INSTALLATION SHOT
La rappresentazione dell'opera d'arte nello spazio espositivo contemporaneo
Un testo di Montecristo Project (Enrico Piras - Alessandro Sau), 2015
Pic: Installation view da Projective Ornament, mostra a cura di Karlos Gil presso Garcia Galeria, Madrid, 2016
(in questa immagine opere di Montecristo Project e Víctor Santamarina)
Questo breve testo presenta una riflessione critica sulla documentazione fotografica dell’opera d’arte nello spazio espositivo contemporaneo: l’installation shot. Ho delineato una sintetica evoluzione di questa pratica al fine di analizzare quelle costanti che da sessant’anni, e più che mai oggi, fanno parte della documentazione delle opere e della loro circolazione attraverso mezzi di comunicazione di massa.
Lo Sguardo è il fulcro di questo approccio, nei termini di un’analisi storica dell’evoluzione del ruolo dell’osservatore e di quelle costanti che hanno portato la documentazione fotografica delle opere al rango di genere artistico autonomo, svincolato dal referente originario: l’opera d’arte. Nel testo viene analizzato questo “canone” fotografico, attraversando diversi periodi storici e analizzando il complicato rapporto tra l’opera e l’architettura dello spazio espositivo, l’immagine fotografica e un’impostazione visiva basata sulle regole classiche e umanistiche della prospettiva.
Quando ho iniziato la stesura di questo testo, tracciandone un perimetro ideale, ho scelto di
non dilungarmi in una dissertazione sul white cube, sulle sue caratteristiche strutturali o implicazioni ideologiche. Questi elementi saranno presi in considerazione esclusivamente nel contesto dell’analisi del tema centrale di questo scritto: l’installation shot, ovvero i canoni di rappresentazione fotografica dell’opera d’arte nello spazio (reale o virtuale) espositivo contemporaneo. La mia idea è infatti quella che lo statuto legittimante del white cube si sia trasferito nei canoni di un linguaggio fotografico autonomo, basato su convenzioni prospettiche classiche e su alcune costanti nella costruzione dell’immagine fotografica delle esposizioni. Vorrei provare quindi a definire, delineare in maniera chiara questo canone - più o meno consapevole - che modella la rappresentazione dell’opera d’arte in rapporto allo spazio.
Cercando di reperire tracce di una storia già scritta della fotografia dell’opera d’arte mi sono imbattuto in una bibliografia assai nutrita sul rapporto tra opera e spazio, che oltre classici come “Inside the white cube” di Brian O’Doherty, include esempi più recenti in cui l’attenzione si sposta su ciò che il Post-internet ha messo al centro della discussione: la documentazione come prodotto autonomo svincolato da una fruizione in persona delle opere (argomento approfondito ad esempio in “A cube has six sides” di Parker Kay). In nessun caso però ho trovato una proposta di codifica linguistica degli elementi della rappresentazione dell’opera d’arte nello spazio espositivo in chiave fotografica, o un’analisi dei rapporti tra osservatore e installation shot. La stessa presunta neutralità che ha ammantato per anni il white cube sembra essersi così tras- ferita nella percezione del linguaggio fotografico con cui le mostre vengono documentate.
Se le prime analisi degli anni ‘70 mettevano in mostra la struttura ideologica del white cube, tracciando le radici storiche di una fuoriuscita dal quadro (e dalla cornice) che era ancora in via di metabolizzazione, le ultime riflessioni ci riportano a una dimensione in cui lo spazio espositivo ha definitivamente compiuto quel mutamento che O’Doherty definiva con la formula “the context becomes the content”.
Gene Davis, Micro Paintings exhibition, Fischbach Gallery, New York, 1968
- In “Inside the white cube” O’Doherty parla dei "Micro Paintings" di Gene Davis, opere di circa 5 x 5 cm. Con le loro dimensioni minime mettevano in evidenza il muro su cui erano appese, facendo sembrare lo spazio molto più grande di quanto non fosse anche nella documentazione fotografica.
Lo spazio espositivo, in questa evoluzione naturale, è diventato centrale nel discorso artistico e medium esso stesso.
In quegli stessi anni in cui si va definendo sempre più chiaramente l’uscita del quadro dalla cornice allo spazio (esemplificativa in questo senso è stata la mostra di Monet “Seasons and moments” curata da William C. Seitz), va ovviamente acquistando sempre più importanza la curatela, ovvero l’applicazione di un criterio quanto più scientifico nel definire la relazione che di volta in volta si deve instaurare tra le opere e lo spazio e il rapporto formale e concettuale tra le diverse opere nel contesto di una stessa mostra. Con l’arrivo del Colour field prima e del Minimal poi,le cose si fanno ancora più strutturalmente sottili e interessanti: l’opera attiva in maniera nuova lo spazio, inizia una pratica attiva di coinvolgimento fisico dello spettatore: una relazione tra opera e spazio imprescindibile, ovviamente anche quando la prima deve essere documentata. Ad interessarci però, come dicevo prima, non è il carattere normativo-regolativo dei corpi e del loro movimento che impone lo spazio del white cube; teniamo sempre presente, infatti, che l’installation shot è spesso una scena deserta, raramente abitata da spettatori: è una composizione prospettica il cui unico orizzonte normativo è la composizione dell’immagine.
SX: Oliver Osborne, The Neck, Giò Marconi, 2015 . Dx: Tony Swain, The shorter alphabet, The Modern Institute, Glasgow, 2015
- Due esempi di installation shot in cui notiamo come il centro dell’attenzione non sia l’opera, ma, in ordine di rilevanza: lo spazio espositivo, l’allestimento (il lavoro curatoriale) e infine le opere, in questo caso pittoriche.
A partire dagli anni ‘50 le opere acquistano man mano un peso individuale diverso, necessitano di uno spazio che permetta loro di “respirare”; tutto il contrario, ci ricorda O’Doherty, dei Salòn ottocenteschi in cui decine di opere si accalcavano su una sola parete, ma in cui era sufficiente lo spazio simbolico di una cornice a dividerle e rendere ognuna leggibile e autonoma di per sé. Questo fenomeno si sta però curiosamente ripetendo oggi sulle pareti virtuali di qualsiasi browser internet, navigando sui magazine online di arte o nei siti degli artisti, in cui riusciamo a districarci tra decine di installation shots, immagini di opere e altre pics documentative senza troppa fatica nel leggerle e decifrarle. La cornice bianca del background sembra svolgere una funzione non dissimile da quelle laccate in oro dei Salon.
Ma torniamo a noi: è negli anni ‘60 che nasce ed inizia ad assumere i suoi tratti caratteristici l’installation shot.
Questa pratica fotografica di documentazione delle opere è infatti in origine inscindibile dal white cube, o meglio, da uno spazio di carattere geometrico possibilmente asettico, una cosa che, vedremo meglio, è di fondamentale importanza. Sintetizzando un percorso storico in una breve serie di processi ci troviamo davanti a un’opera che non esiste più nei soli confini della sua cornice: deve essere fotografata nello spazio; ne consegue così -anche per quella pittorica- che assuma un carattere installativo; si rende perciò necessario mostrarne l’allestimento.
L’ oggetto della nostra analisi, come vediamo, va sempre slittando: dall’opera all’immagine dell’opera, da quest’ultima arriviamo poi all’immagine dell’opera nello spazio, ossia l’allestimento: così lo spazio “curato” diventa il soggetto dell’immagine fotografica.
Raccontata così però la situazione appare semplificata e perfino deduttiva: applicare un criterio così generale a ogni singola opera d’arte può sembrare una generalizzazione fuori luogo. Questo però fino a che non teniamo conto del fatto che il contesto entro cui tutte queste diverse opere vengono fotografate si è uniformato: la scatola prospettica del white cube e lo sguardo della macchina fotografica sono gli elementi costanti della nostra equazione.
Qui non parliamo però di una storia delle opere, ma di una possibile storia della loro documentazione espostiva e di quegli elementi che sono alla base di questa materia specifica: inquadratura, luce, spazio, composizione e infine opera. È proprio da questa somma di elementi che possiamo provare (proprio grazie alla loro costante presenza) a trarre delle riflessioni legate alla definizione di un canone, ossia di una serie di costanti che hanno fatto sì che questo linguaggio si rendesse autonomo rispetto al suo presunto referente iniziale: l’opera d’arte.
Un fattore principale di questa analisi è chiaramente la costruzione storica dello sguardo, ossia il modo in cui il sedimentarsi di approcci alla visione lungo il corso di questi quasi cinquant’anni ha influenzato il nostro modo di leggere l’immagine e il modo in cui la posizione dell’osservatore va tuttora radicalmente mutando.
Coen Vernooij, Dissolving spaces, Probe Project, 2012
- Probe Project è un white cube in miniatura ideato da Suze May Show. Lo spazio misura 1,10 mt in altezza per una superficie complessiva di 6 m2. Nonostante esista realmente lo spazio è destinato alla realizzazione di lavori che sono fruibili esclusivamente attraverso la documentazione fotografica presente online.
Nel corso degli ultimi dieci anni almeno è avvenuta un’evoluzione strutturale dell’idea di spettatorialità, si è, in altre parole, evoluto il ruolo dell’osservatore, soprattutto per quanto riguarda la fruizione attraverso la rete. Ma in che modo sta variando la nostra posizione in questi termini?
Principalmente nella capacità di assemblare, assimilare e comprendere un linguaggio visivo sempre più astratto e sempre più distante da un substrato mimetico che è invece proprio della fotografia e di altri mezzi di origine analogica di riproduzione della realtà. In questi ultimi, infatti, un requisito imprescindibile è che vi sia un soggetto sito in una determinata posizione spaziale all’interno, o prossima, alla scena che si fotografa; in mezzi di rappresentazione come il texture mapping o le immagini ottenute per risonanza magnetica, per fare due esempi, viene invece meno la corrispondenza con le lunghezze d’onda ottiche dello spettro e soprattutto, per ciò che ci interessa, un punto di vista posizionato in un punto reale, fisso o mobile che sia, definito nello spazio. Per quanto riguarda il nostro ambito però, possiamo dire di essere quanto mai lontani da un’immagine di questo genere, che richieda codici di lettura specialistici e uno spettatore astratto che legge l’immagine più che osservarla. Se infatti è cambiato attraverso internet il modo in cui possiamo gestire più dati e immagini simultaneamente, l’installation shot risponde a criteri ben diversi, è radicato in un linguaggio fotografico che fa della prospettiva più classica il suo punto cardine.
La prospettiva permette infatti di realizzare un’immagine leggibile universalmente, dal momento che il punto di osservazione che assume dev’essere verosimilmente tarato su un ipotetico spettatore situato in un punto preciso dello spazio. Paradossalmente, questo specifico genere di immagini, così come lo spazio scenico del white cube, sono associabili a un contesto storico
più prossimo ad altri secoli che non ai giorni nostri.
Nei suoi scritti frammentari Walter Benjamin individuava un osservatore moderno mobile e itinerante, modellato dalla convergenza di nuovi spazi urbani e nuove tecnologie, nuove funzioni simboliche ed economiche delle immagini e dei prodotti, immerso in una percezione temporale e cinetica che annullava la possibilità di un’osservazione contemplativa. La quantità di esperienze percettive di cui godiamo oggi è decisamente più ampia rispetto a quella appena descritta, eppure nel documentare gli oggetti artistici, che dovrebbero a loro volta richiedere una fruizione visiva complessa, ci serviamo di un sistema di riferimento che parla a un osservatore non radicato in un tempo storico preciso.
La prospettiva tende a staticizzare la visione, imponendo un solo punto di osservazione e la riproduzione meccanica della fotografia tende a trasformare lo spazio in una figura stereometrica elementare, allontanando l’osservatore da quella combinazione complessa di elementi e stimoli che Benjamin menziona come parte integrante della frammentazione dello sguardo.
L’installation shot e la dimensione del white cube ci appaiono così idealmente atemporali e immuni alle dinamiche storiche e sociali. Sono uno spazio contemplativo. In maniera intuitiva O’Doherty, menzionando rapidamente l’installation shot nel suo saggio del 1976, parlava dell’occhio (fotografico) come dell’unico abitante dell’installation shot sterilizzato, privo di riferimenti metrici dimensionali; un occhio che a ben vedere osserva uno spazio astratto, una proiezione.
Questa tecnica si é mantenuta perfettamente intatta fino ad oggi: cosa assai strana visti i mutamenti che hanno caratterizzato sia l’idea di oggetto artistico che le tecnologie e i sistemi di rappresentazione visiva. Proprio per questo ho finora parlato di un canone inconsapevole le cui radici si trovano nella prospettiva rinascimentale e in parte nella geometria descrittiva settecentesca. Tra le costanti che si sono mantenute troviamo quelle più evidenti: la necessità di mostrare lo spazio allestito e la disposizione dei lavori, ma anche quelle di carattere strutturale, che modellano però in maniera sostanziale questa pratica.
Queste sono ad esempio la necessità di fotografare in maniera scenica lo spazio (con l’utilizzo di obiettivi grandangolari che ne magnifichino le dimensioni), l’utilizzo di luci artificiali bianche uniformi (quasi annullando il punto di diffusione “proprio”), il punto di vista spesso ribassato, a creare una dilatazione spaziale maggiore e un insieme di ampio respiro. Vediamo così che l’installation shot è più tarato sulle necessità di definizione di uno spazio/superficie ideale (del white cube, ovviamente) che su quelle dell’opera.
Il linguaggio di cui si serve il fotografo, dunque, è funzionale alla rappresentazione stereometrica: le opere vengono ricomprese in una visione prospettica classica, umanistica, che riporta il linguaggio su un piano scenico e teatrale, arrivando a una divisione quasi sei/settecentesca tra lo spazio rappresentato e il soggetto della percezione. In questo senso l’opera d’arte rappresentata nel suo spazio espositivo è come sospesa in una dimensione potenziale, lo spazio prospettico fotografico non fa che enunciare, dettare le premesse di come questa debba manifestarsi all’occhio.
Questi stessi enunciati strutturali sono presenze fondanti e costanti nel lavoro di Giulio Paolini, in cui la presenza scenica dell’opera è concepita come proiezione geometrica prima ancora di farsi proiezione spaziale e poi fotografica.
Giulio Paolini, Contemplator enim (particolare), 1992
Lo spazio contemplativo del white cube, con la sua pretesa immunità alle dinamiche storiche e sociali, unito alla fotografia scenica, ci appare come uno spazio prossimo a una camera oscura - in cui riscontriamo una contrapposizione binaria tra mondo e soggetto della percezione - più che al mondo novecentesco descritto in precedenza da Benjamin.
Il soggetto della percezione è così separato dal suo oggetto, nel nostro caso attraverso l’utilizzo di un linguaggio fotografico ben delineato e della sua pretesa identificazione con lo sguardo attraverso l’uso di certi tempi di esposizione e apertura dell’otturatore. Tutte queste caratteristiche fanno parte di quel canone che rende l’installation shot un linguaggio ormai svincolato dal suo referente originario, l’opera d’arte; le regole costruttive di queste immagini sceniche costituiscono oggi un discorso autonomo, che negli ultimi anni è stato portato verso esiti estremi, nel passaggio definitivo da documentazione a opera.
La dimensione virtuale negli ultimi dieci anni si è fatta sempre più importante, soprattutto dal momento in cui la circolazione di immagini di mostre si è fatta più massiccia con l’avvento di internet e della fotografia digitale.
Si sono creati così contesti in cui lo sguardo virtuale e stereometrico viene messo alla prova: sopra tutti lo schermo del computer, in cui l’insieme d’immagini riproduce quell’effetto di affollamento già menzionato della parete ottocentesca; lo schermo stesso e le sue modalità di fruizione sono al centro di approcci ed esperimenti di vario genere. In risposta al proliferare di fotografie di opere sono da prendere in considerazione le sperimentazioni proposte da quell’etichetta conosciuta come Post-internet, che ci interessa almeno sinteticamente analizzare per capire come la concezione del rapporto tra opera, spazio e fotografia stia mutando. Questo clima artistico (non ci sono i presupposti di unità di intenti e interessi per definirlo un movimento) si è confrontato con il problema della documentazione dell’opera d’arte e della sua diffusione, nonché conla circolazione in rete di queste immagini e la loro fruizione da parte degli spettatori online.
Gli esperimenti sono e sono stati diversi, ricorrenti sono ad esempio opere che vengono realizzate esclusivamente per la loro documentazione fotografica e l’utilizzo del white cube come medium legittimante, nelle vesti di sfondo fotografico onnipresente. Con il Post-internet l’attenzione si sposta completamente sulla fotografia dell’opera, che in molti casi è fruibile solo online, attraverso lo schermo. Sono stati realizzati a questo proposito esperimenti di mostre concepite per spazi virtuali con opere inviate in formato jpg dagli artisti e incollate dal curatore/organizzatore sul background costituito dallo spazio della galleria con Photoshop, come nell’ormai famoso esempio di “An immaterial survey of our peers”, mostra ideata e curata da Brad Troemel nel 2010.
Ci sono alcuni elementi fondamentali che dobbiamo prendere in relazione nel nostro percorso di trasformazione e autonomizzazione del linguaggio dell’installation shot: questi artisti, pur volendo affrontare e problematizzare la fruizione dell’opera con un linguaggio nuovo e nuovi riferimenti spaziali, non sono riusciti a proporre una nuova concezione di spazio della rappresentazione, ripiegando così sulla prospettiva o al massimo su un gioco di relazioni tra spazio bidimensionale e tridimensionale o un appiattimento dell’immagine ricco di post-produzioni o citazioni da tecnologie primitive.
È significativo il fatto che, dovendo creare spazi virtuali, lo abbiano fatto ricalcando le fughe prospettiche di fotografie di gallerie reali, o creando oggetti bidimensionali fotografandoli su spazi tridimensionali, come a imitare l’effetto di illusione di un desktop.
Brad Troemel, An immaterial survey of our peers, 2010
Alcune delle intuizioni introdotte nel contesto del Post-internet sono significative: ci sono stati infatti, in questo clima, artisti che si sono resi conto del mutamento che è avvenuto, ossia quel passaggio gerarchico in cui lo spazio è diventato più importante dell’opera, e in cui poi l’immagine fotografica è divenuta a sua volta più importante dello spazio stesso.
Ciò che è stato problematico, in questi esperimenti, è però il fatto che questi artisti non riescano a proporre un nuovo sistema di fruizione dell’opera, o un nuovo modello di spazio dell’opera, svincolato dai legami umanistici della prospettiva e dall’asetticità del white cube.
Come osserva in merito Brian Droitcour su Art in America (“The perils of post-internet art”), niente di prossimo a una critica del white cube o della circolazione di immagini di mostre sta avvenendo; si tratta semplicemente di servirsi del prestigio di questo contesto per produrre immagini che sono più prossime a un patinato merchandising visivo che a un oggetto d’arte.
Quello che è avvenuto in questi anni è stato un salto semantico decisivo legato alla circolazione dell’immagine fotografica dell’opera nel white cube, in cui l’installation shot, in quanto linguaggio autonomo, è diventato legittimante al pari dello spazio espositivo. Fotografare uno scenario architettonico applicando i canoni dell’installation shot, replicando le sue norme fotografiche e regole compositive, è sufficiente a farci leggere lo spazio in un certo modo, ossia come un contesto artistico: l’etichetta fotografica, grazie alla fruizione online, non ha più obblighi nei confronti dello spazio reale, è autonoma.
Questa legittimazione migrata dallo spazio espositivo allo stile fotografico è oggi talmente forte da non dover più prescindere dalla spazialità del white cube, e questo è un elemento che con il Post-internet è stato sottovalutato, spostando il discorso su un piano virtuale, ma senza poi risolvere il problema dell’impostazione classica della documentazione né concretamente la presentazione dei lavori dal vivo in maniera convincente.
La legittimazione, la normativa che ci permette di leggere l’immagine come artistica, sta transitando dai canoni spaziali del white cube a quelli di un linguaggio fotografico basato su convenzioni prospettiche classiche, su regole formali e compositive che prescindono completamente dalla natura degli oggetti distribuiti nello spazio.
E’ solo oggi, dal momento che questo linguaggio fotografico si è emancipato anche dal setting estetico del white cube, che si apre finalmente a nuove possibilità di indagine e sperimentazioni. Senza necessariamente abbandonare i metodi fotografici classici, ma adeguandoli a contesti concettualmente complessi, è possibile impiegare l’installation shot come mezzo critico che favorisca lo sviluppo di una problematizzazione e un possibile rinnovamento del rapporto tra l’opera d’arte e il suo spazio.
Di conseguenza, insieme alla documentazione, è necessario ripensare questo rapporto, porsi il problema di quale sia lo spazio dell’opera, quali i suoi requisiti formali e concettuali. Questo canone fotografico può così essere trasposto in scenari morfologicamente e concettualmente più complessi, al fine di instaurare un nuovo rapporto con l’originario oggetto della rappresentazione, ovvero l’opera d’arte.
INSTALLATION SHOT
La rappresentazione dell'opera d'arte nello spazio espositivo contemporaneo
Un testo di Montecristo Project (Enrico Piras - Alessandro Sau), 2015
Pic: Installation view da Projective Ornament, mostra a cura di Karlos Gil presso Garcia Galeria, Madrid, 2016
(in questa immagine opere di Montecristo Project e Víctor Santamarina)
Questo breve testo presenta una riflessione critica sulla documentazione fotografica dell’opera d’arte nello spazio espositivo contemporaneo: l’installation shot. Ho delineato una sintetica evoluzione di questa pratica al fine di analizzare quelle costanti che da sessant’anni, e più che mai oggi, fanno parte della documentazione delle opere e della loro circolazione attraverso mezzi di comunicazione di massa.
Lo Sguardo è il fulcro di questo approccio, nei termini di un’analisi storica dell’evoluzione del ruolo dell’osservatore e di quelle costanti che hanno portato la documentazione fotografica delle opere al rango di genere artistico autonomo, svincolato dal referente originario: l’opera d’arte. Nel testo viene analizzato questo “canone” fotografico, attraversando diversi periodi storici e analizzando il complicato rapporto tra l’opera e l’architettura dello spazio espositivo, l’immagine fotografica e un’impostazione visiva basata sulle regole classiche e umanistiche della prospettiva.
Quando ho iniziato la stesura di questo testo, tracciandone un perimetro ideale, ho scelto di
non dilungarmi in una dissertazione sul white cube, sulle sue caratteristiche strutturali o implicazioni ideologiche. Questi elementi saranno presi in considerazione esclusivamente nel contesto dell’analisi del tema centrale di questo scritto: l’installation shot, ovvero i canoni di rappresentazione fotografica dell’opera d’arte nello spazio (reale o virtuale) espositivo contemporaneo. La mia idea è infatti quella che lo statuto legittimante del white cube si sia trasferito nei canoni di un linguaggio fotografico autonomo, basato su convenzioni prospettiche classiche e su alcune costanti nella costruzione dell’immagine fotografica delle esposizioni. Vorrei provare quindi a definire, delineare in maniera chiara questo canone - più o meno consapevole - che modella la rappresentazione dell’opera d’arte in rapporto allo spazio.
Cercando di reperire tracce di una storia già scritta della fotografia dell’opera d’arte mi sono imbattuto in una bibliografia assai nutrita sul rapporto tra opera e spazio, che oltre classici come “Inside the white cube” di Brian O’Doherty, include esempi più recenti in cui l’attenzione si sposta su ciò che il Post-internet ha messo al centro della discussione: la documentazione come prodotto autonomo svincolato da una fruizione in persona delle opere (argomento approfondito ad esempio in “A cube has six sides” di Parker Kay). In nessun caso però ho trovato una proposta di codifica linguistica degli elementi della rappresentazione dell’opera d’arte nello spazio espositivo in chiave fotografica, o un’analisi dei rapporti tra osservatore e installation shot. La stessa presunta neutralità che ha ammantato per anni il white cube sembra essersi così tras- ferita nella percezione del linguaggio fotografico con cui le mostre vengono documentate.
Se le prime analisi degli anni ‘70 mettevano in mostra la struttura ideologica del white cube, tracciando le radici storiche di una fuoriuscita dal quadro (e dalla cornice) che era ancora in via di metabolizzazione, le ultime riflessioni ci riportano a una dimensione in cui lo spazio espositivo ha definitivamente compiuto quel mutamento che O’Doherty definiva con la formula “the context becomes the content”.
Gene Davis, Micro Paintings exhibition, Fischbach Gallery, New York, 1968
- In “Inside the white cube” O’Doherty parla dei "Micro Paintings" di Gene Davis, opere di circa 5 x 5 cm. Con le loro dimensioni minime mettevano in evidenza il muro su cui erano appese, facendo sembrare lo spazio molto più grande di quanto non fosse anche nella documentazione fotografica.
Lo spazio espositivo, in questa evoluzione naturale, è diventato centrale nel discorso artistico e medium esso stesso.
In quegli stessi anni in cui si va definendo sempre più chiaramente l’uscita del quadro dalla cornice allo spazio (esemplificativa in questo senso è stata la mostra di Monet “Seasons and moments” curata da William C. Seitz), va ovviamente acquistando sempre più importanza la curatela, ovvero l’applicazione di un criterio quanto più scientifico nel definire la relazione che di volta in volta si deve instaurare tra le opere e lo spazio e il rapporto formale e concettuale tra le diverse opere nel contesto di una stessa mostra. Con l’arrivo del Colour field prima e del Minimal poi,le cose si fanno ancora più strutturalmente sottili e interessanti: l’opera attiva in maniera nuova lo spazio, inizia una pratica attiva di coinvolgimento fisico dello spettatore: una relazione tra opera e spazio imprescindibile, ovviamente anche quando la prima deve essere documentata. Ad interessarci però, come dicevo prima, non è il carattere normativo-regolativo dei corpi e del loro movimento che impone lo spazio del white cube; teniamo sempre presente, infatti, che l’installation shot è spesso una scena deserta, raramente abitata da spettatori: è una composizione prospettica il cui unico orizzonte normativo è la composizione dell’immagine.
SX: Oliver Osborne, The Neck, Giò Marconi, 2015 . Dx: Tony Swain, The shorter alphabet, The Modern Institute, Glasgow, 2015
- Due esempi di installation shot in cui notiamo come il centro dell’attenzione non sia l’opera, ma, in ordine di rilevanza: lo spazio espositivo, l’allestimento (il lavoro curatoriale) e infine le opere, in questo caso pittoriche.
A partire dagli anni ‘50 le opere acquistano man mano un peso individuale diverso, necessitano di uno spazio che permetta loro di “respirare”; tutto il contrario, ci ricorda O’Doherty, dei Salòn ottocenteschi in cui decine di opere si accalcavano su una sola parete, ma in cui era sufficiente lo spazio simbolico di una cornice a dividerle e rendere ognuna leggibile e autonoma di per sé. Questo fenomeno si sta però curiosamente ripetendo oggi sulle pareti virtuali di qualsiasi browser internet, navigando sui magazine online di arte o nei siti degli artisti, in cui riusciamo a districarci tra decine di installation shots, immagini di opere e altre pics documentative senza troppa fatica nel leggerle e decifrarle. La cornice bianca del background sembra svolgere una funzione non dissimile da quelle laccate in oro dei Salon.
Ma torniamo a noi: è negli anni ‘60 che nasce ed inizia ad assumere i suoi tratti caratteristici l’installation shot.
Questa pratica fotografica di documentazione delle opere è infatti in origine inscindibile dal white cube, o meglio, da uno spazio di carattere geometrico possibilmente asettico, una cosa che, vedremo meglio, è di fondamentale importanza. Sintetizzando un percorso storico in una breve serie di processi ci troviamo davanti a un’opera che non esiste più nei soli confini della sua cornice: deve essere fotografata nello spazio; ne consegue così -anche per quella pittorica- che assuma un carattere installativo; si rende perciò necessario mostrarne l’allestimento.
L’ oggetto della nostra analisi, come vediamo, va sempre slittando: dall’opera all’immagine dell’opera, da quest’ultima arriviamo poi all’immagine dell’opera nello spazio, ossia l’allestimento: così lo spazio “curato” diventa il soggetto dell’immagine fotografica.
Raccontata così però la situazione appare semplificata e perfino deduttiva: applicare un criterio così generale a ogni singola opera d’arte può sembrare una generalizzazione fuori luogo. Questo però fino a che non teniamo conto del fatto che il contesto entro cui tutte queste diverse opere vengono fotografate si è uniformato: la scatola prospettica del white cube e lo sguardo della macchina fotografica sono gli elementi costanti della nostra equazione.
Qui non parliamo però di una storia delle opere, ma di una possibile storia della loro documentazione espostiva e di quegli elementi che sono alla base di questa materia specifica: inquadratura, luce, spazio, composizione e infine opera. È proprio da questa somma di elementi che possiamo provare (proprio grazie alla loro costante presenza) a trarre delle riflessioni legate alla definizione di un canone, ossia di una serie di costanti che hanno fatto sì che questo linguaggio si rendesse autonomo rispetto al suo presunto referente iniziale: l’opera d’arte.
Un fattore principale di questa analisi è chiaramente la costruzione storica dello sguardo, ossia il modo in cui il sedimentarsi di approcci alla visione lungo il corso di questi quasi cinquant’anni ha influenzato il nostro modo di leggere l’immagine e il modo in cui la posizione dell’osservatore va tuttora radicalmente mutando.
Coen Vernooij, Dissolving spaces, Probe Project, 2012
- Probe Project è un white cube in miniatura ideato da Suze May Show. Lo spazio misura 1,10 mt in altezza per una superficie complessiva di 6 m2. Nonostante esista realmente lo spazio è destinato alla realizzazione di lavori che sono fruibili esclusivamente attraverso la documentazione fotografica presente online.
Nel corso degli ultimi dieci anni almeno è avvenuta un’evoluzione strutturale dell’idea di spettatorialità, si è, in altre parole, evoluto il ruolo dell’osservatore, soprattutto per quanto riguarda la fruizione attraverso la rete. Ma in che modo sta variando la nostra posizione in questi termini?
Principalmente nella capacità di assemblare, assimilare e comprendere un linguaggio visivo sempre più astratto e sempre più distante da un substrato mimetico che è invece proprio della fotografia e di altri mezzi di origine analogica di riproduzione della realtà. In questi ultimi, infatti, un requisito imprescindibile è che vi sia un soggetto sito in una determinata posizione spaziale all’interno, o prossima, alla scena che si fotografa; in mezzi di rappresentazione come il texture mapping o le immagini ottenute per risonanza magnetica, per fare due esempi, viene invece meno la corrispondenza con le lunghezze d’onda ottiche dello spettro e soprattutto, per ciò che ci interessa, un punto di vista posizionato in un punto reale, fisso o mobile che sia, definito nello spazio. Per quanto riguarda il nostro ambito però, possiamo dire di essere quanto mai lontani da un’immagine di questo genere, che richieda codici di lettura specialistici e uno spettatore astratto che legge l’immagine più che osservarla. Se infatti è cambiato attraverso internet il modo in cui possiamo gestire più dati e immagini simultaneamente, l’installation shot risponde a criteri ben diversi, è radicato in un linguaggio fotografico che fa della prospettiva più classica il suo punto cardine.
La prospettiva permette infatti di realizzare un’immagine leggibile universalmente, dal momento che il punto di osservazione che assume dev’essere verosimilmente tarato su un ipotetico spettatore situato in un punto preciso dello spazio. Paradossalmente, questo specifico genere di immagini, così come lo spazio scenico del white cube, sono associabili a un contesto storico
più prossimo ad altri secoli che non ai giorni nostri.
Nei suoi scritti frammentari Walter Benjamin individuava un osservatore moderno mobile e itinerante, modellato dalla convergenza di nuovi spazi urbani e nuove tecnologie, nuove funzioni simboliche ed economiche delle immagini e dei prodotti, immerso in una percezione temporale e cinetica che annullava la possibilità di un’osservazione contemplativa. La quantità di esperienze percettive di cui godiamo oggi è decisamente più ampia rispetto a quella appena descritta, eppure nel documentare gli oggetti artistici, che dovrebbero a loro volta richiedere una fruizione visiva complessa, ci serviamo di un sistema di riferimento che parla a un osservatore non radicato in un tempo storico preciso.
La prospettiva tende a staticizzare la visione, imponendo un solo punto di osservazione e la riproduzione meccanica della fotografia tende a trasformare lo spazio in una figura stereometrica elementare, allontanando l’osservatore da quella combinazione complessa di elementi e stimoli che Benjamin menziona come parte integrante della frammentazione dello sguardo.
L’installation shot e la dimensione del white cube ci appaiono così idealmente atemporali e immuni alle dinamiche storiche e sociali. Sono uno spazio contemplativo. In maniera intuitiva O’Doherty, menzionando rapidamente l’installation shot nel suo saggio del 1976, parlava dell’occhio (fotografico) come dell’unico abitante dell’installation shot sterilizzato, privo di riferimenti metrici dimensionali; un occhio che a ben vedere osserva uno spazio astratto, una proiezione.
Questa tecnica si é mantenuta perfettamente intatta fino ad oggi: cosa assai strana visti i mutamenti che hanno caratterizzato sia l’idea di oggetto artistico che le tecnologie e i sistemi di rappresentazione visiva. Proprio per questo ho finora parlato di un canone inconsapevole le cui radici si trovano nella prospettiva rinascimentale e in parte nella geometria descrittiva settecentesca. Tra le costanti che si sono mantenute troviamo quelle più evidenti: la necessità di mostrare lo spazio allestito e la disposizione dei lavori, ma anche quelle di carattere strutturale, che modellano però in maniera sostanziale questa pratica.
Queste sono ad esempio la necessità di fotografare in maniera scenica lo spazio (con l’utilizzo di obiettivi grandangolari che ne magnifichino le dimensioni), l’utilizzo di luci artificiali bianche uniformi (quasi annullando il punto di diffusione “proprio”), il punto di vista spesso ribassato, a creare una dilatazione spaziale maggiore e un insieme di ampio respiro. Vediamo così che l’installation shot è più tarato sulle necessità di definizione di uno spazio/superficie ideale (del white cube, ovviamente) che su quelle dell’opera.
Il linguaggio di cui si serve il fotografo, dunque, è funzionale alla rappresentazione stereometrica: le opere vengono ricomprese in una visione prospettica classica, umanistica, che riporta il linguaggio su un piano scenico e teatrale, arrivando a una divisione quasi sei/settecentesca tra lo spazio rappresentato e il soggetto della percezione. In questo senso l’opera d’arte rappresentata nel suo spazio espositivo è come sospesa in una dimensione potenziale, lo spazio prospettico fotografico non fa che enunciare, dettare le premesse di come questa debba manifestarsi all’occhio.
Questi stessi enunciati strutturali sono presenze fondanti e costanti nel lavoro di Giulio Paolini, in cui la presenza scenica dell’opera è concepita come proiezione geometrica prima ancora di farsi proiezione spaziale e poi fotografica.
Giulio Paolini, Contemplator enim (particolare), 1992
Lo spazio contemplativo del white cube, con la sua pretesa immunità alle dinamiche storiche e sociali, unito alla fotografia scenica, ci appare come uno spazio prossimo a una camera oscura - in cui riscontriamo una contrapposizione binaria tra mondo e soggetto della percezione - più che al mondo novecentesco descritto in precedenza da Benjamin.
Il soggetto della percezione è così separato dal suo oggetto, nel nostro caso attraverso l’utilizzo di un linguaggio fotografico ben delineato e della sua pretesa identificazione con lo sguardo attraverso l’uso di certi tempi di esposizione e apertura dell’otturatore. Tutte queste caratteristiche fanno parte di quel canone che rende l’installation shot un linguaggio ormai svincolato dal suo referente originario, l’opera d’arte; le regole costruttive di queste immagini sceniche costituiscono oggi un discorso autonomo, che negli ultimi anni è stato portato verso esiti estremi, nel passaggio definitivo da documentazione a opera.
La dimensione virtuale negli ultimi dieci anni si è fatta sempre più importante, soprattutto dal momento in cui la circolazione di immagini di mostre si è fatta più massiccia con l’avvento di internet e della fotografia digitale.
Si sono creati così contesti in cui lo sguardo virtuale e stereometrico viene messo alla prova: sopra tutti lo schermo del computer, in cui l’insieme d’immagini riproduce quell’effetto di affollamento già menzionato della parete ottocentesca; lo schermo stesso e le sue modalità di fruizione sono al centro di approcci ed esperimenti di vario genere. In risposta al proliferare di fotografie di opere sono da prendere in considerazione le sperimentazioni proposte da quell’etichetta conosciuta come Post-internet, che ci interessa almeno sinteticamente analizzare per capire come la concezione del rapporto tra opera, spazio e fotografia stia mutando. Questo clima artistico (non ci sono i presupposti di unità di intenti e interessi per definirlo un movimento) si è confrontato con il problema della documentazione dell’opera d’arte e della sua diffusione, nonché conla circolazione in rete di queste immagini e la loro fruizione da parte degli spettatori online.
Gli esperimenti sono e sono stati diversi, ricorrenti sono ad esempio opere che vengono realizzate esclusivamente per la loro documentazione fotografica e l’utilizzo del white cube come medium legittimante, nelle vesti di sfondo fotografico onnipresente. Con il Post-internet l’attenzione si sposta completamente sulla fotografia dell’opera, che in molti casi è fruibile solo online, attraverso lo schermo. Sono stati realizzati a questo proposito esperimenti di mostre concepite per spazi virtuali con opere inviate in formato jpg dagli artisti e incollate dal curatore/organizzatore sul background costituito dallo spazio della galleria con Photoshop, come nell’ormai famoso esempio di “An immaterial survey of our peers”, mostra ideata e curata da Brad Troemel nel 2010.
Ci sono alcuni elementi fondamentali che dobbiamo prendere in relazione nel nostro percorso di trasformazione e autonomizzazione del linguaggio dell’installation shot: questi artisti, pur volendo affrontare e problematizzare la fruizione dell’opera con un linguaggio nuovo e nuovi riferimenti spaziali, non sono riusciti a proporre una nuova concezione di spazio della rappresentazione, ripiegando così sulla prospettiva o al massimo su un gioco di relazioni tra spazio bidimensionale e tridimensionale o un appiattimento dell’immagine ricco di post-produzioni o citazioni da tecnologie primitive.
È significativo il fatto che, dovendo creare spazi virtuali, lo abbiano fatto ricalcando le fughe prospettiche di fotografie di gallerie reali, o creando oggetti bidimensionali fotografandoli su spazi tridimensionali, come a imitare l’effetto di illusione di un desktop.
Brad Troemel, An immaterial survey of our peers, 2010
Alcune delle intuizioni introdotte nel contesto del Post-internet sono significative: ci sono stati infatti, in questo clima, artisti che si sono resi conto del mutamento che è avvenuto, ossia quel passaggio gerarchico in cui lo spazio è diventato più importante dell’opera, e in cui poi l’immagine fotografica è divenuta a sua volta più importante dello spazio stesso.
Ciò che è stato problematico, in questi esperimenti, è però il fatto che questi artisti non riescano a proporre un nuovo sistema di fruizione dell’opera, o un nuovo modello di spazio dell’opera, svincolato dai legami umanistici della prospettiva e dall’asetticità del white cube.
Come osserva in merito Brian Droitcour su Art in America (“The perils of post-internet art”), niente di prossimo a una critica del white cube o della circolazione di immagini di mostre sta avvenendo; si tratta semplicemente di servirsi del prestigio di questo contesto per produrre immagini che sono più prossime a un patinato merchandising visivo che a un oggetto d’arte.
Quello che è avvenuto in questi anni è stato un salto semantico decisivo legato alla circolazione dell’immagine fotografica dell’opera nel white cube, in cui l’installation shot, in quanto linguaggio autonomo, è diventato legittimante al pari dello spazio espositivo. Fotografare uno scenario architettonico applicando i canoni dell’installation shot, replicando le sue norme fotografiche e regole compositive, è sufficiente a farci leggere lo spazio in un certo modo, ossia come un contesto artistico: l’etichetta fotografica, grazie alla fruizione online, non ha più obblighi nei confronti dello spazio reale, è autonoma.
Questa legittimazione migrata dallo spazio espositivo allo stile fotografico è oggi talmente forte da non dover più prescindere dalla spazialità del white cube, e questo è un elemento che con il Post-internet è stato sottovalutato, spostando il discorso su un piano virtuale, ma senza poi risolvere il problema dell’impostazione classica della documentazione né concretamente la presentazione dei lavori dal vivo in maniera convincente.
La legittimazione, la normativa che ci permette di leggere l’immagine come artistica, sta transitando dai canoni spaziali del white cube a quelli di un linguaggio fotografico basato su convenzioni prospettiche classiche, su regole formali e compositive che prescindono completamente dalla natura degli oggetti distribuiti nello spazio.
E’ solo oggi, dal momento che questo linguaggio fotografico si è emancipato anche dal setting estetico del white cube, che si apre finalmente a nuove possibilità di indagine e sperimentazioni. Senza necessariamente abbandonare i metodi fotografici classici, ma adeguandoli a contesti concettualmente complessi, è possibile impiegare l’installation shot come mezzo critico che favorisca lo sviluppo di una problematizzazione e un possibile rinnovamento del rapporto tra l’opera d’arte e il suo spazio.
Di conseguenza, insieme alla documentazione, è necessario ripensare questo rapporto, porsi il problema di quale sia lo spazio dell’opera, quali i suoi requisiti formali e concettuali. Questo canone fotografico può così essere trasposto in scenari morfologicamente e concettualmente più complessi, al fine di instaurare un nuovo rapporto con l’originario oggetto della rappresentazione, ovvero l’opera d’arte.