Montecristo Project (Enrico Piras, Alessandro Sau)
in dialogo con Raffaele Alberto Ventura
Montecristo Project: Intervistare un filosofo sull'arte, sul mercato dell'arte e sull'industria culturale ha sicuramente un pregio essenziale: la possibilità per il filosofo di poter essere sincero. Un filosofo non ha nulla da perdere nel manifestare apertamente la sua opinione sul mondo dell'arte, mentre spesso un curatore o un critico d'arte devono badare anche agli interessi del loro piccolo orticello, e menzogne più o meno grandi rientrano dunque nel gioco della promozione artistica per il puro guadagno.
Dobbiamo dire però che anche nel campo filosofico hai personalmente dimostrato di non avere molti 'peli sulla lingua' e di dire liberamente quello che pensi. Il testo su Diego Fusaro è uno di questi. L'analisi è molto lucida e coerente, sobbarcandoti il rischio di passare pure per 'rosicone'.
Per pura curiosità, Fusaro ti ha mai risposto? Ci sarebbe piaciuto leggere una sua risposta.
Raffaele Alberto Ventura: Fusaro non mi ha mai risposto: ovviamente mi sarei divertito a leggere la sua risposta, ma non ho mai creduto che lo avrebbe fatto. In passato si è preso la briga di rispondere a una pornostar che lo attaccava dalle pagine di Micromega o a siti di sinistra che lo accusavano di essere fascista, perché l'importazione delle accuse (abbastanza superficiale) era tale che lui poteva trarne vantaggio: la pornostar era
un simbolo dell'occidente decadente, l'antifascista un utile idiota del capitalismo, eccetera... Io di che cosa sono simbolo? Sicuramente né del potere accademico, né della decadenza dell'Occidente né dell'intellighenzia di sinistra.
Nel caso del mio articolo, che smonta il suo metodo e la sua ideologia raffazzonata, Fusaro non avrebbe tratto assolutamente nessun vantaggio a dargli visibilità e non avrebbe nessun solido argomento da opporre. Il gioco non vale la candela. Da questo punto di vista è stato furbo, anche se comunque ha circolato tantissimo.
MP: Un’altra cosa che ci ha colpito leggendo i tuoi testi, è l’assoluta lucidità nel valutare la realtà che ci circonda, soprattutto quella culturale. In una situazione in cui tutti sponsorizzano il proprio lavoro e la propria genialità anche quando mancano quasi vergognosamente le reali capacità nei tuoi testi sei sempre molto misurato, soprattutto quando parli di te stesso ed il tuo lavoro. Ti poni tra coloro che scrivono i libri per quei pochi amici che li leggeranno, in fondo alla ‘coda lunga’ del selfpublishing. Più che un’ammissione di falsa modestia, le tue mi sembrano le parole di chi comprende quello
che sta succedendo e sa perfettamente qual’è il valore del proprio lavoro. Dietro un’apparente arrendevolezza destinale per cui ‘le cose purtroppo vanno così’, si percepisce la consapevolezza di chi sa di esistere e di significare al di là di qualsiasi casa editrice. Questa è l’idea che ci siamo fatti. Ora siamo sicuri che ci dirai che non è così.
RAV: Personalmente non scriverei se non avessi qualcosa da dire e se non pensassi che quello che scrivo possa interessare qualcuno. Ma nello stesso tempo nel giudicare il proprio lavoro è impossibile essere lucidi e per questo normalmente esistono meccanismi di feedback che permettono di "valorizzare" la produzione artistica e intellettuale: l'università, il mercato, l'editoria, il sistema delle gallerie, il museo, eccetera. Sono meccanismi nei quali, probabilmente per ingenuità, non ho mai provato a inserirmi. In sostanza queste istituzioni permettono di attribuire un certo "valore di scambio", socialmente condiviso, alle produzioni e ai produttori. Oggi anche la rete fornisce un feedback, produce valore, ma è un valore inflazionato che risulta difficile scambiare sugli altri mercati.
In un certo senso la reputazione sul web è come la moneta del Monopoli e vale solo mentre giochi a Monopoli. Se provi a pagare il pane con la moneta del Monopoli, il resto del mondo riderà di te. Ma se ci pensi, vivere dentro a una partita di Monopoli non è poi così male. È uno spazio di libertà.
MP: Ti abbiamo chiesto, e siamo ben felici che tu abbia accettato, di portare il tuo saggio breve 'L'invenzione dello spazio pubblico' al Festival Letterario di Gavoi; è un saggio capace di delineare in maniera precisa e sostanziale alcuni elementi teorici che sono stati alla base del progetto Occhio Riflesso. Nel testo vengono messi in luce due elementi molto importanti su cui riflettere: da una parte poni il problema dell’artisticità dell'opera d'arte: a prescindere o in concomitanza con un pubblico legittimante il valore stesso dell’arte, dall'altra poni la questione politica di questo stesso pubblico e dei suoi spazi (museo, galleria etc.), creati appunto in vista di una conservazione-celebrazione sociale dei valori dell’arte. Quali pensi possano essere i punti in comune tra il tuo saggio ed il progetto Occhio Riflesso e quali gli elementi di riflessione?
RAV: A me pare che gli artisti contemporanei vivano con crescente disagio la loro condizione di dipendenza dai due sistemi di valorizzazione e che tra loro interagiscono: le istituzioni pubbliche da una parte e il mercato, con le sue derive speculative, dall'altra. Se escludiamo gli artisti "outsider" che si pongono completamente fuori da questa logica, artisti (da Henry Darger ad Achilles Rizzoli) che peraltro stanno godendo negli ultimi anni di una grandissima visibilità e quindi sono in qualche modo "recuperati" post mortem, agli artisti che lavorano dentro al sistema dell'arte contemporanea non resta altro che aggirare, provocare, scherzare, mettere a distanza questa condizione paradossale.
Mettere "en abyme", come si dice, cioè collocare l'opera in una cornice nella cornice, o appunto nasconderla in uno specchio, presentarla come riflesso di un'altra opera che non c'è. A me pare che il vostro lavoro esibisca in modo molto chiaro questa contraddizione e che tenti di proporne una sorta di risoluzione ispirandosi alla tradizione della performance.
Quindi da una parte (nella grotta, nel bunker...) c'è l'opera, anzi prima ancora dell'opera il lavoro degli artisti, che non sono nemmeno ancora necessariamente "artisti" poiché a questo stadio non avviene nessuna legittimazione o valorizzazione; e poi dall'altra (nella galleria o nel museo) il suo riflesso, ovvero la traccia che si sedimenta, che viene vista e condivisa, alla quale si da un valore, sulla quale si produce poi un discorso istituzionale. Nel mio saggio analizzo il modo in cui storicamente si sono costruite le condizioni sociali, politiche, giuridiche, economiche e infine estetiche perché si possa parlare di un'opera d'arte, e mi pare che "Occhio riflesso" sia anche un tentativo di evocare qualcosa che precede questa costruzione sociale, questo processo di stratificazione.
MP: Nel tuo saggio ‘Teoria della classe disagiata’ (in vendita come ebook su Amazon a 1,11 €, invitiamo naturalmente tutti i lettori ad acquistare il libro) affermi che la critica del capitalismo e dell’industrialismo formulata dai ribelli del Sessantotto (che sul piano teorico comprende la schiera di mostri sacri del pensiero, quali Bataille, Marcuse, Lacan, poi Foucault, Deleuze, Guattarì ed altri, tutti accomunati dall’inneggiare al desiderio come forza liberatrice), è stata oggi riassorbita dal capitalismo sopratutto nelle sue istanze edonistiche e contestatarie.
RAV: È una cosa sulla quale mi soffermo perché permette di analizzare le origini culturali dello sfasamento tra processi di accumulazione e di consumo del capitale nel quale si manifesta la crisi delle socialdemocrazie occidentali. Il rivoluzionario è semplicemente un consumatore radicale al cuore di un sistema che ha bisogno di consumare risorse a un ritmo sempre più elevato per impedire che il meccanismo s'inceppi. Credo che il primo a parlarne in modo chiaro ed esplicito sia stato Michel Houellebecq nei suoi romanzi alla fine degli anni Novanta. Ma ora che la "critica del Sessantotto" è diventata una nuova moda e che ne parla persino Fusaro in televisione, senza tuttavia comprenderne le implicazioni, io mi sono un po' stufato.
Certo dobbiamo liberarci dei padri, certo la loro morale pseudorivoluzionaria non svolge nessuna funzione emancipatrice, al contrario, ma nello stesso tempo il nemico da abbattere non sono gli altri: siamo noi stessi, che continuiamo a credere che esiste un modo di uscire dalla crisi (magari col nazionalismo) e realizzare lenostre aspirazioni.
MP: In un tuo intervento online sui recenti fatti di Milano (http://www.prismomag.com/playtheriotnoexpomilano/), affermi in relazione a Debord
ed al Situazionismo che “il linguaggio di quell’avanguardia (Situazionismo) è stato pesantemente recuperato e assimilato nel linguaggio commerciale e pubblicitario. Contemporaneamente tuttavia ha continuato ad abbeverare la controcultura; che a sua volta si appropria dei codici del potere per pervertirli (détournement). Il risultato di questo commercio paradossale è quello di rendere oggi indistinguibile la voce del sistema da quella dei suoi nemici”. Ci dici qualcosa di più su questo punto? Dove si trova oggi l’arte degli ‘Accademici’, qual’è ai nostri giorni l’Art pompier?
RAV: Non ci avevo pensato in questo modo, ma sicuramente il situazionismo oggi è art pompier, il punk è art pompier. Basta vedere certi collage, certe grafiche, certe collezioni di moda che applicano in maniera quasi meccanica gli stilemi estetici di trenta o quarant'anni fa. Ma qui non ti parlo nemmeno del sistema dell'arte contemporanea, dove i linguaggi sono ancora differenti: lì l'art pompier probabilmente, necessariamente, è Marina Abramovic. O in un altro genere Banksy.
Tra l'altro io prima o poi vorrei sapere chi lo finanzia e come guadagna, è davvero un enigma e mi chiedo come riescano a tenere segreta tutta la faccenda.
MP: A proposito di selfpublishing e ‘coda lunga’, anche Occhio Riflesso appartiene a quel mare infinito dell’autoproduzione, la cui competizione, a tuo parere, sembra rappresentare la soglia ultima dell’industria culturale. Così scrivi a tal proposito: “Se oggi le classi medie occidentali passano il tempo a regalarsi i frutti del reciproco ingegno è nel contesto di una competizione per l’inserimento professionale e il posizionamento sociale; competizione
esacerbata dalla minaccia di declassamento che incombe sulla borghesia occidentale e nello stesso tempo è proprio questa competizione a fare da combustibile dell’industria culturale 2.0”. Per chi non ha letto il tuo libro, potresti spiegare cosa intendi con queste parole?
RAV: Ispirati dagli studi dell'antropologo Marcel Mauss sul dono rituale presso alcune tribù di nativi americani, prima lo scrittore Georges Bataille negli anni Quaranta e poi i situazionisti negli anni Cinquanta proponevano un "modello economico" basata sulla circolazione gratuita delle loro opere, offerte come doni e controdoni.
Da un po' di anni è tornata di moda questa idea di "economia del dono" intesa come alternativa al sistema capitalistico. In realtà oggi l'economia del dono convive perfettamente con il capitalismo: da una parte abbiamo la produzione, la circolazione e lo scambio della maggior parte dei beni e dei servizi in cambio di denaro, dall'altra tutta una serie di beni e servizi (una lettera, una cena, ma anche un articolo o un disegno) che vengono scambiati in forma di dono. L'attività sociale in rete, in particolare, è un continuo scambio di doni. Ma perché regaliamo certe cose che ci costano comunque impegno e fatica? Ci sono innumerevoli ragioni: per fare piacere a qualcuno, per "fare colpo" su qualcun altro, in generale per tessere un legame sociale... Dal quale un giorno forse trarremo qualche controdono: un beneficio umano, culturale, professionale. Nel frattempo, "facciamo girare" una macchina, un'infrastruttura tecnologica, un'economia tenuta in piedi appunto dai nostri scambi.
MP: In un’altro intervento su Alfabeta 2, e siamo nel 2010 (il testo lo si ritrova in ‘Teoria della classe disagiata’), hai affermato in qualche modo l’impossibilità reale di una concreta cultura di opposizione al capitalismo; un'opposizione che possa durare e non venga, se non immediatamente certo successivamente, fagocitata dall’industria culturale. Si tratta di un meccanismo perverso di assimilazione su cui abbiamo riflettuto e poi successivamente sperimentato nella realizzazione, e poi nella divulgazione dello stesso Occhio Riflesso. Questo infatti non è un progetto che vuole contestare specificatamente qualcosa come il white cube o lo status quo dell’arte contemporanea (contestazione che pensiamo peraltro tanto inutile quanto improduttiva), ma è sostanzialmente un ragionamento sulla condizione ontologica dell’opera d’arte, di certo non si tratta di contestazione. Ci siamo però subito resi conto di una cosa: quello che per noi è stata una riflessione sull’opera d’arte, per quanto machiavellica e "concettuosa" la si voglia considerare, per molti è diventata subito protesta, un modo per porsi contro o delegittimare qualcosa: gallerie, istituzioni, sistema dell’arte, white cube etc.. Ed il progetto sotto questa veste di movimento contro, di liberazione da valori antiquati, e dunque in qualche modo reazionario, è stato prima compreso e poi in qualche modo apprezzato.
Secondo te perché tutto ciò che contesta oggi piace di più? Perché l’opposizione, sia essa reale o programmata, è facilmente condivisibile e fa più cool, vendendosi meglio nel mercato?
RAV: Io direi che il linguaggio dell'opposizione (al potere, al capitalismo...) è quello che ci hanno insegnato, e noi ci limitiamo a ripetere la lezione. Siamo cresciuti dentro: è una sorta di "religione civile". Uno schema interpretativo che ritroviamo spesso persino nel cinema hollywoodiano e che ha molte origini. In parte è la sedimentazione della retorica antifascista, che ormai applichiamo a qualsiasi cosa: come noto, in ogni discussione a un certo punto arriva una "reductio ad Hitlerum".
Ma prima ancora è la retorica della Rivoluzione francese, con i suoi miti come la Nazione o la Volontà popolare, che negano la complessità della realtà sociale. Quindi, naturalmente, "vende di più" chi meglio si conforma a questo linguaggio, a questa retorica, che naturalmente non ha come finalità di rovesciare lo status quo ma al contrario di tenerlo in piedi. Alla fine la società finirà per premiare chi riesce nel tour di forcedi maneggiare questa retorica con tanta destrezza da produrre un discorso massimamente radicale con degli effetti massimamente inoffensivi.
MP: Per ritornare al problema arte, ci piacerebbe spostare un po’ la questione su un’altro punto, a nostro parere molto importante. Oggi un artista che lavora in Brasile o in Vietnam produce delle opere che potrebbero esser scambiate e vendute per quelle di un artista che vive e lavora in Inghilterra o in Canada. Nessuno se ne accorgerebbe. La ragione di questo, a nostro parere, va ricercata nelle perdita di una radice antropologica del fare arte. Ci spieghiamo meglio: è scomparsa in sostanza quella tipicità dell'arte che proviene dal senso più intimo e sincero del fare, quello per cui un artista fa rispetto al suo mondo, alla sua realtà, e non rispetto al sistema globale dell'arte. La radice antropologica, quando c'è, ci sembra che compaia più come brand di riconoscimento piuttosto che reale presa di coscienza e riflessione sul mondo. Così per esempio un artista proveniente da qualche paese in via di sviluppo, se vuol avere successo, è meglio che lavori su una immediata riconoscibilità artistica legata alle più trite problematiche mediatiche e di protesta. Per esemplificare, se sei un artista di colore e vivi magari a Londra è consigliabile proporre un lavoro sulla discriminazione razziale, se sei cinese e vivi a New York è forse meglio lavorare o sul passato regime comunista o sull'attuale condizione di schiavitù del lavoro cinese, se sei americano meglio invece la proposta politically correct dell'antiglobalizzazione, l’estetica dei nuovi linguaggi tecnologici, di internet, della sempreverde categoria estetica del kitsch etc. Cosa ne pensi di questa situazione paradossale? Quali pensi siano state le cause?
RAV: Quella radice antropologica di cui parli mi pare che corrisponda alla dimensione vernacolaredifesa da Ivan Illich nei suoi scritti, l’idea che ogni fenomeno economico e tecnico sia anche innanzitutto un fenomeno culturale e che ogni fenomeno culturale sia anche un fenomeno economico e tecnico. Oggi, chiaramente, ricorriamo tutti alle stesse tecniche (ad esempio la macchina fotografica, il fotoritocco, eccetera) e questo crea una certa uniformità culturale, perché lo strumento determina la forma. Ma naturalmente questo non esclude che possano coesistere elementi vernacolari, mescolati ad altri “globali”, e questo può produrre risultati interessanti. D’altra parte non ha senso che l’arte neghi o nasconda la realtà, che finga di rappresentare una diversità che in realtà non c’è. Il problema, come fate notare voi, è semmai che nel mondo dell’arte esiste una specie di “oligopolio” poco permeabile ai cambi di paradigma e che la sua “domanda” tende a canalizzare in maniera molto forte la creazione: ci sono i soggetti alla moda, le
cose da dire o da non dire per sedurre i collezionisti, i galleristi, le istituzioni, eccetera. Ma in fondo è sempre stato così, molte delle grandi rivoluzioni formali del Novecento sono state “calate dall’alto”, sostenute e finanziate da certe élites.
Il problema forse oggi è che il sistema si è burocratizzatosenza tuttavia per questo democratizzarsi. È quindi uno strano miscuglio tra la discrezionalità dei grandi collezionisti alla Pinault, in grado di manipolare a piacimento il sistema dei valori estetici, e la pesantezza di una grande macchina (il “sistema dell’arte”) capace soltanto di riprodurre continuamente le stesse abitudini. Ma questo è vero soprattutto per le grandi istituzioni: a me pare che il sistema dell’arte lasci comunque degli spazi interessanti per la totale anarchia e per scoperte davvero improbabili, nel bene come nel male.
MP: Nel contesto artistico si vanno moltiplicando eventi di carattere riflessivo come talk, seminari, workshop dai titoli arzigogolati (come Questioning the past of tomorrow's yesterday e altri che possono ormai comodamente venire generati automaticamente sul web) che ospitati nel contesto di grandi manifestazioni pubbliche come biennali, triennali etc (finanziate soprattutto da enti privati) si interrogano sulle condizioni attuali del capitalismo, dei sistemi di lavoro, dei metodi di display e presentazione dell' opera d'arte etc etc. Dal tuo punto di vista come leggi questo fenomeno culturale pervasivo?
RAV: Sicuramente nel mondo dell’arte, proprio come nel mondo cosiddetto culturale in generale, c’è tanta chiacchiera priva di senso, tante reputazioni costruite su poca cosa. Nell’arte questo fenomeno è più accentuato ma anche più accettabile, perché una Biennale dal titolo vago ed evocativo in fin dei conti può servire da pretesto per esporre delle opere interessanti. E questo anche se la logica curatoriale appare confusa e l’ambizione filosofica ingenua. Ma è chiaro che risulta rischioso “dare la parola” a chi magari non è preparato su un certo argomento (economico, filosofico, eccetera), perché il dibattito può sfociare nella conversazione da bar o nel puro e semplice dilettantismo. Ma oggi il dilettantismo è ovunque, e spesso convive con il tecnicismo accademico, quindi volendo essere ottimisti direi che il mondo dell’arte offre delle opportunità interessanti — voglio dire dei spazi, delle risorse — per portare avanti dei discorsi “a margine” dei sistemi di valorizzazione dei quali parlavamo sopra. Come anche questo che stiamo facendo ora, che facciamo assieme dialogando tra arte e filosofia.
Montecristo Project (Enrico Piras, Alessandro Sau)
in dialogo con Raffaele Alberto Ventura
Montecristo Project: Intervistare un filosofo sull'arte, sul mercato dell'arte e sull'industria culturale ha sicuramente un pregio essenziale: la possibilità per il filosofo di poter essere sincero. Un filosofo non ha nulla da perdere nel manifestare apertamente la sua opinione sul mondo dell'arte, mentre spesso un curatore o un critico d'arte devono badare anche agli interessi del loro piccolo orticello, e menzogne più o meno grandi rientrano dunque nel gioco della promozione artistica per il puro guadagno.
Dobbiamo dire però che anche nel campo filosofico hai personalmente dimostrato di non avere molti 'peli sulla lingua' e di dire liberamente quello che pensi. Il testo su Diego Fusaro è uno di questi. L'analisi è molto lucida e coerente, sobbarcandoti il rischio di passare pure per 'rosicone'.
Per pura curiosità, Fusaro ti ha mai risposto? Ci sarebbe piaciuto leggere una sua risposta.
Raffaele Alberto Ventura: Fusaro non mi ha mai risposto: ovviamente mi sarei divertito a leggere la sua risposta, ma non ho mai creduto che lo avrebbe fatto. In passato si è preso la briga di rispondere a una pornostar che lo attaccava dalle pagine di Micromega o a siti di sinistra che lo accusavano di essere fascista, perché l'importazione delle accuse (abbastanza superficiale) era tale che lui poteva trarne vantaggio: la pornostar era
un simbolo dell'occidente decadente, l'antifascista un utile idiota del capitalismo, eccetera... Io di che cosa sono simbolo? Sicuramente né del potere accademico, né della decadenza dell'Occidente né dell'intellighenzia di sinistra.
Nel caso del mio articolo, che smonta il suo metodo e la sua ideologia raffazzonata, Fusaro non avrebbe tratto assolutamente nessun vantaggio a dargli visibilità e non avrebbe nessun solido argomento da opporre. Il gioco non vale la candela. Da questo punto di vista è stato furbo, anche se comunque ha circolato tantissimo.
MP: Un’altra cosa che ci ha colpito leggendo i tuoi testi, è l’assoluta lucidità nel valutare la realtà che ci circonda, soprattutto quella culturale. In una situazione in cui tutti sponsorizzano il proprio lavoro e la propria genialità anche quando mancano quasi vergognosamente le reali capacità nei tuoi testi sei sempre molto misurato, soprattutto quando parli di te stesso ed il tuo lavoro. Ti poni tra coloro che scrivono i libri per quei pochi amici che li leggeranno, in fondo alla ‘coda lunga’ del selfpublishing. Più che un’ammissione di falsa modestia, le tue mi sembrano le parole di chi comprende quello
che sta succedendo e sa perfettamente qual’è il valore del proprio lavoro. Dietro un’apparente arrendevolezza destinale per cui ‘le cose purtroppo vanno così’, si percepisce la consapevolezza di chi sa di esistere e di significare al di là di qualsiasi casa editrice. Questa è l’idea che ci siamo fatti. Ora siamo sicuri che ci dirai che non è così.
RAV: Personalmente non scriverei se non avessi qualcosa da dire e se non pensassi che quello che scrivo possa interessare qualcuno. Ma nello stesso tempo nel giudicare il proprio lavoro è impossibile essere lucidi e per questo normalmente esistono meccanismi di feedback che permettono di "valorizzare" la produzione artistica e intellettuale: l'università, il mercato, l'editoria, il sistema delle gallerie, il museo, eccetera. Sono meccanismi nei quali, probabilmente per ingenuità, non ho mai provato a inserirmi. In sostanza queste istituzioni permettono di attribuire un certo "valore di scambio", socialmente condiviso, alle produzioni e ai produttori. Oggi anche la rete fornisce un feedback, produce valore, ma è un valore inflazionato che risulta difficile scambiare sugli altri mercati.
In un certo senso la reputazione sul web è come la moneta del Monopoli e vale solo mentre giochi a Monopoli. Se provi a pagare il pane con la moneta del Monopoli, il resto del mondo riderà di te. Ma se ci pensi, vivere dentro a una partita di Monopoli non è poi così male. È uno spazio di libertà.
MP: Ti abbiamo chiesto, e siamo ben felici che tu abbia accettato, di portare il tuo saggio breve 'L'invenzione dello spazio pubblico' al Festival Letterario di Gavoi; è un saggio capace di delineare in maniera precisa e sostanziale alcuni elementi teorici che sono stati alla base del progetto Occhio Riflesso. Nel testo vengono messi in luce due elementi molto importanti su cui riflettere: da una parte poni il problema dell’artisticità dell'opera d'arte: a prescindere o in concomitanza con un pubblico legittimante il valore stesso dell’arte, dall'altra poni la questione politica di questo stesso pubblico e dei suoi spazi (museo, galleria etc.), creati appunto in vista di una conservazione-celebrazione sociale dei valori dell’arte. Quali pensi possano essere i punti in comune tra il tuo saggio ed il progetto Occhio Riflesso e quali gli elementi di riflessione?
RAV: A me pare che gli artisti contemporanei vivano con crescente disagio la loro condizione di dipendenza dai due sistemi di valorizzazione e che tra loro interagiscono: le istituzioni pubbliche da una parte e il mercato, con le sue derive speculative, dall'altra. Se escludiamo gli artisti "outsider" che si pongono completamente fuori da questa logica, artisti (da Henry Darger ad Achilles Rizzoli) che peraltro stanno godendo negli ultimi anni di una grandissima visibilità e quindi sono in qualche modo "recuperati" post mortem, agli artisti che lavorano dentro al sistema dell'arte contemporanea non resta altro che aggirare, provocare, scherzare, mettere a distanza questa condizione paradossale.
Mettere "en abyme", come si dice, cioè collocare l'opera in una cornice nella cornice, o appunto nasconderla in uno specchio, presentarla come riflesso di un'altra opera che non c'è. A me pare che il vostro lavoro esibisca in modo molto chiaro questa contraddizione e che tenti di proporne una sorta di risoluzione ispirandosi alla tradizione della performance.
Quindi da una parte (nella grotta, nel bunker...) c'è l'opera, anzi prima ancora dell'opera il lavoro degli artisti, che non sono nemmeno ancora necessariamente "artisti" poiché a questo stadio non avviene nessuna legittimazione o valorizzazione; e poi dall'altra (nella galleria o nel museo) il suo riflesso, ovvero la traccia che si sedimenta, che viene vista e condivisa, alla quale si da un valore, sulla quale si produce poi un discorso istituzionale. Nel mio saggio analizzo il modo in cui storicamente si sono costruite le condizioni sociali, politiche, giuridiche, economiche e infine estetiche perché si possa parlare di un'opera d'arte, e mi pare che "Occhio riflesso" sia anche un tentativo di evocare qualcosa che precede questa costruzione sociale, questo processo di stratificazione.
MP: Nel tuo saggio ‘Teoria della classe disagiata’ (in vendita come ebook su Amazon a 1,11 €, invitiamo naturalmente tutti i lettori ad acquistare il libro) affermi che la critica del capitalismo e dell’industrialismo formulata dai ribelli del Sessantotto (che sul piano teorico comprende la schiera di mostri sacri del pensiero, quali Bataille, Marcuse, Lacan, poi Foucault, Deleuze, Guattarì ed altri, tutti accomunati dall’inneggiare al desiderio come forza liberatrice), è stata oggi riassorbita dal capitalismo sopratutto nelle sue istanze edonistiche e contestatarie.
RAV: È una cosa sulla quale mi soffermo perché permette di analizzare le origini culturali dello sfasamento tra processi di accumulazione e di consumo del capitale nel quale si manifesta la crisi delle socialdemocrazie occidentali. Il rivoluzionario è semplicemente un consumatore radicale al cuore di un sistema che ha bisogno di consumare risorse a un ritmo sempre più elevato per impedire che il meccanismo s'inceppi. Credo che il primo a parlarne in modo chiaro ed esplicito sia stato Michel Houellebecq nei suoi romanzi alla fine degli anni Novanta. Ma ora che la "critica del Sessantotto" è diventata una nuova moda e che ne parla persino Fusaro in televisione, senza tuttavia comprenderne le implicazioni, io mi sono un po' stufato.
Certo dobbiamo liberarci dei padri, certo la loro morale pseudorivoluzionaria non svolge nessuna funzione emancipatrice, al contrario, ma nello stesso tempo il nemico da abbattere non sono gli altri: siamo noi stessi, che continuiamo a credere che esiste un modo di uscire dalla crisi (magari col nazionalismo) e realizzare lenostre aspirazioni.
MP: In un tuo intervento online sui recenti fatti di Milano (http://www.prismomag.com/playtheriotnoexpomilano/), affermi in relazione a Debord
ed al Situazionismo che “il linguaggio di quell’avanguardia (Situazionismo) è stato pesantemente recuperato e assimilato nel linguaggio commerciale e pubblicitario. Contemporaneamente tuttavia ha continuato ad abbeverare la controcultura; che a sua volta si appropria dei codici del potere per pervertirli (détournement). Il risultato di questo commercio paradossale è quello di rendere oggi indistinguibile la voce del sistema da quella dei suoi nemici”. Ci dici qualcosa di più su questo punto? Dove si trova oggi l’arte degli ‘Accademici’, qual’è ai nostri giorni l’Art pompier?
RAV: Non ci avevo pensato in questo modo, ma sicuramente il situazionismo oggi è art pompier, il punk è art pompier. Basta vedere certi collage, certe grafiche, certe collezioni di moda che applicano in maniera quasi meccanica gli stilemi estetici di trenta o quarant'anni fa. Ma qui non ti parlo nemmeno del sistema dell'arte contemporanea, dove i linguaggi sono ancora differenti: lì l'art pompier probabilmente, necessariamente, è Marina Abramovic. O in un altro genere Banksy.
Tra l'altro io prima o poi vorrei sapere chi lo finanzia e come guadagna, è davvero un enigma e mi chiedo come riescano a tenere segreta tutta la faccenda.
MP: A proposito di selfpublishing e ‘coda lunga’, anche Occhio Riflesso appartiene a quel mare infinito dell’autoproduzione, la cui competizione, a tuo parere, sembra rappresentare la soglia ultima dell’industria culturale. Così scrivi a tal proposito: “Se oggi le classi medie occidentali passano il tempo a regalarsi i frutti del reciproco ingegno è nel contesto di una competizione per l’inserimento professionale e il posizionamento sociale; competizione
esacerbata dalla minaccia di declassamento che incombe sulla borghesia occidentale e nello stesso tempo è proprio questa competizione a fare da combustibile dell’industria culturale 2.0”. Per chi non ha letto il tuo libro, potresti spiegare cosa intendi con queste parole?
RAV: Ispirati dagli studi dell'antropologo Marcel Mauss sul dono rituale presso alcune tribù di nativi americani, prima lo scrittore Georges Bataille negli anni Quaranta e poi i situazionisti negli anni Cinquanta proponevano un "modello economico" basata sulla circolazione gratuita delle loro opere, offerte come doni e controdoni.
Da un po' di anni è tornata di moda questa idea di "economia del dono" intesa come alternativa al sistema capitalistico. In realtà oggi l'economia del dono convive perfettamente con il capitalismo: da una parte abbiamo la produzione, la circolazione e lo scambio della maggior parte dei beni e dei servizi in cambio di denaro, dall'altra tutta una serie di beni e servizi (una lettera, una cena, ma anche un articolo o un disegno) che vengono scambiati in forma di dono. L'attività sociale in rete, in particolare, è un continuo scambio di doni. Ma perché regaliamo certe cose che ci costano comunque impegno e fatica? Ci sono innumerevoli ragioni: per fare piacere a qualcuno, per "fare colpo" su qualcun altro, in generale per tessere un legame sociale... Dal quale un giorno forse trarremo qualche controdono: un beneficio umano, culturale, professionale. Nel frattempo, "facciamo girare" una macchina, un'infrastruttura tecnologica, un'economia tenuta in piedi appunto dai nostri scambi.
MP: In un’altro intervento su Alfabeta 2, e siamo nel 2010 (il testo lo si ritrova in ‘Teoria della classe disagiata’), hai affermato in qualche modo l’impossibilità reale di una concreta cultura di opposizione al capitalismo; un'opposizione che possa durare e non venga, se non immediatamente certo successivamente, fagocitata dall’industria culturale. Si tratta di un meccanismo perverso di assimilazione su cui abbiamo riflettuto e poi successivamente sperimentato nella realizzazione, e poi nella divulgazione dello stesso Occhio Riflesso. Questo infatti non è un progetto che vuole contestare specificatamente qualcosa come il white cube o lo status quo dell’arte contemporanea (contestazione che pensiamo peraltro tanto inutile quanto improduttiva), ma è sostanzialmente un ragionamento sulla condizione ontologica dell’opera d’arte, di certo non si tratta di contestazione. Ci siamo però subito resi conto di una cosa: quello che per noi è stata una riflessione sull’opera d’arte, per quanto machiavellica e "concettuosa" la si voglia considerare, per molti è diventata subito protesta, un modo per porsi contro o delegittimare qualcosa: gallerie, istituzioni, sistema dell’arte, white cube etc.. Ed il progetto sotto questa veste di movimento contro, di liberazione da valori antiquati, e dunque in qualche modo reazionario, è stato prima compreso e poi in qualche modo apprezzato.
Secondo te perché tutto ciò che contesta oggi piace di più? Perché l’opposizione, sia essa reale o programmata, è facilmente condivisibile e fa più cool, vendendosi meglio nel mercato?
RAV: Io direi che il linguaggio dell'opposizione (al potere, al capitalismo...) è quello che ci hanno insegnato, e noi ci limitiamo a ripetere la lezione. Siamo cresciuti dentro: è una sorta di "religione civile". Uno schema interpretativo che ritroviamo spesso persino nel cinema hollywoodiano e che ha molte origini. In parte è la sedimentazione della retorica antifascista, che ormai applichiamo a qualsiasi cosa: come noto, in ogni discussione a un certo punto arriva una "reductio ad Hitlerum".
Ma prima ancora è la retorica della Rivoluzione francese, con i suoi miti come la Nazione o la Volontà popolare, che negano la complessità della realtà sociale. Quindi, naturalmente, "vende di più" chi meglio si conforma a questo linguaggio, a questa retorica, che naturalmente non ha come finalità di rovesciare lo status quo ma al contrario di tenerlo in piedi. Alla fine la società finirà per premiare chi riesce nel tour di forcedi maneggiare questa retorica con tanta destrezza da produrre un discorso massimamente radicale con degli effetti massimamente inoffensivi.
MP: Per ritornare al problema arte, ci piacerebbe spostare un po’ la questione su un’altro punto, a nostro parere molto importante. Oggi un artista che lavora in Brasile o in Vietnam produce delle opere che potrebbero esser scambiate e vendute per quelle di un artista che vive e lavora in Inghilterra o in Canada. Nessuno se ne accorgerebbe. La ragione di questo, a nostro parere, va ricercata nelle perdita di una radice antropologica del fare arte. Ci spieghiamo meglio: è scomparsa in sostanza quella tipicità dell'arte che proviene dal senso più intimo e sincero del fare, quello per cui un artista fa rispetto al suo mondo, alla sua realtà, e non rispetto al sistema globale dell'arte. La radice antropologica, quando c'è, ci sembra che compaia più come brand di riconoscimento piuttosto che reale presa di coscienza e riflessione sul mondo. Così per esempio un artista proveniente da qualche paese in via di sviluppo, se vuol avere successo, è meglio che lavori su una immediata riconoscibilità artistica legata alle più trite problematiche mediatiche e di protesta. Per esemplificare, se sei un artista di colore e vivi magari a Londra è consigliabile proporre un lavoro sulla discriminazione razziale, se sei cinese e vivi a New York è forse meglio lavorare o sul passato regime comunista o sull'attuale condizione di schiavitù del lavoro cinese, se sei americano meglio invece la proposta politically correct dell'antiglobalizzazione, l’estetica dei nuovi linguaggi tecnologici, di internet, della sempreverde categoria estetica del kitsch etc. Cosa ne pensi di questa situazione paradossale? Quali pensi siano state le cause?
RAV: Quella radice antropologica di cui parli mi pare che corrisponda alla dimensione vernacolaredifesa da Ivan Illich nei suoi scritti, l’idea che ogni fenomeno economico e tecnico sia anche innanzitutto un fenomeno culturale e che ogni fenomeno culturale sia anche un fenomeno economico e tecnico. Oggi, chiaramente, ricorriamo tutti alle stesse tecniche (ad esempio la macchina fotografica, il fotoritocco, eccetera) e questo crea una certa uniformità culturale, perché lo strumento determina la forma. Ma naturalmente questo non esclude che possano coesistere elementi vernacolari, mescolati ad altri “globali”, e questo può produrre risultati interessanti. D’altra parte non ha senso che l’arte neghi o nasconda la realtà, che finga di rappresentare una diversità che in realtà non c’è. Il problema, come fate notare voi, è semmai che nel mondo dell’arte esiste una specie di “oligopolio” poco permeabile ai cambi di paradigma e che la sua “domanda” tende a canalizzare in maniera molto forte la creazione: ci sono i soggetti alla moda, le
cose da dire o da non dire per sedurre i collezionisti, i galleristi, le istituzioni, eccetera. Ma in fondo è sempre stato così, molte delle grandi rivoluzioni formali del Novecento sono state “calate dall’alto”, sostenute e finanziate da certe élites.
Il problema forse oggi è che il sistema si è burocratizzatosenza tuttavia per questo democratizzarsi. È quindi uno strano miscuglio tra la discrezionalità dei grandi collezionisti alla Pinault, in grado di manipolare a piacimento il sistema dei valori estetici, e la pesantezza di una grande macchina (il “sistema dell’arte”) capace soltanto di riprodurre continuamente le stesse abitudini. Ma questo è vero soprattutto per le grandi istituzioni: a me pare che il sistema dell’arte lasci comunque degli spazi interessanti per la totale anarchia e per scoperte davvero improbabili, nel bene come nel male.
MP: Nel contesto artistico si vanno moltiplicando eventi di carattere riflessivo come talk, seminari, workshop dai titoli arzigogolati (come Questioning the past of tomorrow's yesterday e altri che possono ormai comodamente venire generati automaticamente sul web) che ospitati nel contesto di grandi manifestazioni pubbliche come biennali, triennali etc (finanziate soprattutto da enti privati) si interrogano sulle condizioni attuali del capitalismo, dei sistemi di lavoro, dei metodi di display e presentazione dell' opera d'arte etc etc. Dal tuo punto di vista come leggi questo fenomeno culturale pervasivo?
RAV: Sicuramente nel mondo dell’arte, proprio come nel mondo cosiddetto culturale in generale, c’è tanta chiacchiera priva di senso, tante reputazioni costruite su poca cosa. Nell’arte questo fenomeno è più accentuato ma anche più accettabile, perché una Biennale dal titolo vago ed evocativo in fin dei conti può servire da pretesto per esporre delle opere interessanti. E questo anche se la logica curatoriale appare confusa e l’ambizione filosofica ingenua. Ma è chiaro che risulta rischioso “dare la parola” a chi magari non è preparato su un certo argomento (economico, filosofico, eccetera), perché il dibattito può sfociare nella conversazione da bar o nel puro e semplice dilettantismo. Ma oggi il dilettantismo è ovunque, e spesso convive con il tecnicismo accademico, quindi volendo essere ottimisti direi che il mondo dell’arte offre delle opportunità interessanti — voglio dire dei spazi, delle risorse — per portare avanti dei discorsi “a margine” dei sistemi di valorizzazione dei quali parlavamo sopra. Come anche questo che stiamo facendo ora, che facciamo assieme dialogando tra arte e filosofia.