II
La costanza resisteziale
A guide-tour of Sardinian archaic, weird and marvelous stone sculpture (and architecture)
I
Il concetto di costante resistenziale al MAN di Nuoro
Il concetto di “costante resistenziale” è stato teorizzato dall’archeologo Giovanni Lilliu sullo sfondo politico e culturale degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Si tratta di un concetto in cui si ipotizza un carattere unico ed originario del popolo sardo, capace di sopravvivere e di “resistere” immutato a secoli di dominio e colonizzazione straniera. Il museo MAN di Nuoro, con un progetto ideato dall’allora direttore Lorenzo Giusti, ha cercato di comprovare questo assunto teorico prendendo in considerazione cinquant’anni di ricerca artistica in Sardegna (un periodo che va dal 1957 al 2017); il progetto si è svolto nell’arco di tre anni, comprendendo tre momenti espositivi, un catalogo delle mostre con approfondimenti e testi critici. Questa analisi si proponeva di fare il punto sulla produzione artistica in Sardegna dal dopoguerra ad oggi e rilevare se tra tutte le esperienze fosse possibile individuare un’autenticità estetica “resistente” ed autoctona.
Tenendo conto del quadro complessivo, abbiamo visitato ed analizzato attentamente i tre progetti espositivi: la “costante resistenziale”, questo concetto ideale di una forza estetica ricorrente, capace di conservarsi immune ad ogni influenza storico-culturale esterna, ci è sembrato inesistente all’interno di questi tre capitoli espositivi; saremmo semmai spinti a dire il contrario, cioè che queste tre mostre hanno evidenziato come gli artisti sardi abbiano vissuto ed operato nel tentativo di porsi continuamente al passo con le più avanguardistiche ricerche del loro tempo, nel loro specifico evolversi estetico, culturale e politico. L’arte che è stata prodotta in questi ultimi cinquant’anni non ha infatti nulla di spontaneo, originario, primitivo, o appartenente ad un ben identificato ethos sardo; siamo invece di fronte ad un’arte estremamente intellettualizzata che ricerca, nella propria riconoscibilità intellettuale, una adeguata differenziazione da tutto ciò che è invece artigianale, tradizionale, espressione sommersa, connotata psicologicamente e formalmente da una originaria specificità. Una certa autonomia originaria e barbara (nell’accezione anti-classica che Lilliu attribuiva alle produzioni sarde arcaiche) delle forme artistiche, semmai ne volessimo ipotizzare l’esistenza, traspare in maniera episodica, trasversale, indiretta e soltanto per alcuni artisti.
II
Gaetano Brundu
Riteniamo che tra gli artisti sardi solo in pochissimi casi sia possibile rintracciare quella precisa cifra stilistica capace di esprimere in valori formali il concetto di “costante resistenziale’’ caro all’archeologo Lilliu. Nella maggioranza dei casi, l’arte degli ultimi cinquant’anni in Sardegna si è caratterizzata per un continuo sforzo innovativo volto invece ad emulare le più recenti rivoluzioni in campo culturale che nascevano e si sviluppavano nella cosiddetta “penisola’’, cioè in quella parte di terra che, come significa etimologicamente il termine “penisola”, non è più un isola, ma è “quasi” un’ isola (dal lati-no paeninsŭla, paene ‘quasi’ e insŭla ‘isola’). Per la grande maggioranza degli artisti che hanno vissuto e operato in Sardegna il discorso da fare è dunque, a nostro parere, un altro. Bisogna infatti partire dal presupposto che l’arte sarda degli ultimi cinquant’anni non ha nulla di originario, ma è prima di tutto una acquisizione voluta e coscienziosa di un patrimonio di forme artistiche che sono state avvalorate e legittimate da un sistema dell’arte che dagli anni ’50 ha iniziato a formarsi in Italia stabilendo significati e valori del linguaggio dell’arte. Ciò che si potrebbe dire è infatti che gli artisti sardi sono stati subito molto attenti e capaci nel mettersi al passo con i tempi attraverso le prime riviste d’arte a loro disposizione e attraverso continui viaggi e soggiorni nelle capitali dell’arte italiana ed europea. Quello che si viene a creare è allora una strana scissione storico-culturale interna alla nostra isola. Ci troviamo davanti ad un desiderio impellente di confronto con una modernità estetica ricercata e trovata da un gruppo di artisti che si legittimano intellettualmente con forme nuove e avanguardistiche, ma che non ha trovato praticamente nessun rapporto con il tessuto economico-sociale esistente sull’isola. Questo significa che il prodotto culturale dell’arte contemporanea in Sardegna non è un prodotto originario, non lo è per nulla, perché non è mai esistito neppure un tessuto sociale da cui questa novità delle forme potesse prendere avvio.
E’ vero però che la storia dell’arte è piena di casi simili: se il classicismo greco e il rinascimento italiano hanno radici nello stesso tessuto economico-sociale greco ed italiano, non si può dire altrettanto, per esempio, dell’arte romana. Qui le forme artistiche vengono totalmente importate nella loro idealità estetica ed imposte su una società che, sino all’età repubblicana, guardava la stessa concezione di arte con profondo disprezzo e preoccupazione; tale ignoranza o disprezzo non va attribuito unicamente alle classi plebee, ma la stessa nobiltà romana ripudiava le mollezze dell’arte come pericolo per la società.
Se dunque l’arte greca, così come quella rinascimentale, nacque e fu l’espressione di una nuova condizione della società del tempo, quella romana fu invece un fenomeno prevalentemente politico, in cui l’arte poteva essere concepita inizialmente solo sotto forma di bottino di guerra, prova tangibile ed esaltazione simbolica della repubblica romana.
Questo dell’arte romana è un caso di estremo interesse nell’ottica di un confronto con l’arte contemporanea in Sardegna perché in entrambi casi si assiste alla nascita di una nuova cultura estetica che viene importata e poi gradualmente diffusa nel tessuto sociale. C’è naturalmente qui una grossa differenza: nel caso dell’arte romana, si tratta prima di tutto di una necessità sociale di controllo ed articolazione del potere, attraverso l’immagine, da parte di una oligarchia dominante; l’arte viene così formalmente importata con tutte le sue specifiche qualità estetiche (concretizzazione di quel lungo processo di intellettualizzazione del “fare” artistico compiuto dai Greci), ma utilizzata principalmente per finalità politico-propagandistiche. Nel caso dell’arte in Sardegna, invece, siamo davanti ad un processo di diffusione e divulgazione di una nuova concezione dell’arte ricercata e voluta non da un determinata classe o gruppo sociale rintracciabile nel più ampio tessuto economico-politico dell’isola, quanto dalla piccolissima comunità degli artisti indipendenti, che dal dopoguerra in poi hanno potuto usufruire di un trentennio di boom economico a sostegno del proprio riconoscimento sociale ed intellettuale. Siamo quindi di fronte alla necessità di un riconoscimento fortemente voluto da parte di una comunità di artisti che ha ricercato un riscatto profondo rispetto alla società incui essa stessa stava operando e soprattutto rispetto ad una certa tradizione del fare artigianale, profondamente radicata in Sardegna, che ha finito nel tempo per confinare l’artista sardo all’interno del recinto della propria abilità tecnica, escludendolo così da qualsiasi forma di compenso intellettuale e dunque sociale. Artisti come Gaetano Brundu sono a nostro parere il frutto di questa dinamica storica. Brundu, individualmente, nella sua storia di artista, non ha prodotto alcuna opera che possa essere giudicata in qualche modo unica e determinante rispetto allo svolgersi del linguaggio artistico del proprio tempo, ma questo non esclude il suo fondamentale ruolo di artista, specialmente di “artista nell’isola”.
Brundu è stato un artista prima di tutto per il suo ruolo di “catalizzatore intellettuale’’ e per tutto quello che questa sua azione propulsiva ha messo in moto o ha fatto nascere in un’ isola che come la Sardegna, agli inizi degli anni Sessanta, si apriva frettolosamente alla modernità. Egli è stato uno dei più convinti sostenitori di un radicale processo di rinnovamento dell’arte in Sardegna; si è trattato infatti di un faticoso smantellamento di credenze e tradizioni, di una immane rivoluzione verso una nuova concezione dell’arte: il riconoscimento intellettuale del “fare” quale processo prima di tutto ideativo/intellettivo e solo secondariamente manuale/artigianale.
III
Un’arte presa in prestito: l’arte a Roma
Una domanda che a questo punto ci potremmo porre è: cosa accade quando una forma artistica viene “presa in prestito” e poi adattata ad un contesto sociale nuovo o comunque differente da quello da cui ha preso origine? A Roma questo tipo di operazione ebbe diverse conseguenze.
A livello formale, l’arte romana seppe mantenere, con l’aiuto di artisti provenienti da tutto il mondo ellenistico, un alto standard qualitativo, ma non giunse mai a quell’unità assoluta di forma e pensiero che solo la Grecia antica e successivamente il rinascimento riuscirono a compiere. Non giunse mai a quell’arte intesa come ideazione e principio teorico espresso in forma plastica; è per questo che l’arte romana, pur mantenendo un altissimo livello qualitativo della produzione artistico-artigianale, finì per ridurre le forme estetico-conoscitive dell’arte greca ad una mera riformulazione e ripetizione di schemi iconografici. Questa perdita di senso del peculiare significato delle forme estetiche classiche favorì un estremo eclettismo; eclettismo però contraddittorio che arrivava a far convivere forme e motivi stilistici opposti in una stessa opera, secondo esigenze comunicative ed esiti formali che avrebbero fatto impallidire un greco del V secolo.
Ma non è tutto. Il fatto è che la società romana, nella sua prima fase, prima di conquistare l’Italia diventando una potenza militare e politica nel mediterraneo, possedeva una forma di arte primitiva, caratterizzata da immediatezza narrativa ed espressiva, dove il naturalismo figurativo di base si semplificava alla luce di una astrazione tendente alla paratassi delle forme. Si trattava di una forma d’arte primitiva, ma autoctona, patrimonio comune e condiviso con gli altri popoli che abitavano la penisola italica. Questa tradizione artistica, propriamente romano-italica, si mantenne viva nonostante l’acquisizione e l’appropriazione del naturalismo greco da parte dell’oligarchia patrizia dominante; successivamente, nel IV secolo d.C., quando l’impero romano era ormai giunto ad una irreparabile crisi economica, politica e sociale, questa forma d’arte primitiva ed originaria diverrà un elemento di novità e di ripresa artistica, provocando una irreparabile rottura con il naturalismo classico e confluendo poi nella successiva arte medievale. Questa arte “plebea”, così la definisce Ranuccio Bianchi Bandinelli, non è dunque una sottocategoria dell’arte romana, ma è anzi un qualcosa che si trova al di là di ciò che per logica sarebbe limitabile in senso categoriale; è qualcosa di molto difficile da definire, proprio perché non ordinatamente manifesta, ma che rimane per lungo tempo latente nelle forme dell’arte romana, anche in quelle più auliche ed idealizzate. Abbiamo volutamente ripreso e sottolineato questo concetto di “arte plebea” perché sarà proprio questo tema che ci accompagnerà a definire, in fase conclusiva, cosa sia per noi la “costante resistenziale” e se questa sia ancora effettivamente riscontrabile in qualche maniera nell’arte sarda.
IV
Un’arte presa in prestito: il ‘900 in Sardegna
Tornando dunque ancora alla questione di fondo, ci potremmo porre la stessa domanda che ci siamo già posti per l’arte romana: cosa accade quando una forma artistica viene presa in prestito e poi adattata ad un contesto sociale nuovo, diverso da quello originario da cui la stessa forma artistica ha preso origine. Nella precedente analisi abbiamo individuato alcuni elementi importanti e validi per successive valutazioni e comparazioni: innanzitutto un’arte che sebbene raggiunga un alto livello qualitativo, non è mai capace di superare il limite di una eccellente produzione artistico-artigianale. Si è poi parlato di un’arte che ha nell’eclettismo uno dei suoi motivi stilistici più caratteristici ed in ne si è presa ad esempio l’arte plebea, quale forma latente di immediatezza espressiva e narrativa che si pone all’interno dell’arte romana come germe evolutivo che tende all’astrazione e alla semplificazione narrativa delle forme naturalistiche ed idealizzate dell’arte greco-ellenistica.
Le figure chiave che vengono proposte quali capisaldi di un discorso evolutivo delle forme artistiche nel ‘900 in Sardegna non sono tanti. C’è anche una casa editrice, la IIisso, che ha cercato di fare il quadro generale di questa produzione attraverso una serie di monografie degli autori sardi più signi-ficativi, partendo dal primo novecento. Queste monografie raccontano l’arte e la vita di due generazioni di artisti che hanno preceduto quel periodo storico a noi più prossimo e che è stato invece analizzato del progetto teorico e curatoriale della “costante resistenziale” presso il MAN di Nuoro. Potremmo suddividere una prima generazione di artisti sardi moderni composta da: Francesco Ciusa (Nuoro 1883-1949), Giuseppe Biasi (Sassari 1885-1945), Filippo Figari (Caglia-ri 1885 -1973), Mario Delitala (Orani, 1887-1990), Carmelo Floris (Bono 1891-1960), Stanis Dessy (Arzare 1900-1986); ed una seconda generazione composta da Eugenio Tavolara (Sassari 1901-1963), Costantino Nivola (Orani 1911-1988), Mauro Manca (Cagliari 1913-1969), Salvatore Fancello (Dor-gali 1916-1941), Foiso Fois (Iglesias 1916-1984). Abbiamo escluso volutamente da questa lista Mario Sironi (Sassari 1885-1961) ed Aligi Sassu (Milano 1912-2000), perché crediamo che il loro percorso artistico abbia veramente ben poco di “sardo”, se non per il fatto che Aligi Sassu fosse figlio di un sardo emigrato a Milano, e che Sironi fosse nato, per pura casualità, a Sassari.
Esistono naturalmente vari altri autori ma è qui necessario rivolgere la nostra attenzione a coloro che sono stati storicizzati come rappresentanti riconosciuti dell’arte in Sardegna. Lo sforzo e lascito più grande di questa generazione di artisti non poteva essere altro che quello di importare in una Sardegna ancora medievale la novità del progresso, ovvero quegli elementi linguistico-estetici che rappresentavano la modernità. In Sardegna non esistevano infatti le condizioni economico sociali né le premesse storiche per cui si potesse ambire ad un’arte moderna autonoma ed originaria nei suoi fondamenti (in questo senso potremmo dire che autonoma ed originaria è stata senza dubbio l’arte nuragica, non certamente quella moderna). E’ comprensibile allora come questi artisti non potessero andare oltre ad un estremo sforzo di adeguamento intellettuale rispetto a quel tempo storico che percepivano vitale, vibrante e progressivo, e che si svolgeva al di là del mare. La nascita del linguaggio artistico ha a che fare con il principio di imitazione delle immagini; allo stesso modo, imitando dei suoni che in seguito acquisiscono un significato, si apprende il linguaggio verbale. Alcuni degli autori che prendiamo in considerazione sembrano aver perso di vista una loro attitudine originale per abbandonarsi alla marea di linguaggi e tecniche che provenivano da oltremare, senza ritrovare una propria dimensione autentica.
Non essendo questo un romanzo giallo ci sembra naturale e giusto chiarire la nostra opinione: l’arte che inizia nel primo novecento in Sardegna e che ha origine e sviluppo attraverso questi autori,solo in poche ed isolate opere va oltre una pregiata e raffinata produzione artistico-artigianale. Il motivo di questa affermazione si fonda ovviamente su quella che è la nostra concezione dell’arte: noi intendiamo infatti con questo termine una serie di valori legati ad una concezione specifica dell’immagine, conforme nella sua creazione ad aspetti di ricerca intellettivi, emotivi e conoscitivi dell’uomo; per noi l’arte è dunque una forma di conoscenza ed analisi intellettiva del reale attraversol’immagine.
Affermando che l’arte del primo Novecento in Sardegna rimane una elegante produzione artistico-artigianale, non vogliamo distinguere tra artisti intellettuali ed artisti-artigiani. Non intendiamo nemmeno sostenere che questi autori non fossero degli artistio peggio ancora degli incapaci, cattivi pittori o scultori con una falsa coscienza artistica. Questo sarebbe un giudizio affrettato e assolutamente fuorviante, basato su di una semplice ed astratta comparazione delle forme estetiche prodotte, per giunta giudicate a posteriori, senza tenere conto delle condizioni storiche e sociali all’interno delle quali questi autori hanno operato.
Alcuni di questi artisti sono stati autori di opere importanti; riteniamo bellissime e straordinarie molte delle opere di piccolo e grande formato, ad olio o a tempera dipinte da Biasi negli anni tra il 1910 ed il 1920 circa; così come sono straordinarie certe deformazioni della linea e del colore a comporre la gura in alcune opere di Stanis Dessy ; o ancora pensiamo al pittore Foiso Fois, che in qualche suo lavoro più riuscito raggiunge una compattezza cromatica straordinariamente avanti coi tempi,anticipatrice di alcune esperienze pittoriche che oggi stanno riscuotendo un grosso successo commerciale e di critica (vedi per esempio la stesura pittorica di David Hockney). Che questi artisti non siano stati però capaci di andare oltre un semplice accodamento formale rispetto all’esperienze d’arte del loro tempo a cui, in qualche modo, cercavano di mettersi alla pari, è evidente da molti aspetti; forse l’elemento più indicativo è quello che si può cogliere da un'analisi che si focalizza non tanto sulle singole opere (alcune, va detto, sono di grande qualità e dimostrano una alta padronanza del mestiere), quanto sul percorso creativo generale di questi artisti. In nessuno di essi esiste infatti una ricerca che rimanga coerente nell’operare o che nell’incoerenza disveli una ricerca permeata da un motivo concettuale in evoluzione. Si salta di continuo di palo infrasca, si abbandona uno stile e poi se ne prendeun’altro, magari per poi lasciarlo nuovamente, e siva avanti per incertezze, in un linguaggio che non pone mai le basi su cui costruire quell’evoluzione naturale del fare artistico soggettivo. Si tratta di per-corsi incerti, in cui spesso si coglie la citazione ed il ripensamento stilistico.
C’è in questo un’indecisione intellettuale che impaccia ogni tentativo di una reale autonomia artistica. La storia di molti degli artisti della prima metà del novecento sardo è caratterizzata dall’eclettismo; questo in sé non comporta alcun valore negativo, ma se il linguaggio preso in prestito sostituisce unlinguaggio personale che non è radicato profondamente, non si giunge mai a quell’originarietà e forza dell’immagine che è tipica dei grandi artisti.
In questo senso la gura di Biasi è emblematica: le sue opere migliori si collocano durante la sua giovinezza artistica, le meno riuscite durante quella che dovrebbe essere la sua maturità. Biasi, che è stato forse uno degli artisti sardi più dotati, mostra un eclettismo estremo lungo tutto il suo percorso artistico. Questo discorso naturalmente non è valido solo per Biasi, ma per la maggior parte degli artisti sardi che stiamo prendendo in considerazione. Se per Biasi possiamo infatti parlare di almeno due stili totalmente dissimili in uno stesso percorso artistico, per Mauro Manca potremmo parlare di almeno cinque o sei stili differenti, che non sembrano mai arrivare ad una dimensione personale compiuta. La storica dell’arte Giuliana Altea, nella prefazione al suo catalogo monografico su Manca lo introduce così: “Inserito sin dallo scorcio degli anni Trenta in una situazione operativa ricca di fermento come quella romana, volge incessantemente il suo spirito nomade verso tutto ciò che reca il segno del tumulto e dell ́inquietudine esistenziale: dalla pittura sfocata e nervosa di Scipione e di Mafai a quella carica di umori sociali del neocubismo, dal mediterraneismo di segno picassiano all ́informale materico. A guidare l ́artista in questi vagabondaggi figurativi è un atteggiamento raffinatamente manieristico: la sua pittura, sorta nella forte consapevolezza intellettuale, si nutre d ́altra pittura, si ciba di tutto ciò in cui sente risuonare il fascino del mito, il mistero del primordiale, dell ́origine”. Il percorso di Manca è, per la sua mutevolezza ed irrequietezza, veramente sbalorditivo. Il suo primo periodo di sperimentazione artistica spinge già verso l’eclettismo più estremo. Questo primo stile sarebbe collocabile tra la scuola romana, Scipione, Mafai, ed una certa arte di chiaro sapore italiano tra Sassu, Sironi, De Pisis, Carrà, Morandi, Campigli ed un De Chirico da cui però è stato totalmente epurato il senso metafisico dell’immagine. Un secondo periodo, compare quando probabilmente egli dovette venire a conoscenza dell’arte di Picasso: ma si tratta anche qui di un innamoramento per le forme Picassiane: in questa fase nascono quadri in cui è riconoscibile un certo equilibrio ed una certa vivacità dei colori, ma non si giunge mai al bilanciamento tra brutalità, classicismo ed invenzione che è caratteristico dell’artista spagnolo. Da qui si passa poi per un breve periodo ad un’emulazione del gruppo COBRA, che l’artista sardo ricompone attraverso un formalismo incerto e troppo composto, ancora fortemente debitore della matrice Picassiana (e siamo così al terzo stile). Successivamente egli compie un vero azzardo estetico: forse è questo quarto periodo il punto in cui si capisce al meglio come i passaggi da uno stile ad un altro fossero in Manca semplici fascinazione estetiche: come tali finirono per ritardare ed impedire la nascita di uno stile definitivo e riconoscibile dell’artista. In questo periodo l’artista parte infatti da una matrice picassiana, che per sua natura è fortemente “realistica” e mantiene un rapporto tra “Io” e “mondo”, sebbene scomposto, ancora integro e fondante per il senso dell’immagine. Da qui Manca riesce con un salto a giungere allo astrattismo lirico (genere di pittura che in Italia ha trovato in Afro Basaldella uno dei più raffinati e ricercati rappresentanti), momento in cui l’astrazione ha ormai perso qualsiasi atteggiamento mimetico con la realtà, e da cui ha inizio quel percorso analitico dell’arte (Filiberto Menna), che vedrà gradualmente la fine del mezzo artistico quale filtro di ricomposizione del reale. Esattamente l’opposto delle premesse picassiane in cui il rapporto tra l’artista e il mondo, per mezzo della rappresentazione, era ancora saldo.
E’ in questo passaggio che si palesa chiaramente come l’artista sassarese sia giunto a certe conclusioni formali solo attraverso una spregiudicatezza estrema nell’appropriazione formale di vari linguaggi artistici; questo però senza appropriarsi del loro senso conoscitivo, abbracciandoli tutti e non approdando ad uno veramente personale. Tuttavia la crisi, in questo rapporto disinvolto tra la propria opera e quella degli altri artisti, avviene in particolare con l’ultimo periodo della produzione dell’artista sardo. La disinvoltura estetica nell’uso dei linguaggi artistici conduce Manca ad un abuso eclettico che sembra contraddire un criterio intellettuale e conoscitivo nella ricerca artistica. In questo ultimo periodo compaiono assieme Burri, Fontana e Capogrossi. E’ evidente come qui l’appropriazione non riesca, Manca si sforza di amalgamare questi influssi tra un opera ed un’altra ma le conclusioni di questi tentativi sono deboli ed incoerenti.
V
La costante resistenziale come sopravvivenza
Come il Rinascimento fu un espressione artistica autonoma, spontanea e originaria di un certo gruppo di città italiane tra il 1400 ed il 1500, così l’arte nuragica lo fu per la Sardegna ed i suoi abitanti (lo stesso modo si può dire per l’arte egizia o quella greca: anch’esse sono nate e si sono sviluppate attraverso un’ autonomia creativa originaria e storicamente fondata). Stiamo parlando di periodi storici e di situazioni economico-sociali diversissime, ma qui quello che ci interessa individuare è un dato essenziale: l’autonomia e l’unicità originaria di queste civiltà artistiche. Non si tratta di prodotti estetici importati da un’altra civiltà, ma dell’evoluzione di un pensiero intellettivo e conoscitivo, capace di esprimersi in determinate forme estetiche che nacquero, si radicarono e si svilupparono dentro in determinate condizioni sociali, economiche e politiche.
Nella sua unicità originaria l’arte nuragica, rispetto al mondo contemporaneo che stiamo analizzando, sprofonda nel passato più remoto: gli archeologi fanno risalire le origini di que-sta civiltà artistica alla piena età del bronzo, 1800 a.C. circa. Ora, alla luce del fatto che Giovanni Lilliu fosse un archeologo, e che la maggior parte dei suoi studi ruotava proprio attorno alla civiltà nuragica, dovremmo iniziare a pensare che la comprensione di una certa idea di “costante resistenziale” sia stata probabilmente male interpretata; e l’idea di mettersi a rintracciare un ethos originario, un elemento resistente ed uni cante le pratiche artistiche espresse dalla cultura visiva novecentesca, è un po’ come mettersi alla ricerca di un ago in un pagliaio e, se anche l’ago ci fosse, non si avrebbe la possibilità di vederlo. Oltretutto l’isola si apriva a un fenomeno globalizzante che rendeva il linguaggio stesso dell’arte soggetto a influenze, mode e tecniche di carattere globale. Quello che Lilliu stava probabilmente cercando di esprimere con il concetto di “costante resistenziale” è forse meglio definibile in un qualcosa che non è ascrivibile unicamente all’esclusività della storia dell’arte. In questo senso il concetto va indagato e compreso attraverso un altro tipo rappresentazione mentale che crediamo le sia simile, seppur in modo non manifesto, ed è quello che Warburg ha tentato di esprimere con il termine tedesco di Nachleben ovvero “sopravvivenza”. Esiste infatti un imprevedibilità non logica delle immagini, per cui esse son capaci di sopravvivere e di tramandarsi oltre quelle logiche studiate ed analizzate dalla storia dell’arte; si tratta di immagini latenti, che sopravvivono nel tempo, pronte a riemergere e nuovamente a scomparire senza però mai estinguersi. Esse sono espressione di una vita sotterranea continua, visibile ed invisibile; in esse c’è una misteriosa “costanza”, una metamorfica “resistenza” dell’immagine che trapassa il tempo storico, la storia dell’arte stessa, e sopravvive nell’uomo, nella sua psiche, nel suo profondo desiderio di espressione, originario ed antecedente la nozione stessa di arte.
L’arte plebea di cui parla Bianchi Bandinelli quando cerca di collocare storicamente quell’inspiegabile mutamento stilistico dell’arte romana, che passa dal naturalismo delle forme all’astrazione brutale ed espressionistica delle stesse, si avvicina molto al concetto warburghiano dell’immagine sopravvivente. La forme “costanti” e “resistenti” non vanno e non possono essere ricercate unicamente nella storia delle forme artistiche; questo sarebbe un errore, e ci condurrebbe verso uno studio sull’im-magine instabile sin dalla sue premesse, in quanto non terrebbe conto del fattore più essenziale, cioè dell’origine antropologica dell’immagine. La professionalizzazione del ruolo dell’artista, così come l’assoluta legislazione della storia dell’arte nel campo dell’immagine e del suo valore-significato, se da una parte ha concesso all’artista un ruolo sociale per una certa straordinarietà riconosciuta (la cosiddetta artisticità), dall’altra ha limitato il campo dell’immagine e della sua creazione all’artista, come se le forme estetiche realmente fondanti dell’uomo fossero prodotte unicamente dagli artisti di professione. Questo naturalmente non è vero, ed è fruttodi una evoluzione storica che si è naturalizzata nel tempo ed accettata oggi come una realtà di fatto; ma che questa sia una verità relativa lo dimostra il fatto stesso che l’uomo ha sentito l’esigenza di fare arte, ovvero di produrre immagini, ancor prima della nascita della più rudimentale specializzazione del lavoro artistico con la figura dell’artista strego-ne. Se, come crediamo, è vera o almeno credibile l’impostazione generale di un origine dell’arte quale “dispendio sacro” (Bataille), allora il filo nascosto di questa “costante resistenziale” non potrà essere ricercato unicamente nelle forme intellettualizzate dell’arte contemporanea, ma la ricerca deve essere estesa molto al di là.
VI
Un fantastico e meraviglioso viaggio nella Sardegna arcaica tra sculture e architetture di pietra
Questo testo si è finora dilungato sulle evoluzioni che hanno caratterizzato la scena dell’arte sarda nel primo novecento e dagli anni ’60, anche perché abbiamo preso come punto di partenza il progetto espositivo (ed editoriale) del MAN. Questa esposizione ha infatti coinvolto in maniera estesa gli artisti (e gli spazi stessi) che hanno occupato istituzioni, gallerie, spazi indipendenti, mostre occasionali, progetti performativi etc; tutti quegli attori che possiamo ascrivere a una forma, anche non del tutto ortodossa, di professionismo artistico; un’élite culturale legata ad una dimensione intellettuale del fare artistico e consapevole dei linguaggi internazionali dell’avanguardia.
Da questo punto di vista il nostro testo vorrebbe riproporre nella Sardegna contemporanea la dicotomia tra arte patrizia, elitaria, globale, “ellenistica” ed arte plebea: arcaica, simbolica, primitiva e “resistente”, cercando punti di contatto ed allargando il campo verso quella produzione artistica di carattere antropologico e popolare, non investigata nel progetto del MAN . Anche in questa separazione è necessario specificare punti di contatto tra i due ambienti: artisti come Nivola e Lai hanno cercato una dimensione popolare ed accessibile del fare artistico (ne è un’altra testimonianza l’opera di Sciola a San Sperate); lo hanno fatto in maniera consapevole e arricchita da esperienze nazionali ed internazionali, come il modernismo internazionale delle opere di respiro pubblico di Nivola o il muralismo messicano nel caso di Sciola. Proprio l’artista di San Sperate, vedremo, rappresenta l’ideale anello di congiunzione tra questi due mondi paralleli dell’arte in Sardegna.
*
Quando parliamo di scultura “popolare” in Sardegna a cosa, esattamente, ci riferiamo? La possiamo considerare, rispetto alla produzione artistica “elevata”, una forma di costante resistenziale? Nel compiere il nostro viaggio fotografico per la Sardegna alla ricerca di forme di scultura popolare, abbiamo operato una selezione arbitraria, escludendo tutta quella produzione artigianale connotata da correnti, mode, tendenze ben precise che non si ispirano a modelli di avanguardia, ma si presentano sotto forma di so sticazioni intellettuali del primitivo o semplici immagini folcloristiche prive di qualsiasi interesse al di fuori del campo del kitsch. Mamuthones, bronzetti nuragici, o ancora il primitivismo di Arturo Martini, Manzù o Marino Marini sono le fonti di questo lone che abbiamo deciso di escludere dal momento che queste forme popolari non hanno nulla a che vedere con la nostra idea di costante resistenziale, ma sono prestiti consapevoli ed auto-esotizzanti di un repertorio poco più che turistico. Al contrario il primitivo, la non-cultura, per tornare al Bandinelli di “Roma”, non hanno data, sono forme eterne. L’immaginario auto-esotico, pseudo-tradizionale non va confuso con queste forme originarie che sono oggetto della nostra indagine: figurazioni sempre al limite dell’assurdo, immagini anomale che talvolta si rapportano al folclore, ma sempre mantenendo una distanza formale, una certa incongruenza estetica. Ciò che Lilliu voleva esprimere con questo concetto è più facilmente definibile in qualcosa che va oltre la sola storia dell’arte. In questo senso il con- cetto va indagato e compreso attraverso la “sopravvivenza” Warburghiana. Se esiste infatti una imprevedibilità delle immagini, per cui esse son capaci di sopravvivere e di tramandarsi oltre le lo- giche studiate ed analizzate dalla storia dell’arte, non si tratta di presenze consapevoli, ma di forme latenti, che sopravvivono nel tempo, pronte a rie- mergere e nuovamente a scomparire senza però mai estinguersi. Queste sono espressione di una vita sotterranea continua, visibile ed invisibile; in loro c’è una misteriosa “costanza”, una metamorfica “resistenza” dell’immagine che trapassa il tempo storico, la storia dell’arte stessa, e sopravvive nell’uomo, nella sua psiche, nel suo desiderio di espressione, originario ed antecedente la nozione stessa di arte. Come forma che precede l’idea stessa di arte, la scultura “popolare” in Sardegna è ovunque: si incontra nelle piazze, nelle rotonde, a ornamento delle abitazioni o nei giardini; nella gran parte dei casi queste immagini non vengono firmate, spesso non nascono come opere, ma rispondono ad esigenze più spontanee, pratiche o puramente ornamentali, quando non siamo nel contesto della statuaria monumentale. Il numero di queste opere è veramente eccezionale, in ogni paese della Sardegna sembra operare o aver operato almeno uno scultore, un autore di opere che hanno tutte qualcosa in comune: un tratto anticlassico e protostorico dell’immagine. Questo fenomeno, che va nord al sud dell’isola, non è finora stato oggetto di indagine; è come se questo mondo di figure che ricopre l’isola (e probabilmente non ha eguali in nessuna regione europea) non fosse mai stato notato o preso in considerazione. Il nostro viaggio alla scoperta della meravigliosa, strana, arcaica scultura sarda nasce come indagine fotografica su questo tema.
II
La costanza resisteziale
A guide-tour of Sardinian archaic, weird and marvelous stone sculpture (and architecture)
I
Il concetto di costante resistenziale al MAN di Nuoro
Il concetto di “costante resistenziale” è stato teorizzato dall’archeologo Giovanni Lilliu sullo sfondo politico e culturale degli anni Sessanta e i primi anni Settanta. Si tratta di un concetto in cui si ipotizza un carattere unico ed originario del popolo sardo, capace di sopravvivere e di “resistere” immutato a secoli di dominio e colonizzazione straniera. Il museo MAN di Nuoro, con un progetto ideato dall’allora direttore Lorenzo Giusti, ha cercato di comprovare questo assunto teorico prendendo in considerazione cinquant’anni di ricerca artistica in Sardegna (un periodo che va dal 1957 al 2017); il progetto si è svolto nell’arco di tre anni, comprendendo tre momenti espositivi, un catalogo delle mostre con approfondimenti e testi critici. Questa analisi si proponeva di fare il punto sulla produzione artistica in Sardegna dal dopoguerra ad oggi e rilevare se tra tutte le esperienze fosse possibile individuare un’autenticità estetica “resistente” ed autoctona.
Tenendo conto del quadro complessivo, abbiamo visitato ed analizzato attentamente i tre progetti espositivi: la “costante resistenziale”, questo concetto ideale di una forza estetica ricorrente, capace di conservarsi immune ad ogni influenza storico-culturale esterna, ci è sembrato inesistente all’interno di questi tre capitoli espositivi; saremmo semmai spinti a dire il contrario, cioè che queste tre mostre hanno evidenziato come gli artisti sardi abbiano vissuto ed operato nel tentativo di porsi continuamente al passo con le più avanguardistiche ricerche del loro tempo, nel loro specifico evolversi estetico, culturale e politico. L’arte che è stata prodotta in questi ultimi cinquant’anni non ha infatti nulla di spontaneo, originario, primitivo, o appartenente ad un ben identificato ethos sardo; siamo invece di fronte ad un’arte estremamente intellettualizzata che ricerca, nella propria riconoscibilità intellettuale, una adeguata differenziazione da tutto ciò che è invece artigianale, tradizionale, espressione sommersa, connotata psicologicamente e formalmente da una originaria specificità. Una certa autonomia originaria e barbara (nell’accezione anti-classica che Lilliu attribuiva alle produzioni sarde arcaiche) delle forme artistiche, semmai ne volessimo ipotizzare l’esistenza, traspare in maniera episodica, trasversale, indiretta e soltanto per alcuni artisti.
II
Gaetano Brundu
Riteniamo che tra gli artisti sardi solo in pochissimi casi sia possibile rintracciare quella precisa cifra stilistica capace di esprimere in valori formali il concetto di “costante resistenziale’’ caro all’archeologo Lilliu. Nella maggioranza dei casi, l’arte degli ultimi cinquant’anni in Sardegna si è caratterizzata per un continuo sforzo innovativo volto invece ad emulare le più recenti rivoluzioni in campo culturale che nacevano e si sviluppavano nella cosiddetta “penisola’’, cioè in quella parte di terra che, come significa etimologicamente il termine “penisola”, non è più un isola, ma è “quasi” un’ isola (dal lati-no paeninsŭla, paene ‘quasi’ e insŭla ‘isola’). Per la grande maggioranza degli artisti che hanno vissuto e operato in Sardegna il discorso da fare è dunque, a nostro parere, un altro. Bisogna infatti partire dal presupposto che l’arte sarda degli ultimi cinquant’anni non ha nulla di originario, ma è prima di tutto una acquisizione voluta e coscienziosa di un patrimonio di forme artistiche che sono state avvalorate e legittimate da un sistema dell’arte che dagli anni ’50 ha iniziato a formarsi in Italia stabilendo significati e valori del linguaggio dell’arte. Ciò che si potrebbe dire è infatti che gli artisti sardi sono stati subito molto attenti e capaci nel mettersi al passo con i tempi attraverso le prime riviste d’arte a loro disposizione e attraverso continui viaggi e soggiorni nelle capitali dell’arte italiana ed europea. Quello che si viene a creare è allora una strana scissione storico-culturale interna alla nostra isola. Ci troviamo davanti ad un desiderio impellente di confronto con una modernità estetica ricercata e trovata da un gruppo di artisti che si legittimano intellettualmente con forme nuove e avanguardistiche, ma che non ha trovato praticamente nessun rapporto con il tessuto economico-sociale esistente sull’isola. Questo significa che il prodotto culturale dell’arte contemporanea in Sardegna non è un prodotto originario, non lo è per nulla, perché non è mai esistito neppure un tessuto sociale da cui questa novità delle forme potesse prendere avvio.
E’ vero però che la storia dell’arte è piena di casi simili: se il classicismo greco e il rinascimento italiano hanno radici nello stesso tessuto economico-sociale greco ed italiano, non si può dire altrettanto, per esempio, dell’arte romana. Qui le forme artistiche vengono totalmente importate nella loro idealità estetica ed imposte su una società che, no all’età repub- blicana, guardava la stessa concezione di arte con profondo disprezzo e preoccupazione; tale ignoranza o disprezzo non va attribuito unicamente alle classi plebee, ma la stessa nobiltà romana ripudiava le mollezze dell’arte come pericolo per la società.
Se dunque l’arte greca, così come quella rinascimentale, nacque e fu l’espressione di una nuova condizione della società del tempo, quella romana fu invece un fenomeno prevalentemente politico, in cui l’arte poteva essere concepita inizialmente solo sotto forma di bottino di guerra, prova tangibile ed esaltazione simbolica della repubblica romana.
Questo dell’arte romana è un caso di estremo interesse nell’ottica di un confronto con l’arte contemporanea in Sardegna perché in entrambi casi si assiste alla nascita di una nuova cultura estetica che viene importata e poi gradualmente diffusa nel tessuto sociale. C’è naturalmente qui una grossa differenza: nel caso dell’arte romana, si tratta prima di tutto di una necessità sociale di controllo ed articolazione del potere, attraverso l’immagine, da parte di una oligarchia dominante; l’arte viene così formalmente importata con tutte le sue specifiche qualità estetiche (concretizzazione di quel lungo processo di intellettualizzazione del “fare” artistico compiuto dai Greci), ma utilizzata principalmente per finalità politico-propagandistiche. Nel caso dell’arte in Sardegna, invece, siamo davanti ad un processo di diffusione e divulgazione di una nuova concezione dell’arte ricercata e voluta non da un determinata classe o gruppo sociale rintracciabile nel più ampio tessuto economico-politico dell’isola, quanto dalla piccolissima comunità degli artisti indipendenti, che dal dopoguerra in poi hanno potuto usufruire di un trentennio di boom economico a sostegno del proprio riconoscimento sociale ed intellettuale. Siamo quindi di fronte alla necessità di un riconoscimento fortemente voluto da parte di una comunità di artisti che ha ricercato un riscatto profondo rispetto alla società incui essa stessa stava operando e soprattutto rispetto ad una certa tradizione del fare artigianale, profondamente radicata in Sardegna, che ha finito nel tempo per confinare l’artista sardo all’interno del recinto della propria abilità tecnica, escludendolo così da qualsiasi forma di compenso intellettuale e dunque sociale. Artisti come Gaetano Brundu sono a nostro parere il frutto di questa dinamica storica. Brundu, individualmente, nella sua storia di artista, non ha prodotto alcuna opera che possa essere giudicata in qualche modo unica e determinante rispetto allo svolgersi del linguaggio artistico del proprio tempo, ma questo non esclude il suo fondamentale ruolo di artista, specialmente di “artista nell’isola”.
Brundu è stato un artista prima di tutto per il suo ruolo di “catalizzatore intellettuale’’ e per tutto quello che questa sua azione propulsiva ha messo in moto o ha fatto nascere in un’ isola che come la Sardegna, agli inizi degli anni Sessanta, si apriva frettolosamente alla modernità. Egli è stato uno dei più convinti sostenitori di un radicale processo di rinnovamento dell’arte in Sardegna; si è trattato infatti di un faticoso smantellamento di credenze e tradizioni, di una immane rivoluzione verso una nuova concezione dell’arte: il riconoscimento intellettuale del “fare” quale processo prima di tutto ideativo/intellettivo e solo secondariamente manuale/artigianale.
III
Un’arte presa in prestito: l’arte a Roma
Una domanda che a questo punto ci potremmo porre è: cosa accade quando una forma artistica viene “presa in prestito” e poi adattata ad un contesto sociale nuovo o comunque differente da quello da cui ha preso origine? A Roma questo tipo di operazione ebbe diverse conseguenze.
A livello formale, l’arte romana seppe mantenere, con l’aiuto di artisti provenienti da tutto il mondo ellenistico, un alto standard qualitativo, ma non giunse mai a quell’unità assoluta di forma e pensiero che solo la Grecia antica e successivamente il rinascimento riuscirono a compiere. Non giunse mai a quell’arte intesa come ideazione e principio teorico espresso in forma plastica; è per questo che l’arte romana, pur mantenendo un altissimo livello qualitativo della produzione artistico-artigianale, finì per ridurre le forme estetico-conoscitive dell’arte greca ad una mera riformulazione e ripetizione di schemi iconografici. Questa perdita di senso del peculiare significato delle forme estetiche classiche favorì un estremo eclettismo; eclettismo però contraddittorio che arrivava a far convivere forme e motivi stilistici opposti in una stessa opera, secondo esigenze comunicative ed esiti formali che avrebbero fatto impallidire un greco del V secolo.
Ma non è tutto. Il fatto è che la società romana, nella sua prima fase, prima di conquistare l’Italia diventando una potenza militare e politica nel mediterraneo, possedeva una forma di arte primitiva, caratterizzata da immediatezza narrativa ed espressiva, dove il naturalismo figurativo di base si semplificava alla luce di una astrazione tendente alla paratassi delle forme. Si trattava di una forma d’arte primitiva, ma autoctona, patrimonio comune e condiviso con gli altri popoli che abitavano la penisola italica. Questa tradizione artistica, propriamente romano-italica, si mantenne viva nonostante l’acquisizione e l’appropriazione del naturalismo greco da parte dell’oligarchia patrizia dominante; successivamente, nel IV secolo d.C., quando l’impero romano era ormai giunto ad una irreparabile crisi economica, politica e sociale, questa forma d’arte primitiva ed originaria diverrà un elemento di novità e di ripresa artistica, provocando una irreparabile rottura con il naturalismo classico e confluendo poi nella successiva arte medievale. Questa arte “plebea”, così la definisce Ranuccio Bianchi Bandinelli, non è dunque una sottocategoria dell’arte romana, ma è anzi un qualcosa che si trova al di là di ciò che per logica sarebbe limitabile in senso categoriale; è qualcosa di molto difficile da definire, proprio perché non ordinatamente manifesta, ma che rimane per lungo tempo latente nelle forme dell’arte romana, anche in quelle più auliche ed idealizzate. Abbiamo volutamente ripreso e sottolineato questo concetto di “arte plebea” perché sarà proprio questo tema che ci accompagnerà a definire, in fase conclusiva, cosa sia per noi la “costante resistenziale” e se questa sia ancora effettivamente riscontrabile in qualche maniera nell’arte sarda.
IV
Un’arte presa in prestito: il ‘900 in Sardegna
Tornando dunque ancora alla questione di fondo, ci potremmo porre la stessa domanda che ci siamo già posti per l’arte romana: cosa accade quando una forma artistica viene presa in prestito e poi adattata ad un contesto sociale nuovo, diverso da quello originario da cui la stessa forma artistica ha preso origine. Nella precedente analisi abbiamo individuato alcuni elementi importanti e validi per successive valutazioni e comparazioni: innanzitutto un’arte che sebbene raggiunga un alto livello qualitativo, non è mai capace di superare il limite di una eccellente produzione artistico-artigianale. Si è poi parlato di un’arte che ha nell’eclettismo uno dei suoi motivi stilistici più caratteristici ed in ne si è presa ad esempio l’arte plebea, quale forma latente di immediatezza espressiva e narrativa che si pone all’interno dell’arte romana come germe evolutivo che tende all’astrazione e alla semplificazione narrativa delle forme naturalistiche ed idealizzate dell’arte greco-ellenistica.
Le figure chiave che vengono proposte quali capisaldi di un discorso evolutivo delle forme artistiche nel ‘900 in Sardegna non sono tanti. C’è anche una casa editrice, la IIisso, che ha cercato di fare il quadro generale di questa produzione attraverso una serie di monografie degli autori sardi più signi-ficativi, partendo dal primo novecento. Queste monografie raccontano l’arte e la vita di due generazioni di artisti che hanno preceduto quel periodo storico a noi più prossimo e che è stato invece analizzato del progetto teorico e curatoriale della “costante resistenziale” presso il MAN di Nuoro. Potremmo suddividere una prima generazione di artisti sardi moderni composta da: Francesco Ciusa (Nuoro 1883-1949), Giuseppe Biasi (Sassari 1885-1945), Filippo Figari (Caglia-ri 1885 -1973), Mario Delitala (Orani, 1887-1990), Carmelo Floris (Bono 1891-1960), Stanis Dessy (Arzare 1900-1986); ed una seconda generazione composta da Eugenio Tavolara (Sassari 1901-1963), Costantino Nivola (Orani 1911-1988), Mauro Manca (Cagliari 1913-1969), Salvatore Fancello (Dor-gali 1916-1941), Foiso Fois (Iglesias 1916-1984). Abbiamo escluso volutamente da questa lista Mario Sironi (Sassari 1885-1961) ed Aligi Sassu (Milano 1912-2000), perché crediamo che il loro percorso artistico abbia veramente ben poco di “sardo”, se non per il fatto che Aligi Sassu fosse figlio di un sardo emigrato a Milano, e che Sironi fosse nato, per pura casualità, a Sassari.
Esistono naturalmente vari altri autori ma è qui necessario rivolgere la nostra attenzione a coloro che sono stati storicizzati come rappresentanti riconosciuti dell’arte in Sardegna. Lo sforzo e lascito più grande di questa generazione di artisti non poteva essere altro che quello di importare in una Sardegna ancora medievale la novità del progresso, ovvero quegli elementi linguistico-estetici che rappresentavano la modernità. In Sardegna non esistevano infatti le condizioni economico sociali né le premesse storiche per cui si potesse ambire ad un’arte moderna autonoma ed originaria nei suoi fondamenti (in questo senso potremmo dire che autonoma ed originaria è stata senza dubbio l’arte nuragica, non certamente quella moderna). E’ comprensibile allora come questi artisti non potessero andare oltre ad un estremo sforzo di adeguamento intellettuale rispetto a quel tempo storico che percepivano vitale, vibrante e progressivo, e che si svolgeva al di là del mare. La nascita del linguaggio artistico ha a che fare con il principio di imitazione delle immagini; allo stesso modo, imitando dei suoni che in seguito acquisiscono un significato, si apprende il linguaggio verbale. Alcuni degli autori che prendiamo in considerazione sembrano aver perso di vista una loro attitudine originale per abbandonarsi alla marea di linguaggi e tecniche che provenivano da oltremare, senza ritrovare una propria dimensione autentica.
Non essendo questo un romanzo giallo ci sembra naturale e giusto chiarire la nostra opinione: l’arte che inizia nel primo novecento in Sardegna e che ha origine e sviluppo attraverso questi autori,solo in poche ed isolate opere va oltre una pregiata e raffinata produzione artistico-artigianale. Il motivo di questa affermazione si fonda ovviamente su quella che è la nostra concezione dell’arte: noi intendiamo infatti con questo termine una serie di valori legati ad una concezione specifica dell’immagine, conforme nella sua creazione ad aspetti di ricerca intellettivi, emotivi e conoscitivi dell’uomo; per noi l’arte è dunque una forma di conoscenza ed analisi intellettiva del reale attraversol’immagine.
Affermando che l’arte del primo Novecento in Sardegna rimane una elegante produzione artistico-artigianale, non vogliamo distinguere tra artisti intellettuali ed artisti-artigiani. Non intendiamo nemmeno sostenere che questi autori non fossero degli artistio peggio ancora degli incapaci, cattivi pittori o scultori con una falsa coscienza artistica. Questo sarebbe un giudizio affrettato e assolutamente fuorviante, basato su di una semplice ed astratta comparazione delle forme estetiche prodotte, per giunta giudicate a posteriori, senza tenere conto delle condizioni storiche e sociali all’interno delle quali questi autori hanno operato.
Alcuni di questi artisti sono stati autori di opere importanti; riteniamo bellissime e straordinarie molte delle opere di piccolo e grande formato, ad olio o a tempera dipinte da Biasi negli anni tra il 1910 ed il 1920 circa; così come sono straordinarie certe deformazioni della linea e del colore a comporre la gura in alcune opere di Stanis Dessy ; o ancora pensiamo al pittore Foiso Fois, che in qualche suo lavoro più riuscito raggiunge una compattezza cromatica straordinariamente avanti coi tempi,anticipatrice di alcune esperienze pittoriche che oggi stanno riscuotendo un grosso successo commerciale e di critica (vedi per esempio la stesura pittorica di David Hockney). Che questi artisti non siano stati però capaci di andare oltre un semplice accodamento formale rispetto all’esperienze d’arte del loro tempo a cui, in qualche modo, cercavano di mettersi alla pari, è evidente da molti aspetti; forse l’elemento più indicativo è quello che si può cogliere da un'analisi che si focalizza non tanto sulle singole opere (alcune, va detto, sono di grande qualità e dimostrano una alta padronanza del mestiere), quanto sul percorso creativo generale di questi artisti. In nessuno di essi esiste infatti una ricerca che rimanga coerente nell’operare o che nell’incoerenza disveli una ricerca permeata da un motivo concettuale in evoluzione. Si salta di continuo di palo infrasca, si abbandona uno stile e poi se ne prendeun’altro, magari per poi lasciarlo nuovamente, e siva avanti per incertezze, in un linguaggio che non pone mai le basi su cui costruire quell’evoluzione naturale del fare artistico soggettivo. Si tratta di per-corsi incerti, in cui spesso si coglie la citazione ed il ripensamento stilistico.
C’è in questo un’indecisione intellettuale che impaccia ogni tentativo di una reale autonomia artistica. La storia di molti degli artisti della prima metà del novecento sardo è caratterizzata dall’eclettismo; questo in sé non comporta alcun valore negativo, ma se il linguaggio preso in prestito sostituisce unlinguaggio personale che non è radicato profondamente, non si giunge mai a quell’originarietà e forza dell’immagine che è tipica dei grandi artisti.
In questo senso la gura di Biasi è emblematica: le sue opere migliori si collocano durante la sua giovinezza artistica, le meno riuscite durante quella che dovrebbe essere la sua maturità. Biasi, che è stato forse uno degli artisti sardi più dotati, mostra un eclettismo estremo lungo tutto il suo percorso artistico. Questo discorso naturalmente non è valido solo per Biasi, ma per la maggior parte degli artisti sardi che stiamo prendendo in considerazione. Se per Biasi possiamo infatti parlare di almeno due stili totalmente dissimili in uno stesso percorso artistico, per Mauro Manca potremmo parlare di almeno cinque o sei stili differenti, che non sembrano mai arrivare ad una dimensione personale compiuta. La storica dell’arte Giuliana Altea, nella prefazione al suo catalogo monografico su Manca lo introduce così: “Inserito sin dallo scorcio degli anni Trenta in una situazione operativa ricca di fermento come quella romana, volge incessantemente il suo spirito nomade verso tutto ciò che reca il segno del tumulto e dell ́inquietudine esistenziale: dalla pittura sfocata e nervosa di Scipione e di Mafai a quella carica di umori sociali del neocubismo, dal mediterraneismo di segno picassiano all ́informale materico. A guidare l ́artista in questi vagabondaggi figurativi è un atteggiamento raffinatamente manieristico: la sua pittura, sorta nella forte consapevolezza intellettuale, si nutre d ́altra pittura, si ciba di tutto ciò in cui sente risuonare il fascino del mito, il mistero del primordiale, dell ́origine”. Il percorso di Manca è, per la sua mutevolezza ed irrequietezza, veramente sbalorditivo. Il suo primo periodo di sperimentazione artistica spinge già verso l’eclettismo più estremo. Questo primo stile sarebbe collocabile tra la scuola romana, Scipione, Mafai, ed una certa arte di chiaro sapore italiano tra Sassu, Sironi, De Pisis, Carrà, Morandi, Campigli ed un De Chirico da cui però è stato totalmente epurato il senso metafisico dell’immagine. Un secondo periodo, compare quando probabilmente egli dovette venire a conoscenza dell’arte di Picasso: ma si tratta anche qui di un innamoramento per le forme Picassiane: in questa fase nascono quadri in cui è riconoscibile un certo equilibrio ed una certa vivacità dei colori, ma non si giunge mai al bilanciamento tra brutalità, classicismo ed invenzione che è caratteristico dell’artista spagnolo. Da qui si passa poi per un breve periodo ad un’emulazione del gruppo COBRA, che l’artista sardo ricompone attraverso un formalismo incerto e troppo composto, ancora fortemente debitore della matrice Picassiana (e siamo così al terzo stile). Successivamente egli compie un vero azzardo estetico: forse è questo quarto periodo il punto in cui si capisce al meglio come i passaggi da uno stile ad un altro fossero in Manca semplici fascinazione estetiche: come tali finirono per ritardare ed impedire la nascita di uno stile definitivo e riconoscibile dell’artista. In questo periodo l’artista parte infatti da una matrice picassiana, che per sua natura è fortemente “realistica” e mantiene un rapporto tra “Io” e “mondo”, sebbene scomposto, ancora integro e fondante per il senso dell’immagine. Da qui Manca riesce con un salto a giungere allo astrattismo lirico (genere di pittura che in Italia ha trovato in Afro Basaldella uno dei più raffinati e ricercati rappresentanti), momento in cui l’astrazione ha ormai perso qualsiasi atteggiamento mimetico con la realtà, e da cui ha inizio quel percorso analitico dell’arte (Filiberto Menna), che vedrà gradualmente la fine del mezzo artistico quale filtro di ricomposizione del reale. Esattamente l’opposto delle premesse picassiane in cui il rapporto tra l’artista e il mondo, per mezzo della rappresentazione, era ancora saldo.
E’ in questo passaggio che si palesa chiaramente come l’artista sassarese sia giunto a certe conclusioni formali solo attraverso una spregiudicatezza estrema nell’appropriazione formale di vari linguaggi artistici; questo però senza appropriarsi del loro senso conoscitivo, abbracciandoli tutti e non approdando ad uno veramente personale. Tuttavia la crisi, in questo rapporto disinvolto tra la propria opera e quella degli altri artisti, avviene in particolare con l’ultimo periodo della produzione dell’artista sardo. La disinvoltura estetica nell’uso dei linguaggi artistici conduce Manca ad un abuso eclettico che sembra contraddire un criterio intellettuale e conoscitivo nella ricerca artistica. In questo ultimo periodo compaiono assieme Burri, Fontana e Capogrossi. E’ evidente come qui l’appropriazione non riesca, Manca si sforza di amalgamare questi influssi tra un opera ed un’altra ma le conclusioni di questi tentativi sono deboli ed incoerenti.
V
La costante resistenziale come sopravvivenza
Come il Rinascimento fu un espressione artistica autonoma, spontanea e originaria di un certo gruppo di città italiane tra il 1400 ed il 1500, così l’arte nuragica lo fu per la Sardegna ed i suoi abitanti (lo stesso modo si può dire per l’arte egizia o quella greca: anch’esse sono nate e si sono sviluppate attraverso un’ autonomia creativa originaria e storicamente fondata). Stiamo parlando di periodi storici e di situazioni economico-sociali diversissime, ma qui quello che ci interessa individuare è un dato essenziale: l’autonomia e l’unicità originaria di queste civiltà artistiche. Non si tratta di prodotti estetici importati da un’altra civiltà, ma dell’evoluzione di un pensiero intellettivo e conoscitivo, capace di esprimersi in determinate forme estetiche che nacquero, si radicarono e si svilupparono dentro in determinate condizioni sociali, economiche e politiche.
Nella sua unicità originaria l’arte nuragica, rispetto al mondo contemporaneo che stiamo analizzando, sprofonda nel passato più remoto: gli archeologi fanno risalire le origini di que-sta civiltà artistica alla piena età del bronzo, 1800 a.C. circa. Ora, alla luce del fatto che Giovanni Lilliu fosse un archeologo, e che la maggior parte dei suoi studi ruotava proprio attorno alla civiltà nuragica, dovremmo iniziare a pensare che la comprensione di una certa idea di “costante resistenziale” sia stata probabilmente male interpretata; e l’idea di mettersi a rintracciare un ethos originario, un elemento resistente ed uni cante le pratiche artistiche espresse dalla cultura visiva novecentesca, è un po’ come mettersi alla ricerca di un ago in un pagliaio e, se anche l’ago ci fosse, non si avrebbe la possibilità di vederlo. Oltretutto l’isola si apriva a un fenomeno globalizzante che rendeva il linguaggio stesso dell’arte soggetto a influenze, mode e tecniche di carattere globale. Quello che Lilliu stava probabilmente cercando di esprimere con il concetto di “costante resistenziale” è forse meglio definibile in un qualcosa che non è ascrivibile unicamente all’esclusività della storia dell’arte. In questo senso il concetto va indagato e compreso attraverso un altro tipo rappresentazione mentale che crediamo le sia simile, seppur in modo non manifesto, ed è quello che Warburg ha tentato di esprimere con il termine tedesco di Nachleben ovvero “sopravvivenza”. Esiste infatti un imprevedibilità non logica delle immagini, per cui esse son capaci di sopravvivere e di tramandarsi oltre quelle logiche studiate ed analizzate dalla storia dell’arte; si tratta di immagini latenti, che sopravvivono nel tempo, pronte a riemergere e nuovamente a scomparire senza però mai estinguersi. Esse sono espressione di una vita sotterranea continua, visibile ed invisibile; in esse c’è una misteriosa “costanza”, una metamorfica “resistenza” dell’immagine che trapassa il tempo storico, la storia dell’arte stessa, e sopravvive nell’uomo, nella sua psiche, nel suo profondo desiderio di espressione, originario ed antecedente la nozione stessa di arte.
L’arte plebea di cui parla Bianchi Bandinelli quando cerca di collocare storicamente quell’inspiegabile mutamento stilistico dell’arte romana, che passa dal naturalismo delle forme all’astrazione brutale ed espressionistica delle stesse, si avvicina molto al concetto warburghiano dell’immagine sopravvivente. La forme “costanti” e “resistenti” non vanno e non possono essere ricercate unicamente nella storia delle forme artistiche; questo sarebbe un errore, e ci condurrebbe verso uno studio sull’im-magine instabile sin dalla sue premesse, in quanto non terrebbe conto del fattore più essenziale, cioè dell’origine antropologica dell’immagine. La professionalizzazione del ruolo dell’artista, così come l’assoluta legislazione della storia dell’arte nel campo dell’immagine e del suo valore-significato, se da una parte ha concesso all’artista un ruolo sociale per una certa straordinarietà riconosciuta (la cosiddetta artisticità), dall’altra ha limitato il campo dell’immagine e della sua creazione all’artista, come se le forme estetiche realmente fondanti dell’uomo fossero prodotte unicamente dagli artisti di professione. Questo naturalmente non è vero, ed è fruttodi una evoluzione storica che si è naturalizzata nel tempo ed accettata oggi come una realtà di fatto; ma che questa sia una verità relativa lo dimostra il fatto stesso che l’uomo ha sentito l’esigenza di fare arte, ovvero di produrre immagini, ancor prima della nascita della più rudimentale specializzazione del lavoro artistico con la figura dell’artista strego-ne. Se, come crediamo, è vera o almeno credibile l’impostazione generale di un origine dell’arte quale “dispendio sacro” (Bataille), allora il filo nascosto di questa “costante resistenziale” non potrà essere ricercato unicamente nelle forme intellettualizzate dell’arte contemporanea, ma la ricerca deve essere estesa molto al di là.
VI
Un fantastico e meraviglioso viaggio nella Sardegna arcaica tra sculture e architetture di pietra
Questo testo si è finora dilungato sulle evoluzioni che hanno caratterizzato la scena dell’arte sarda nel primo novecento e dagli anni ’60, anche perché abbiamo preso come punto di partenza il progetto espositivo (ed editoriale) del MAN. Questa esposizione ha infatti coinvolto in maniera estesa gli artisti (e gli spazi stessi) che hanno occupato istituzioni, gallerie, spazi indipendenti, mostre occasionali, progetti performativi etc; tutti quegli attori che possiamo ascrivere a una forma, anche non del tutto ortodossa, di professionismo artistico; un’élite culturale legata ad una dimensione intellettuale del fare artistico e consapevole dei linguaggi internazionali dell’avanguardia.
Da questo punto di vista il nostro testo vorrebbe riproporre nella Sardegna contemporanea la dicotomia tra arte patrizia, elitaria, globale, “ellenistica” ed arte plebea: arcaica, simbolica, primitiva e “resistente”, cercando punti di contatto ed allargando il campo verso quella produzione artistica di carattere antropologico e popolare, non investigata nel progetto del MAN . Anche in questa separazione è necessario specificare punti di contatto tra i due ambienti: artisti come Nivola e Lai hanno cercato una dimensione popolare ed accessibile del fare artistico (ne è un’altra testimonianza l’opera di Sciola a San Sperate); lo hanno fatto in maniera consapevole e arricchita da esperienze nazionali ed internazionali, come il modernismo internazionale delle opere di respiro pubblico di Nivola o il muralismo messicano nel caso di Sciola. Proprio l’artista di San Sperate, vedremo, rappresenta l’ideale anello di congiunzione tra questi due mondi paralleli dell’arte in Sardegna.
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Quando parliamo di scultura “popolare” in Sardegna a cosa, esattamente, ci riferiamo? La possiamo considerare, rispetto alla produzione artistica “elevata”, una forma di costante resistenziale? Nel compiere il nostro viaggio fotografico per la Sardegna alla ricerca di forme di scultura popolare, abbiamo operato una selezione arbitraria, escludendo tutta quella produzione artigianale connotata da correnti, mode, tendenze ben precise che non si ispirano a modelli di avanguardia, ma si presentano sotto forma di so sticazioni intellettuali del primitivo o semplici immagini folcloristiche prive di qualsiasi interesse al di fuori del campo del kitsch. Mamuthones, bronzetti nuragici, o ancora il primitivismo di Arturo Martini, Manzù o Marino Marini sono le fonti di questo lone che abbiamo deciso di escludere dal momento che queste forme popolari non hanno nulla a che vedere con la nostra idea di costante resistenziale, ma sono prestiti consapevoli ed auto-esotizzanti di un repertorio poco più che turistico. Al contrario il primitivo, la non-cultura, per tornare al Bandinelli di “Roma”, non hanno data, sono forme eterne. L’immaginario auto-esotico, pseudo-tradizionale non va confuso con queste forme originarie che sono oggetto della nostra indagine: figurazioni sempre al limite dell’assurdo, immagini anomale che talvolta si rapportano al folclore, ma sempre mantenendo una distanza formale, una certa incongruenza estetica. Ciò che Lilliu voleva esprimere con questo concetto è più facilmente definibile in qualcosa che va oltre la sola storia dell’arte. In questo senso il con- cetto va indagato e compreso attraverso la “sopravvivenza” Warburghiana. Se esiste infatti una imprevedibilità delle immagini, per cui esse son capaci di sopravvivere e di tramandarsi oltre le lo- giche studiate ed analizzate dalla storia dell’arte, non si tratta di presenze consapevoli, ma di forme latenti, che sopravvivono nel tempo, pronte a rie- mergere e nuovamente a scomparire senza però mai estinguersi. Queste sono espressione di una vita sotterranea continua, visibile ed invisibile; in loro c’è una misteriosa “costanza”, una metamorfica “resistenza” dell’immagine che trapassa il tempo storico, la storia dell’arte stessa, e sopravvive nell’uomo, nella sua psiche, nel suo desiderio di espressione, originario ed antecedente la nozione stessa di arte. Come forma che precede l’idea stessa di arte, la scultura “popolare” in Sardegna è ovunque: si incontra nelle piazze, nelle rotonde, a ornamento delle abitazioni o nei giardini; nella gran parte dei casi queste immagini non vengono firmate, spesso non nascono come opere, ma rispondono ad esigenze più spontanee, pratiche o puramente ornamentali, quando non siamo nel contesto della statuaria monumentale. Il numero di queste opere è veramente eccezionale, in ogni paese della Sardegna sembra operare o aver operato almeno uno scultore, un autore di opere che hanno tutte qualcosa in comune: un tratto anticlassico e protostorico dell’immagine. Questo fenomeno, che va nord al sud dell’isola, non è finora stato oggetto di indagine; è come se questo mondo di figure che ricopre l’isola (e probabilmente non ha eguali in nessuna regione europea) non fosse mai stato notato o preso in considerazione. Il nostro viaggio alla scoperta della meravigliosa, strana, arcaica scultura sarda nasce come indagine fotografica su questo tema.