte – e ciò fece sì che alla personale-performance di Ornella alla Galleria comunale nel 1983 si presentò la folla delle discoteche del sabato sera: troppa gente per poter addirittura essere contenuta negli ampi spazi del Museo. Ricordo poco di quella mostra, sia perché si trattava di un evento tra teatro e Performance art di una sola serata (nei restanti giorni erano presenti solo materiali video o fotografie), sia per via della calca che ostruiva letteralmente la scena. Oltretutto venivano proiettati verso il pubblico dei fasci di luce accecanti che disturbavano la percezione dell’azione (be’, quest’idea però la copiarono dai Throbbing Gristle). Rammento solo sprazzi di immagini intraviste tra l’ondeggiare invadente di un pubblico che i restanti membri dello Star System dovevano tenere a bada o respingere con forza addirittura usando gigantesche grate di legno, con Ornella ferita morte da una pistolettata o roba simile che si trascina agonizzante lungo i muri della Galleria in abito anni ’40, sotto flash stroboscopici e mentre impazza una base di musica elettronica.
Ancora una volta, queste presenze in Galleria attestano la grandezza di Ugo: il suo non limitarsi a prediligere artisti “professionisti”, diplomati, con curriculum accademici e tutte le altre carte in regola. Paolo Calia e Star System rappresentavano altri aspetti della creatività, esterni alla pittura e scultura classicamente intese ma con forti legami con la comunicazione contemporanea, con i nuovi media, con quel tipo di sensibilità tra Pop elettronico, Nuova spettacolarità, video e moda che diverrà caratteristica di quello stralcio di anni Ottanta anche a livello internazionale. Per un uomo della generazione di Ugo, proveniente da una differente formazione culturale e ideologica, non è merito da poco aver percepito e accettato da subito questo cambiamento.
Poi avvenne il trasferimento di Ugo, il suo abbandono della Galleria, a malincuore. Io e Andrea continuammo a incontrarlo ogni tanto. Ci si vedeva alle mostre o in occasione di altri eventi culturali, e allora, in quegli spazi dell’arte che non erano più “il suo”, ritrovavo comunque l’Ugo di sempre, ancora pronto a intendere l’arte come qualcosa da toccare, da palpeggiare, da annusare, da far risuonare, e non solo da osservare a distanza con un senso di sacralità come davanti a un Caravaggio (peraltro, io una volta ho effettivamente toccato la superficie pittorica del Bacco di Caravaggio!). Mi ricordo di quando Ugo si fermava davanti a un quadro – un quadro qualsiasi in una della tante mostre cittadine in altri spazi espositivi – e ne sfiorava delicatamente col dorso della mano la superficie dipinta, per ritrovare il rapporto tattile ma prudente che aveva con le opere della Collezione, col Fleximofono di Fogliati, con la Superficie di Castellani o con il Portagiri di Agnetti, di cui ha già parlato Andrea. E ricordo che in quei casi, quando Ugo “allungava le mani”, interveniva un sorvegliante a redarguirlo per la sua inosservanza delle regole, per aver toccato un’opera… allora Ugo con uno sbuffo e un gesto d’insofferenza si girava di nuovo verso il quadro e continuava imperterrito a toccarlo, provocando il totale sbigottimento del sorvegliante che correva a chiamare qualcuno di più autorevole per fermare il trasgressore…
A volte Ugo veniva a trovarmi nel mio nuovo studio in cui mi ero trasferito a partire dall’estate del 1983, un appartamento al piano terra in via Donizetti a Cagliari. Quello studio, dove a volte si trasferiva anche Andrea per lavorare, nel corso del tempo divenne un po’ il punto di ritrovo di artisti, musicisti e operatori della cultura della Cagliari di quegli anni, e Ugo partecipava a questi incontri. Certo si sentiva la mancanza di quelle occasioni “istituzionali” che Ugo creava con le sue iniziative in Galleria; ad ogni modo, dalla seconda metà degli anni ’80 io e Andrea stavamo il più possibile lontani dalla Sardegna, frequentando soprattutto Roma, per cui la nostra attenzione era ormai rivolta altrove. A Napoli e Roma iniziamo a fare le nostre collettive e personali tra il 1986 e il 1989; nella Capitale soggiorniamo sempre più spesso e a lungo, troviamo il sostegno di vari collezionisti ed entriamo in confidenza con una serie di artisti da noi stimati. E’ ovvio che, soprattutto dopo la mia laurea, restare a Cagliari mi apparisse come una perdita di tempo. Il rapporto con la nostra città divenne schizofrenico, portandoci a eccessi come il chiuderci nello studio di via Donizetti per un mese filato, letteralmente senza mai uscire (a parte il prender aria nel cortile-giardinetto sul retro, di mia proprietà) e concentrandoci su noi stessi e il nostro lavoro in modo sempre più ossessivo, con una gentile amica che ci lasciava fuori dalla porta d’ingresso un cestino col pranzo e la cena cucinati da lei, e una borsa con una serie di dischi da lei comprati su nostra indicazione (la musica: il nostro vero carburante vitale).
Col finire del decennio, che aveva visto anche chiudere quel paio di gallerie private operanti con continuità negli anni Settanta-Ottanta, Cagliari entrò in uno stato di totale stagnazione: lo slancio che il “meccanismo” culturale di Ugo aveva innestato nell’ambiente artistico cittadino si inceppò irrimediabilmente senza la sua presenza alla direzione della Galleria. Inoltre, gli artisti della generazione precedente invecchiavano, immalinconiti dalle frustrazioni, e i “nuovi” non apparivano animati dallo stesso afflato, dalla stessa voglia di cambiare la Società e la cultura che ci si aspetterebbe da dei giovani. Anche i pochi collezionisti presenti in città, mancando galleristi di riferimento, smisero di comprare arte. Io e Andrea in quel contesto fummo sempre visti come gli alieni di sempre, creando brevi alleanze con altri artisti o giovani critici, ma senza notare in loro una reale convinzione nei nostri confronti. Riguardo ai critici sardi, ci sembrava di incontrare soprattutto personaggi privi di passione e interessati a usare gli artisti per la loro carriera, indirizzata verso l’ambito universitario o istituzionale: territori da cui noi ci tenevamo alla larga. Per crearsi un curriculum erano obbligati a coinvolgere gli artisti contemporanei nelle loro iniziative curatoriali, ma la loro adulazione e i complimenti si trasformavano presto in spregio e noncuranza quando gli artisti non servivano più. A parte questo loro fastidioso opportunismo, non poteva che creare infiniti malintesi l’insistenza di certi critici nel volerci inserire a forza nel contesto “identitario” della giovane arte sarda: una chiave di lettura assai utile a loro per aprire le porte delle Istituzioni, ma che noi vivevamo come una forzatura, un limite. Per noi non era possibile costruire nulla su queste basi.
Io vendetti il mio studio nel 1990 e usai il ricavato per comprare un rudere semidiroccato a Roma, che nel corso del ’91 restaurai io stesso con l’aiuto di Andrea. Nel ’92 mi trasferii definitivamente a Roma con Andrea, in quel rudere che trasformammo in una splendida e direi stravagante villetta rustica con giardino, grande abbastanza per viverci e lavorarci. Ugo fu l’unica persona del mondo dell’arte cagliaritano che andai a salutare a casa sua prima del mio ultimissimo trasloco, reduce tra l’altro dal recente funerale di mio padre; una tristissima sera di novembre in cui la città mi sembrava veramente sgretolata in un pozzo di noia e di squallore. Fu un incontro pieno di rimpianti per tutti i progetti che avrebbero potuto nascere, ma che non videro mai la luce. Un Ugo pensionato… strano a pensarci.
Fu solo dopo qualche tempo che mi resi conto di una curiosa coincidenza astrale: la data della sera di novembre del mio addio a Ugo coincideva con l’inaugurazione della mia personale alla Galleria comunale, dieci anni prima. Decisamente un ciclo si era concluso, ma bisogna ammettere che terminò con un tempismo piuttosto bizzarro: una di quelle paradossali coincidenze che spesso si trovano nelle storie newyorkesi di Paul Auster, e che solo anni dopo, vivendo a New York e incrociando parecchie coincidenze di quel tipo, ho capito essere molto meno improbabili di ciò che si potrebbe pensare.
Passarono sette anni prima che mettessi ancora piede in Sardegna – e per un giorno solo: ripartii in serata e tornai la seconda volta solo dopo ulteriori due anni di assenza totale.
Niente Sehnsucht nel mio caso, poco ma sicuro.
ANDREA NURCIS :
Non vi fu mai nessun vero idillio tra il progetto di Ugo e la massa dei cittadini con i loro amministratori pubblici. Nonostante che quegli anni rappresentassero un momento culturale vivace, con forti segnali di cambiamento dei quali arrivava qualche sentore anche nell’isola, Cagliari continuava ad essere come quello stomaco che nella fase di digestione ci fa cadere in un profondo e passivo torpore, riprendendo una metafora letteraria che uno scrittore del passato del quale non ricordo più il nome, usò per descrivere la sensazione che ebbe entrando in città. Se la collezione di Ugo da subito ottenne una risonanza nazionale con articoli come quello sul Corriere della Sera – in cui il giornalista si chiedeva perché a Milano non si riuscisse a creare una collezione pubblica di tale livello – a Cagliari l’accoglienza non fu tanto calorosa: una società ossessionata dal problema identitario e dalla continua ricerca delle proprie radici, probabilmente in quello specifico progetto di collezione – dalla vocazione totalmente internazionale – non riusciva a identificarsi come avrebbe voluto, percependola quindi come un elemento di “colonizzazione”, estraneo alla cultura locale.
Ugo era sempre pieno di idee e progetti e ogni volta che lo si andava a trovare nell’ufficio della Galleria non perdeva occasione di parlarne, anche se credo che lui stesso avesse la consapevolezza che l’amministrazione pubblica non gli avrebbe mai concesso la possibilità di realizzarli. Ad esempio, fu sua l’idea di recuperare le grotte sul costone dei giardini pubblici antistanti la Galleria per ampliare gli spazi espositivi: aveva addirittura chiamato di sua iniziativa degli ingegneri per capire come eliminare i problemi dell’umidità e dell’areazione. Ugo era interessato ad avere spazi specifici da dedicare alla sperimentazione e alle esperienze artistiche che necessitassero di luoghi meno formali delle asettiche sale del Museo. Per dire come le sue idee fossero così avanti, solo dopo più di 20 anni il comune di Cagliari ha capito l’importanza di recuperare quelle grotte per destinarle a scopi simili a quelli pensati da Ugo.
Un’altra delle sue idee era quella di coinvolgere nella mostra l’intero giardino, collocandovi sculture e interventi artistici. Essendo un artista, Ugo aveva una progettualità dal carattere creativo e visionario che, negli anni successivi, si sarebbe sviluppata nella direzione adottata oggi da molti musei internazionali: dei laboratori per l’arte in cui gli artisti non avrebbero avuto solo la possibilità di esporre ma anche di creare progetti specifici.
Ecco allora per fare un altro esempio che affiora alla mia memoria, l’intenzione di chiedere allo scultore Mauro Staccioli, già presente nella collezione, di collocare un suo Cuneo di acciaio sulla parete di roccia sovrastante a strapiombo i giardini e la Galleria. Sarebbe stato un segno di fortissimo impatto a livello urbanistico ed estetico, e avrebbe rappresentato una delle prime occasioni pubbliche offerte a uno scultore, Staccioli, oggi considerato internazionalmente come uno dei più grandi artisti per quanto riguarda il discorso tra scultura e interazione con l’ambiente e paesaggio.
Per Ugo non è possibile chiudere l’arte in nessun tipo di gabbia e il suo atteggiamento di curiosità e rispetto nei confronti di ogni fenomeno estetico ed espressivo gli permetteva di cogliere sempre “l’ossatura” formale, l’essenza delle motivazioni e il valore storico dei fenomeni artistici davanti a cui si trovava.
Così era perfettamente consapevole di come la sua collezione, se non aggiornata, rischiasse di entrare in una fase di decadenza diventando una mera archiviazione storica; cosa che avrebbe accettato mal volentieri convinto appunto che l’importanza del museo è innanzitutto quello di rapportarsi alla realtà, ai suoi flussi e anche alle sue contraddizioni. E il fatto che il Comune gli negasse le risorse economiche per attuare questa possibilità, credo che gli abbia sempre creato una certa sofferenza.
Aprire la galleria almeno a ciò che di nuovo stava accadendo nella realtà artistica locale era probabilmente la modalità in quel momento più fattibile e praticamente a costo zero di cui Ugo disponeva per continuare a rendere vivi gli spazi del Museo.
La galleria era inoltre un punto di riferimento sempre aperto e disponibile per personalità del mondo dell’arte di passaggio a Cagliari. A volte Ugo telefonava a casa e familiarmente scambiava qualche gentile parola con mio padre o mia madre prima di chiedere di me: “Andrea domani pomeriggio viene Mimmo Rotella a trovarmi in galleria, se passi te lo faccio conoscere!” Rotella mi apparve piuttosto spaesato, con una voce metallica e un aspetto un po’ sconvolto come di una persona stanca appena scesa dall’aereo dopo un volo non particolarmente tranquillo. Indossava un lungo cappotto che gli arrivava sino ai piedi la cui parte inferiore presentava un ampio strappo sfilacciato. Tra noi dopo ci chiedemmo cosa potesse aver causato quello strappo talmente lacero da far apparire quel cappotto come un vero e proprio cencio raccattato per la strada. Rotella sembrava reduce da qualche pericolosa avventura… lo immaginavo improvvisamente fuggito da qualche brutta situazione…
Un’altra volta Ugo mi chiamò per dirmi: “Andrea, portami un po’ di immagini del tuo lavoro; devo incontrarmi in Galleria con Gillo Dorfles e voglio fargli conoscere sia il tuo lavoro che quello di Enrico… avvisalo tu per favore!”
Ecco, l’amicizia con Ugo con la sua generosità e il suo lavoro di direttore e artista furono per me motivi importanti di crescita, penso di averlo già espresso in altre risposte ma mi piace sempre ribadirlo. Un’amicizia che rimaneva sempre viva e forte nonostante avessi iniziato con Enrico a viaggiare e in qualche modo ad allontanarmi sempre di più da Cagliari.
Lo smantellamento della Collezione Ugo in fondo coincise con l’iniziale decadenza e degrado politico e culturale in cui il nostro paese è entrato da almeno una ventina d’anni e ancora non sembra capace di uscirne. Il fatto che la collezione fu fatta “sparire” in malo modo per essere sostituita in blocco da una “quadreria” di opere del ‘900 – non poche delle quali di ispirazione fascista – invece che essere aggiornata nel tempo con un minimo di lavoro e di selezione critica e filologica, per me ebbe quasi il valore simbolico di un Paese in cui una certa volgarizzazione televisiva della cultura avrebbe preso il sopravvento.
CAPITOLO V
OR :
Dopo tutte queste domande su Ugo e le vostre risposte, ci siamo fatti un'idea non solo di Ugo ma anche di voi. Davanti ai vostri racconti sembra emergere il classico caso dell'enfant prodige, quello appunto di artisti capaci da subito di maneggiare e produrre concetti e forme di alto spessore artistico-culturale. Dalle vostre risposte emerge una solida preparazione e una capacità di analisi degli avvenimenti storici che diventano un importante filtro tra tre generazioni artistiche: quella di Ugo Ugo e Tonino Casula, la vostra (Enrico-Andrea), e la nostra (Enrico-Alessandro). Ma se in gioventù sembra che aveste trovato un ambiente consono a un primo processo di sviluppo artistico, grazie ad una cerchia di artisti molto più grandi di voi, successivamente è come se qualcosa fosse cambiato e il vostro viaggio sia continuato in solitudine, senza più quella interazione con un territorio che grazie al contributo di Ugo e di altri era diventato fertile e potenzialmente fruttuoso per il futuro. All'interno di un contesto storico ormai mutato, avete deciso di salutare la Sardegna non più adatta forse ad accogliere e comprendere il vostro percorso artistico. Ci stiamo sbagliando? In conclusione di questo nostro dialogo ci piacerebbe avere da voi qualche notizia in più sul vostro personale rapporto con la Sardegna.
ENRICO CORTE :
Mai trovati ambienti particolarmente consoni nell’Isola, né nella gioventù di allora né in quella di oggi. Ho avuto da subito sufficiente forza di carattere per non farmi imporre troppe restrizioni morali o estetiche, o pregiudizi di varia natura, dal mio ambito sociale e familiare – e questa libertà la si conquista non con la prepotenza ma con l’eleganza dell’intelletto. Ho incontrato artisti della generazione precedente (pochi) che di sicuro mi hanno aiutato con generosità e senza chiedere niente in cambio: costoro mi hanno insegnato parecchie cose, ma tante altre le ho apprese da nomi esterni alla Sardegna. All’inizio degli anni Ottanta un certo numero di collezionisti sardi ha sostenuto il mio lavoro, e con grande entusiasmo: una generazione di professionisti trentenni senza troppe aspirazioni intellettuali ma che forse percepivano nelle mie opere un senso di cambiamento verso una generica “contemporaneità” di cui si sentivano parte. Verso la fine del decennio i trentenni erano ormai oltre la quarantina, i loro figli richiedevano continue attenzioni economiche, le loro case si erano riempite di troppe opere piene di polvere e l’ardore per la contemporaneità si era stemperato. Ho ancora un debito di ringraziamento nei confronti di molti di loro, ma tutte queste figure isolate, per quanto importanti, non penso abbiano mai costituito un “ambiente”.
Peraltro, dando una scorsa con lo sguardo a tutte le cose dette in quest’intervista, mi accorgo – con un certo orrore – di aver fornito un resoconto assai parziale, di aver descritto un contesto culturale e sociale solo dal punto di vista dell’arte ufficiale, ruotante attorno all’istituzione della Galleria comunale e ai suoi frequentatori, o all’ambito degli studi artistici o universitari… ma se parliamo di ambienti, a Cagliari ne esisteva un più “sotterraneo”, assai più fertile e stimolante, ed è questo che andrebbe qui ricordato – perché anche Ugo fu una figura in un certo modo di confine tra la cultura istituzionale e i fermenti “dal basso”. Quell’underground della cultura e dei comportamenti – di certo legato a fattori storici e generazionali che si dissolsero col proseguire degli anni Ottanta, spazzati via dall’impazzare dell’eroina, dall’Aids, dallo yuppismo – è stato il vero campo di battaglia in cui ho formato la mia sensitività fin da giovanissimo, ed è ciò di cui lamento maggiormente la progressiva scomparsa. O meglio, non lamento il fatto che quel contesto sia “trascorso”, ma che non sia stato sostituito, nel decennio successivo, da fermenti altrettanto interessanti, caotici ed estremi… nel bene e nel male.
Penso a quel vecchio appartamento di via Tigellio in cui mi recavo a 13 anni, da studente del liceo artistico, che era una specie di centro sociale ante litteram; era un luogo preso in affitto da ragazzi e ragazze più grandi di me che dall’hinterland sardo venivano a Cagliari per studiare. Vi si svolgevano le riunioni di autocoscienza di un collettivo di femministe – mi sembra si chiamasse “collettivo Vulvanova” – che subito mi accolgono con simpatia perché probabilmente intravedono l’eventualità che da me ne venga fuori un maschio adulto un po’ meno coglione del solito. Alcuni giovani scrittori e fricchettoni assortiti erano tra i frequentatori abituali, ma non tutte le persone di quel giro avevano interessi culturali: molti si recavano nell’appartamento per fare del sesso, o per sperimentare con sostanze psicotrope (ma non sono esperienze culturali anche quelle?). Io mi ci recavo portando alcuni libri sulle Avanguardie storiche per studiarli e discuterne assieme ad altri colleghi di liceo che a loro volta portavano i loro, oppure facevo con loro scambio di dischi e nastri: era già una Taz, come si sarebbero chiamate negli anni ’90 quel genere di situazioni, oppure un social network non virtuale. Ebbene, in quell’appartamento di studenti un bel giorno fece irruzione una squadra antiterrorismo della Polizia, che trovò diverse armi e volantini delle Brigate Rosse nascosti nel bagno – lo stesso bagno in cui tante volte mi ero recato per far pipì. Tutti gli studenti affittuari dell’appartamento furono portati in Questura – che fossero consapevoli o meno di certe infiltrazioni terroristiche – schedati e rinviati a giudizio; alcune delle Vulvanova, provenienti da paesini dell’entroterra, ne ebbero la vita rovinata, con affibbiazione di fogli di via, interruzione di studi, strascichi familiari e gravi problematiche con “padri padroni” che si trascinarono a lungo… e fu per puro caso che io non mi trovassi presente in quella casa il giorno del blitz. (Ragazze, ovunque voi siate adesso vorrei sapeste che… oggi sono meno coglione anche grazie a voi).
E parlando di “ambiente”, c’è un altro vecchio appartamento da inserire tra i luoghi topici dell’epoca, un luogo veramente decadente, coi soffitti di canne intonacate che crollavano e i pavimenti fatti di traballanti e sconnesse piastrelle esagonali, situato al quarto piano di un palazzo sghimbescio e svettante sopra i tetti della città vecchia: si trovava in via Lamarmora e era la sede di radio Alter, un’altra “zona autonoma” che iniziai a frequentare da ragazzino, con Andrea. Basata sui principi del “collettivo proletario” e della responsabilità sociale – per cui il “proprietario” della radio, delle attrezzature e dei dischi, era chiunque in un dato momento conducesse una trasmissione – radio Alter svolse un importante ruolo di controinformazione politica negli anni caldi del Movimento, oltre a fornire inediti spazi di diffusione della cultura e controcultura, delle musiche alternative, ecc. Nel resto d’Italia, radio Alice a Bologna, radio Popolare a Milano, radio Onda Rossa e radio Città Futura a Roma svolgevano lo stesso ruolo.
Io e Andrea iniziammo a collaborare con radio Alter nel 1978 (i più giovani collaboratori in assoluto), inventandoci dal nulla il ruolo di conduttori radiofonici, prediligendo scalette musicali che andavano da Stockhausen a Steve Reich, da Tony Conrad ai Pere Ubu, da Moondog ai Dark Day, passando per le tappe della trilogia berlinese di Bowie (fresche di stampa), Residents, Pop Group, Young Marble Giants, Nico, Neu!, Cluster, B-52’s, Einstein on the Beach, Metal Machine Music e No New York. In radio, iniziamo a invitare alcuni personaggi dell’arte cittadina per discutere in diretta le tendenze contemporanee: così avviene l’incontro con Tonino Casula, pittore e intellettuale di spicco, felice reduce dalla pubblicazione di un paio di libri di teoria della percezione per i tipi di Einaudi (quando non era così facile pubblicare per Einaudi), grande amico e compagno di lotte di Ugo. Ma soprattutto, in radio siamo subito coinvolti e affascinati dalla “varia umanità” che vi circolava: personaggi più adulti di noi, dalle molteplici esperienze di vita e spesso a confine della devianza, che trovavano negli spazi della radio la possibilità di esprimere il loro anelito di cambiamento, di rivoluzione, come fosse un cagliaritano “Macondo” (mi riferisco al locale milanese, non a Garcia Marquez). E’ da subito evidente che Andrea e io facciamo parte di una generazione post-Punk e New-wave che poco ha a che spartire con gli stili di vita e gli obbiettivi di chi è più grande di noi, eppure è stato istruttivo e divertente osservare o anche farsi coinvolgere dagli eccessi di quelli tra loro che ci apparivano meno fricchettoni. Ricordo ad esempio le trasmissioni condotte da un gruppo di ragazzi queer (molto flaming, e anche molto punk, almeno dentro il “porto franco” della radio): le “Troie di Hitler” (nome poi modificato in Figlie di Hitler su suggerimento del collettivo della radio per motivi, um, di “comunicazione col pubblico”). Le Figlie di Hitler mettevano in scena durante i loro programmi ogni sorta di provocazione, molto oltre le soglie del camp, e avevano tra l’altro uno squisito gusto musicale oscillante tra Suicide, Wayne County (non ancora Jayne), New York Dolls, Nina Hagen, Roxy Music e i primi Ultravox: favolose e insostituibili, era uno spasso assistere alla loro totale distruzione della sensibilità borghese, religiosa e patriarcale, ai loro “terremoti gender” piuttosto avanti rispetto ai tempi. Mi chiedo se oggi sarebbe tollerata la messa in onda di trasmissioni simili.
E affiorano anche le memorie del notturno di radio Alter… perché la radio era operativa 24 ore al giorno, e dunque occorreva che qualcuno vi stesse durante la notte e fino all’alba del giorno dopo, conducendo lunghissime trasmissioni in cui aveva piena libertà di parola, di scelte, di comportamento. Le messe in onda notturne erano piuttosto seguite: ricordiamoci che all’epoca vi erano solo due o tre reti televisive (che a mezzanotte interrompevano le trasmissioni), e in città la notte non offriva un gran proliferare di locali in cui recarsi per trovare un minimo di svago. Tutti avevano ancora nella mente immagini come quelle dei carri armati che transitano per il centro di Bologna e altri episodi quotidiani di violenza urbana, persino durante i concerti rock, la cui frequenza in Italia si dirada rapidamente; poi sarebbe arrivato il rapimento Moro: una cappa di realtà opprimente schiacciava ogni anelito alla libertà d’immaginazione e ci faceva vivere come in una pentola a pressione. Quelle del notturno erano le ore in cui emergevano le pulsioni più nascoste – e, con la scusa della “zona franca” del Movimento e del portone sempre aperto, la radio di notte si prestava alle frequentazioni più particolari: prostitute ambosesso, ex-terroristi rossi, giovani scappati da casa, apprendisti nudisti (questi solo in estate), contrabbandieri della zona del porto, filosofi, tossici, spacciatori e dandy in cerca di emozioni rare… tutto questo mentre si continuava a pompare musica, letteratura, controinformazione e liberi deliri non-stop. La malavita organizzata non si interessava a noi, l’eroina girava ma ancora non troppo, l’Aids era un incubo ancora da immaginare, e in definitiva aleggiava un’atmosfera dolceamara da anarchismo amfetaminico. In quelle notti ho visto scene di sesso, di disagio esistenziale, di crisi di astinenza… ma mai un episodio di violenza. E qui sta il punto a cui voglio arrivare, perché un artista si riconosce anche da come vive la notte, da come produce cultura anche di notte, ed è meglio che impari a viverla da giovanissimo, come facemmo io e Andrea a 14 o 15 anni, stando fuori la notte, inventandoci la nostra Cultura, la nostra Etica, lontani dalla famiglia, da ogni controllo, dal rimbecillimento delle abitudini, dalla televisione, dai quiz a premi, dai festival di Sanremo, dai campionati di calcio, dai giochini di società sotto l’ombrellone.
Ma a volte per noi era più provocatorio lavorarci la mattina, in radio… come quando all’ora di pranzo di certi sabati o domeniche ci si cimentava nel leggere al pubblico seduto a tavola con la famiglia i passi più scabrosi dei libri di De Sade, di Masoch, di Mirbeau o di Krafft-Ebing – ma con sottofondo bucolico: Roedelius, Penguin Cafe Orchestra, Faust. Questo mescolamento indistinguibile di cultura e vita è stato il vero territorio su cui ci siamo formati e dentro il quale abbiamo cercato di trascinare gli artisti visivi con cui ritenevamo interessante dialogare: Casula coi suoi libri e quadri, Sciola di ritorno dai suoi viaggi, Enrico Baj e Mimmo Rotella in visita in città, la poetessa visiva e performer concettuale Tomaso Binga, il toscano Lorenzo Pezzatini (col quale nel 1979 collaborammo per una sua installazione sulla facciata della Galleria comunale), ecc.
Nonostante alcuni tra i programmisti della radio si attengano a metodi comunicativi piuttosto tradizionali per le loro messe in onda (siglette iniziali, stacchetti musicali, scalette ordinate e a tema, missaggi precisi, ecc.), per Andrea e me lavorare in radio ha significato anche stravolgere le consuetudini e innovare il linguaggio. Ci inventammo una metodologia basata sull’organizzazione del caos, sull’intervento a sorpresa, sullo shock, sul détournement e sul taglia-incolla sonoro che potrebbe avere il suo corrispondente visivo nel muro newyorkese sgretolato e ricoperto da strati multipli di graffiti, tag, brandelli di flyer, stencil, sticker e applicazioni di crocheting d’artista, ognuno in qualche modo dialogante con l’altro. (Tutto ‘sto Bengodi non è durato moltissimo: di radio Alter abbiamo seguito quasi tutta la parabola che la portò dall’essere un punto di riferimento politico del ’77 al filone pop-wave, per lasciarla scivolare, negli anni Ottanta, dentro esiti più commerciali e “tranquilli”, ma privi di brio. Dal 1981 le nostre sperimentazioni radiofoniche han trovato una più adeguata, e retribuita, collocazione nella sede regionale della Rai).
Vi è stato un momento in cui la cultura a Cagliari, come noi la si intendeva, sopravviveva solo grazie alla presenza di alcuni spazi autogestiti, di improvvisati teatrini fuori dai circuiti ufficiali dove si vedevano cose molto strane, sorprendenti, come quella volta che nell’inverno ’78 con Andrea mi recai in una sperduta zona di periferia per vedere Mario Mieli e il suo spettacolo La Traviata Norma, dentro uno spazio di recupero, a malapena agibile. E’ ancora molto viva nella mia mente l’immagine di Mario spiccante in altezza sui suoi tacchi vertiginosi e vestito con un “abito da sposa” realizzato in pluriball che ne faceva trasparire le pudenda; il suo spettacolo consisteva in un lungo monologo denso di citazioni letterarie che andavano da Proust a Rimbaud fino a autori contemporanei, in cui differenti epoche storiche si mescolavano a situazioni autobiografiche, all'interno di una scenografia poverissima, quasi inesistente. Non penso che Mario abbia percepito alcun compenso per la sua performance, a parte forse il rimborso del viaggio. Dopo lo spettacolo Mario si intrattenne col pubblico (i ricorrenti e famigerati “dibattiti” post-spettacolo erano la cosa migliore di tutto, sappiatelo) e la discussione di volse presto verso la coprofagia, una pratica che lui andava sperimentando da anni come stimolo erotico e che fu una delle cause che spinse la sua famiglia a sottoporlo ad elettroshock (“cura” abbastanza comunemente applicata ai gay dell’epoca). Un dibattito sui dettagli della coprofagia e sul sesso estremo tra giovani e giovanissimi (noi), nel buio di una notte del ’78 dentro un capannone industriale semiabbandonato nella suburra, coi cani che abbaiano alla luna nei cortili solitari in lontananza… e noi che, vincendo un certa timidezza, avviciniamo Mario per chiedergli di Milano, dei suoi rapporti con gli artisti.
Potrei continuare con altri esempi del genere: la grande cultura, la diffusione del Sapere, dell’Esperienza, non nascevano solo attorno alla Galleria comunale e ai suoi vernissage chic. O attorno al ristagnante ambito universitario.
E quindi, detto questo… il vero ruolo, il vero insegnamento di Ugo, quale è stato? Il suo insegnamento, al momento di prendere in mano la Galleria comunale, è stato quello di riuscire nella grande impresa di obliare se stesso, di evadere dal suo primario ruolo d’artista, per cedere la scena ad altri operatori artistici e culturali, per donare a noi tutti un più ampio respiro. L’insegnamento di rinunciare all’egocentrismo, al narcisismo dell’artista, alla focalizzazione sulla propria carriera, al feticismo della personalità. L’insegnamento a vivere l’arte come sistema di conoscenza del mondo, e non come stratagemma per sbarcare il lunario. L’insegnamento della mente aperta, priva di pregiudizi, pronta a includere il diverso da sé, pronta anche alla contraddizione, a quel “contenere moltitudini” di cui parlava Whitman. L’insegnamento di un marxista che sceglie di vivere sulla propria pelle l’ermeneutica che Adorno ci ha lasciato di Marx. L’insegnamento del Je est un autre. E al tempo stesso, l’insegnamento di “ritrovare se stesso nell’assoluta devastazione” (Hegel), di intuire che in ogni altro artista selezionato da lui – che fosse marginale o di chiara fama – vi era in fondo un pezzettino di se stesso, e che quindi dall’insieme complessivo delle opere degli altri artisti raccolte in Galleria poteva scaturire un proprio ideale, frammentario, multifaccettato, stupefacente autoritratto.
E questo è ciò che anche io e Andrea abbiamo cercato di mettere in pratica, nel momento in cui la sorte ci ha fornito l’opportunità di essere “artisti-curatori”. Quando nel 1998 ri-incontriamo Harald Szeemann a Venezia (vi ricordate la mostra Aperto 80 curata da lui e Bonito Oliva ai Magazzini del Sale durante la Biennale del 1980, di cui ho parlato all’inizio? E’ un altro cerchio che si chiude) è lui che vuole affidare a noi e ad altri artisti di un nostro network romano la curatela di una sezione del padiglione Italia della Biennale ’99. Ed è la logica di Ugo che in quel caso mettiamo in pratica: perdersi, atomizzarsi negli eventi altrui – e attraverso questi, ricomporsi come autoritratto pulviscolare, percepibile solo a barlumi, a singhiozzi, a schegge, in controluce… negli angoli più oscuri del puzzle, o forse nel buio tra i tasselli mancanti. No Light, video-opera collaborativa in cui tra me e Andrea avviene l’interscambio più profondo – e in cui, frammentandoci l’un l’altro, assumiamo i ruoli di nuove personificazioni – non a caso fu presentata proprio in quell’occasione.
E quindi, una volta inteso che l’Ego vada decostruito e ricomposto con l’attitudine del bambino che smonta i suoi giocattoli – e li rimonta poi a caso, seguendo l’estro del momento – posso dire che la solitudine a cui accennate nella vostra ultima domanda, in un certo senso non so cosa sia… o forse sì, se la si intende come la solitudine dell’Alieno che cade sulla Terra – ma nel caso mio e di Andrea, essendo in due, l’abbiamo sentita di meno, o l’abbiamo trasformata in una gioiosa opera d’arte, o in cifra stilistica. Ma poi, diciamo la verità, se sei un/a giovane artista non puoi soffrire veramente la solitudine: prima di tutto ci sarà sempre qualche ammiratore o ammiratrice che ti sta intorno, e in caso contrario basta uscire dallo studio e provare a bazzicare quegli spazi in cui si vive la creatività urbana – che non siano le solite, noiose gallerie d’arte, prive di vita vera.
Una vera interazione col territorio, basata su un’identificazione profonda col proprio contesto di nascita, almeno da parte mia non c’è mai stata. C’è stata la mia curiosità di scoprire il mondo attraverso l’arte, partendo da ciò che mi circondava – senza pregiudizi verso ambienti sociali e situazioni culturali di vario genere – per allargarmi sempre più. Ma da quando son nato, sono stato immerso in un sistema di stimoli, informazioni, immagini, libri, musica che era già globale. Ricordi la mia avversione per il concetto di “Identità”, come misi in chiaro già da quello scritto di presentazione che piacque tanto a Ugo? Ecco, le proprie origini, l’etnia, così come la generazione di riferimento, il genere di appartenenza, l’età, il censo, la religione, la razza, la lingua, e anche il proprio nome… tutto questo, tutte queste identità, ho sempre pensato che fossero catene, lucchetti, gabbie che ci vengono imposte dalla nascita ma da cui è meglio evadere prima possibile. Anche la mia idea di “artista” è intesa nel modo più genderfluido e trans-identitario possibile, e include il produrre arte visiva, il creare musica, smarrirsi nel viaggio, mutare pelle, tramutare sesso – e include persino quest’intervista, che non può che essere in se stessa una grande opera d’arte, in quanto unico esempio che io conosca in cui due artisti intervistano altri due artisti su un quinto artista che è stato pure promotore di artisti.
Fu grazie ad Andrea che misi subito a fuoco la mia idea riguardo l’Identità e le “radici” quando un giorno di tanti anni fa mi prestò un libretto che aveva appena comprato, di cui aveva sentito parlare alla radio. Avevo 14 anni, era il 1978 e ci conoscevamo appena, ma ci sembrava di intenderci su molte cose. Il librino, veramente una “sottiletta”, proveniva dalla Francia e si intitolava Rizoma, e in qualche modo riusciva a sintetizzare in poco spazio tutto quello che da tempo percepivamo nell’aria, il senso della vita come ci pareva più ovvio che fosse.
Il futuro nell’Isola – nonostante l’impegno e i sacrifici di Ugo e di altri – ci è sempre apparso opaco e incerto, e questo fu vissuto da molti di noi con un senso di inquietudine profonda, portandoci spesso a praticare drastiche scelte, a vivere situazioni di lacerazione, a suscitare il dolore altrui: quando la mia ragazza – sgomenta mentre preparavo il trasloco – mi chiese se, avendo avuto per ipotesi un gallerista importante a Cagliari e l’appoggio di un mercato sufficiente a farmi vivere con agiatezza facendo solo l’artista, mi sarei trasferito ugualmente, la mia risposta fu subito “sì, io me ne andrei in ogni caso, anche se qui avessi trovato tutte le occasioni che un artista può desiderare”. Trasformare il dolore in arte è la sfida più difficile… ma a volte ciò che ancora non esiste, ossia il Futuro, ha già in anticipo un peso, una profondità di suono, una gravitazione magnetica così grande da obnubilare tutto il resto.
Il mio luogo di nascita oggi mi appare un posto come un altro, di cui a tratti mi ricordo senza passione, rimpianto o avversione, dove ci si torna se vi è qualcosa da fare e da cui si sta volentieri lontano se non serve tornarci. E a volte non serve nemmeno tornarci di persona, per combinarci qualcosa di buono: nel 2015, dopo aver scritto un altro articolo, scegliendo le parole e toccando le “corde giuste”, sono finalmente riuscito a far intestare a Ugo Ugo il nome della collezione contemporanea della Galleria comunale. Perché alla fine forse è proprio vero che soltanto un artista può capire il valore di un altro artista.
Oggi vivo bene molto distante.
Il mondo è grande, pieno di cose belle; il compito dell’artista è abitare molte vite. Plurime, varieganti, caleidotropiche.
CAPITOLO VI
OR :
Dopo tutte queste domande su Ugo e le vostre risposte, ci siamo fatti un'idea non solo di Ugo ma anche di voi. Davanti ai vostri racconti sembra emergere il classico caso dell'enfant prodige, quello appunto di artisti capaci da subito di maneggiare e produrre concetti e forme di alto spessore artistico-culturale. Dalle vostre risposte emerge una solida preparazione e una capacità di analisi degli avvenimenti storici che diventano un importante filtro tra tre generazioni artistiche: quella di Ugo Ugo e Tonino Casula, la vostra (Enrico-Andrea), e la nostra (Enrico-Alessandro). Ma se in gioventù sembra che aveste trovato un ambiente consono a un primo processo di sviluppo artistico, grazie ad una cerchia di artisti molto più grandi di voi, successivamente è come se qualcosa fosse cambiato e il vostro viaggio sia continuato in solitudine, senza più quella interazione con un territorio che grazie al contributo di Ugo e di altri era diventato fertile e potenzialmente fruttuoso per il futuro. All'interno di un contesto storico ormai mutato, avete deciso di salutare la Sardegna non più adatta forse ad accogliere e comprendere il vostro percorso artistico. Ci stiamo sbagliando? In conclusione di questo nostro dialogo ci piacerebbe avere da voi qualche notizia in più sul vostro personale rapporto con la Sardegna.
ANDREA NURCIS :
Già dalla mia prima adolescenza nient’altro mi interessava tranne l’arte, che istintivamente mi appariva lo strumento migliore per affrontare il mondo, il filtro per dare un senso agli stili di vita, ai bisogni, agli affetti, alle amicizie a cui aspiravo.
I motivi per cui un individuo sceglie di dedicare la propria esistenza all’arte non sono mai facilmente sondabili. Di base vi è spesso un miscuglio alchemico di fattori tra loro contrastanti: fortune e sfortune della propria sfera personale e psichica attraverso il confronto teso con la Storia, che hanno il potere di deviare persino dai percorsi già rigidamente programmati dalla famiglia o dal proprio ambiente sociale. Ogni ancoraggio di sicurezza viene abbandonato per lasciarsi trasportare dai flussi incontrollabili del mare dell’arte, nelle cui acque, oltre ogni confine, qualsiasi evento sia nel bene che nel male diventa possibile, diventa accettabile.
Non ho mai sentito nessun senso di appartenenza alla terra e alla città in cui sono nato e ho sempre sentito disagio nei confronti di ogni imposizione di fattori identitari: che fossero intesi in senso anagrafico oppure etnico o sessuale - nonché addirittura stilistico, per quanto riguarda il mio lavoro artistico.
Cagliari era solo un luogo vuoto in cui ogni tanto accadeva qualcosa. In quel momento storico come uno specchio lontano la città rifletteva sfocatamente le turbolenze che sconvolgevano certi ordini del Paese. I fumi delle molotov e dei lacrimogeni appannavano le vetrine della Rinascente che poi cadevano infrante sotto i colpi delle mazze e dei calci dei manifestanti coi volti coperti dai fazzoletti, mentre fuggivano dalla carica della polizia. Dall’asfalto si sollevava il calore che velava la scena rendendola tremolante come la proiezione di una vecchia pellicola.
Attraversavo quella confusione, attento a non prendere manganellate o pietre sulla testa; me la defilavo stando un po’ curvo, come quando si passa davanti allo schermo del cinema per non disturbare gli spettatori, lasciando la sala diventata soffocante nel momento in cui il film apparisse ormai ripetitivo e poco interessante.
Nel 1977 ero uno studente di 15 anni del liceo Artistico. L’ex convento di via S. Giuseppe nel quartiere di Castello era la sede della scuola, di cui già Enrico ha fatto una intensa descrizione in uno dei precedenti capitoli. Il liceo era un luogo aperto, occupato da indiani metropolitani, frikkettoni di ogni sorta, reietti in cerca di un diploma facile, suonatori di tamburi, dandy tossicomani, artistoidi e poetastri il cui unico talento era quello di partecipare da protagonisti a quel grande spettacolo di anarchia a cui assistevo e del quale mi piaceva assimilare le energie più coinvolgenti.
La pittura aveva invaso gli spazi del liceo. Dalle finestre delle aule dei piani alti qualche studente buttava secchi di colore nel cortile interno su cui erano stesi a terra grandi cartoni e tele; i ragazzi nel cortile urlavano eccitati e divertiti cercando di evitare gli schizzi della pittura, poi uno di loro con una scopa spandeva il colore sulle superfici, un altro vi tracciava delle figure, un altro ancora scriveva frasi tratte dalle sue poesie. I professori lasciavano fare: chi si limitava a guardare dubbioso, chi invece stimolava ad andare avanti in quell’esplosione di creatività liberatoria dove contava solo il gesto fine a se stesso e non la ricerca della qualità, perché in quel momento le urgenze non erano quelle di fare un bel quadro.
Il liceo era come una specie di oasi in cui la politica, con i suoi slogan e la sua violenza, non aveva messo radici come in altre realtà scolastiche.
Spesso arrivavano degli artisti: Alvin Curran fece una performance inaspettata, correndo intorno al grande cortile medievale urlando con le braccia aperte. La sua voce nell’acustica dello spazio risuonava sempre differente a seconda del punto del cortile in cui lui si trovava. Nessuno l’aveva annunciato; gli studenti si affacciavano alle finestre ad osservare la scena, alcuni sorpresi, altri indifferenti: forse pensavano fosse il solito frikkettone del quartiere sotto l’effetto dell’acido, e invece era uno dei più importanti musicisti della scena contemporanea internazionale.
E di nuovo devo ricordare Costantino Nivola, che arrivò in maniera più “formale” accolto da studenti e professori nella grande aula delle assemblee - ma non fu formale il suo incontro col pubblico. Mentre tutti si aspettavano una lezione sull’architettura e sulla scultura moderna, Nivola invece divagò imprevedibilmente raccontando del lavoro di muratore che faceva da ragazzo in Sardegna e della fragranza di caffè appena fatto che era sempre presente nello studio del suo grande amico Le Corbusier. Fu quella la prima volta che ebbi un contatto con lui: senza esitazione mi avvicinai e gli dissi orgogliosamente che anche mio padre era un muratore.
Anche i muri di Cagliari venivano invasi dalla pittura, da slogan politici, da frasi poetiche e deliranti, da immagini e segni di tutti i tipi. L’uso del pennello e della pittura era più frequente di quello delle bombolette spray, così i muri vibravano ricoperti dai veloci segni delle pennellate che colavano liquide tra le crepe degli intonaci, oppure più dense si raggrumavano sul rosso dei mattoni o sporcavano di velature le superfici dei portoni o dei manifesti stradali.
Ero affascinato dai tentativi di cancellazione di questo materiale dal carattere politico e creativo, non tanto attraverso la rimozione o la copertura completa delle scritte, ma piuttosto mediante l’aggiunta di segni a-significanti che si sovrapponevano alle lettere dando vita ad un alfabeto inedito. Una scritta su un muro diventava così una misteriosa architettura di segni, un simbolo politico si mutava in una forma geometrica complicata e indefinibile. Quelle forme censorie, di annullamento del significato, per me avevano una forte valenza artistica e pittorica. Qualche anno dopo rimasi piuttosto colpito dal fenomeno del graffitismo newyorkese, in cui alcuni artisti, utilizzando un metodo simile di sovrapposizione di segni, trasformavano le lettere dell’alfabeto in un linguaggio grafico del tutto personale, una scrittura criptica in conflitto con quella ufficiale.
L’arte per me sin dagli esordi ha sempre avuto un valore di trasformazione, attraverso forme di “negazione”, sovrapposizione, stratificazione. E in fondo anche oggi quando lavoro non faccio altro che stratificare segni ed esperienze sino alla saturazione dell’idea iniziale. Mi fermo solo quando riesco a provocarne l’implosione.
L’arte era l’unico mio interesse perché attraverso essa riuscivo a dare un senso a tutta la mia vita, a tutte le cose che mi circondavano, alla realtà dentro la quale potevo tuffarmi senza aver paura di nulla. Furono in particolare due libri gli strumenti di connessione teorica tra l’arte e il mondo: Avanguardia di massa di Maurizio Calvesi e soprattutto La linea analitica dell'arte moderna di Filiberto Menna, che alcuni anni dopo conobbi personalmente perché fu uno dei commissari che selezionarono il mio lavoro e quello di Enrico per la partecipazione alla Quadriennale di Roma.
Attraverso l’arte riuscivo a relazionarmi col mondo in maniera diretta, lontano da ogni forma di intellettualismo. Nel mio entusiasmo di quindicenne e nella mia grande curiosità, senza una lira in tasca che mi permettesse di viaggiare, nell’epoca in cui internet e i social network erano ancora da immaginare, quando su un libro o una rivista vedevo il lavoro di un artista che mi piaceva non avevo problemi a telefonargli per esprimergli la mia stima, per fargli delle domande. Così mi capitò con Luciano Fabro, affascinato dalle sue opere, dai suoi Piedi realizzati in tessuti di seta merlettata e materiali preziosi come il vetro di Murano: feci con lui alcune lunghe chiacchierate in cui, con grande gentilezza e forse stupito ad avere un giovane estimatore dalla lontana Sardegna, mi raccontava i dettagli delle fasi tecniche nella realizzazione di quelle sue sculture, delle difficoltà e anche dei sacrifici economici che gli costarono. La stessa cosa avvenne con Mimmo Paladino, di cui mi colpì molto un suo disegno visto su una rivista che presentava uno dei primi articoli sul fenomeno della Transavanguardia. Paladino mi sembrò quasi lusingato e intimidito dalla mia telefonata, mi raccontò dei suoi viaggi in Brasile, del senso del colore che in quel paese aveva sviluppato, del suo interesse per certe forme primitive ed arcaiche, ma anche cose molto semplici della sua vita di pittore e di insegnante a Milano.
In fondo furono queste ingenue telefonate i miei primi contatti artistici oltre i confini dell’isola, attraverso i quali capivo che l’arte necessitasse di un’esperienza umana da vivere pienamente e non solo di essere studiata sui libri o osservata da spettatore lontano. I racconti di Ugo sui suoi rapporti con gli artisti, le sue visite nei loro studi - narrati sempre in modo dettagliato, attenti alla descrizione dell’aspetto umano dell’artista - contribuirono non poco a farmi maturare questa sensibilità, e le tensioni delle ricerche internazionali che le opere della sua collezione esemplarmente offrivano agli sguardi e alla mente mi indicavano che la scelta dell’arte esigeva un confronto con un mondo di idee non limitato ai confini geografici e culturali della Sardegna.
Nel 1986 io ed Enrico fummo selezionati per partecipare all’XI Quadriennale di Roma. Il commissario responsabile per fare la prima selezione regionale era Tonino Casula e la selezione definitiva venne fatta dai critici Enrico Crispolti e Filiberto Menna. Gli altri artisti sardi selezionati furono Pinuccio Sciola e Rosanna Rossi.
A Roma durante i giorni di allestimento ebbi modo di incontrare sia Menna che Crispolti, e molti artisti che ammiravamo e con i quali ancora oggi siamo rimasti amici.
Io e Enrico, tra le sale del Palazzo dei Congressi dell’Eur, che in quell’anno era stato scelto come sede per l’esposizione nazionale, notammo a un certo punto un signore vestito con un completo color verdino, con scarpe di coccodrillo complete di ghette e, dettaglio ancora più peculiare, un ombrello di colore intonato all’abito nonostante ci trovassimo in un giugno dal clima particolarmente caldo e afoso.
Si trattava di Luigi Ontani che aveva appena finito di posizionare la sua opera nel posto assegnatogli e che ora si faceva un giro solo soletto, guardandosi intorno e facendo risuonare spensieratamente i suoi passi tra quelle sale marmorizzate. Gli andammo dietro e ci presentammo, e lui subito ci chiese di voler vedere il nostro lavoro.
Anche Ontani era uno di quegli artisti che già erano apparsi nelle narrazioni di Ugo, perché negli anni ‘70 ogni volta che Ontani faceva tappa a Parigi non mancava mai di andare a trovare l’amico Paolo Calia nella sua particolare casa-studio, e gli aneddoti su queste visite raccontati da Ugo erano sempre molto divertenti.
Luigi Ontani rimase piuttosto colpito dai nostri lavori e nei giorni successivi ci incontrammo nuovamente; in quelle occasioni ci presentò alle persone del mondo dell’arte con cui aveva rapporti di amicizia e di lavoro e ci invitò nel suo studio in via Brunetti che pareva essere una sorta di fumeria d’oppio orientale, col pavimento pieno di tappeti e cuscini per sedersi o distendersi e le pareti dipinte di rosso pompeiano.
In quegli anni l’ambiente dell’arte italiano aveva ancora una dimensione quasi familiare in cui tutti si conoscevano e i rapporti si basavano su un livello di interazione umana più che rigidamente professionale. Così nessuno ti chiedeva il curriculum, con quale gallerista lavorassi, che critico conoscessi, quali giri frequentassi, che quotazioni avessero i tuoi lavori o cose di questo tipo che da lì a pochi anni sarebbero diventate le forme consuete delle relazioni all’interno del sistema dell’arte.
Un giorno a Cagliari verso la fine degli anni ’80 realizzai da sonnambulo una scultura che fu l’ultima opera che creai in Sardegna prima di trasferirmi.
Probabilmente avrei potuto dissotterrare gli eccellenti resti secolari di un santo o di un artista, trafugandoli dalla cripta di qualche antico monastero, affinché potessi impadronirmi del loro fragile cranio per ricavarne la calotta attraverso una precisa sezione longitudinale.
Invece usai la calotta già sezionata di un vecchio cranio che era stato usato per fare lezioni di anatomia e che Enrico anni prima trovò gettato tra i rifiuti del nostro liceo Artistico, tra le macerie pronte allo sgombero, insieme a sedie rotte, armadi, banchi sgangherati e varie attrezzature scolastiche in disuso.
I santi bizantini dalla testa piatta tenevano tra le mani la loro stessa calotta; Yogini Sarvabuddha tiene una calotta cranica (kapala, thod-pa) nella mano sinistra. Il Santo sepolcro di Gerusalemme voleva evocare la grande volta dell'universo che l'uomo rappresenta con la sua calotta cranica.
Mi intrufolai nei vicoli vecchi del quartiere della Marina, odorosi di salsedine portuale e piscio di gatto, cercando su indicazione di Nivola il laboratorio di un artigiano specializzato in piccole fusioni e bronzetti nuragici da vendere al mercato turistico. Alla fine lo trovai: privo di ogni indicazione in un cortiletto interno, ingombro di scorie e macerie di muratura, il fonditore lavorava in un seminterrato annerito dalla fuliggine e oscuro come una caverna malsana, dentro il quale mi calai facendo pochi scalini sberciati. Intorno a me attrezzi da fabbro e su una parete, come un massiccio monolite proveniente da un’epoca antica e indefinibile, sporgeva la fornace che silenziosa pareva in attesa di rianimarsi con fuoco e leghe metalliche. Mi venne incontro un vecchio dai lineamenti gentili che indossava occhiali dalle lenti così spesse da ingrandirgli grottescamente gli occhi, come spessi erano i calli delle sue mani rovinate e forti. Con me avevo portato due calchi in gesso e cera della calotta, e chiesi all’artigiano il costo delle due fusioni in bronzo e della saldatura che le avrebbe unite, in modo che la forma finale ricordasse quella di un grande uovo: “stia attento però che nella saldatura delle due calotte in bronzo le linee di sutura coincidano come fosse una linea continua, come una crepa su tutta la superfice di questo uovo che deve sembrare precorso da una unica e simmetrica frattura”.
Il vecchio mi rispose che poteva provarci e mi disse il prezzo del lavoro, corrispondente a tutti i miei risparmi; in quel momento ne avevo in tasca solo una piccola parte, che gli offrì come anticipo.
Tornai alcuni giorni dopo. Su un bancone sporco della caverna, appena sputato dalla bocca della fucina insieme a decine di bronzetti da ripulire e patinare, v’era un grumo bronzeo, un bolo dalla forma ovale che doveva essere il mio “uovo”. Il vecchio si lamentava perché per ottenere quella forma aveva dovuto perdere più tempo di quello previsto e pretendeva da me altri soldi oltre quelli concordati. Svuotai il portafoglio e le tasche dandogli tutto quello che avevo, pure gli spiccioli. Nervosamente prese il danaro, mise il bronzo tra le mie mani e mi mandò via ripetendo che ci aveva perso troppo tempo e che non avrebbe accettato mai più lavori del genere.
A casa dovetti fare un lungo lavoro di limatura e cesellatura per ottenere la forma che avevo in mente; misi poi a sciogliere nell’acqua un pezzo di fegato di zolfo, ottenendone la sostanza puzzolente come il fiato marcio di un demonio che occorreva per la patinatura del bronzo. Diverse mani di fegato di zolfo date con pennello e straccio mi permisero di ottenere una ossidazione pesante di nero metallico che in alcuni punti dava dei bagliori cupi d’un rosso sangue coagulato; con un bulino da incisore dalla punta sottile ripresi tutto il disegno della linea di sutura, ripulendola dalla patina ed evidenziandola più profondamente laddove nella fusione non fosse venuta sufficientemente visibile, così che il disegno della frattura, in contrasto col nero della patina, brillasse nella luce dorata che ha in origine il bronzo.
Appunto, sarebbe stata l’ultima opera creata in Sardegna poco prima che con Enrico abbandonassi definitivamente l’isola. L’Uovo presentava sulla sua superficie il segno d’una frattura che attraversava tutta la superfice in modo centrale, simmetrico. Da subito - forse dalla mia infanzia, sicuramente dalla mia adolescenza - scegliendo l’arte come motivo di vita, avevo interiorizzato che prima o poi questa frattura con le mie origini, con la terra che mi aveva dato i natali, si sarebbe concretizzata.