La costante resistenziale #3
Un'analisi critica
Montecristo Wrintings
2017
Questo testo vuole analizzare alcuni aspetti della pratica curatoriale e dell’exhibiton making, come dicono gli anglosassoni, prendendo in considerazione come caso di studio l’ultima mostra de “La costante resistenziale” curata da Micaela Deiana al museo MAN di Nuoro. Inizialmente avevamo pensato di proporre lo stesso argomento sotto forma di intervista con la curatrice, ma questa non ci è stata accordata.
Abbiamo così deciso di sintetizzare qui, attraverso alcuni punti tematici, le nostre riflessioni scaturite dall’osservazione diretta del progetto curatoriale presso il MAN.
I
Ma si tratta veramente di una mostra che rappresenta il meglio dell’arte in Sardegna nella sua accezione più contemporanea?
La prima domanda che ci siamo posti osservando questa mostra è se effettivamente questa sia riuscita a rappresentare quanto di meglio sia stato prodotto in Sardegna negli ultimi anni. Di positivo c’è sicuramente il fatto che è stato messo in evidenza il ruolo socialmente stabilizzante e costruttivo di alcune piccole realtà culturali che costituiscono un primo terreno di frizione e confronto per la crescita e lo sviluppo della ricerca artistica. E’ chiaro dunque che concordiamo col tentativo della curatrice di aver cercato di evidenziare alcuni aspetti sempre un po’ nascosti o sconosciuti di una certa produzione artistica solitamente relegata ad un semplice regionalismo culturale.
Questo è un giudizio positivo che condividiamo e che scaturisce anche dalla nostra esperienza personale: per casualità del destino, anche noi, seppur in tempi e modi diversi, abbiamo fatto la nostra prima mostra durante un Gemine Muse patrocinato dalla Fondazione Bartoli Felter; così come il nostro primo incontro e l’inizio del nostro sodalizio artistico è nato tramite un workshop organizzato da Paolo Carta, ideatore insieme ad altri dell’associazione Progetto Contemporaneo.
La questione però è se queste associazioni, tutte messe assieme e libere di esprimersi a loro piacimento, siano state capaci di dare vita ad un immaginifico idoneo a riflettere la più recente produzione artistica in Sardegna.
In questo senso noi crediamo che la mostra non assolva a tale compito.
L’idea che una libera espressione di più spazi legati alla produzione artistica possa essere uno specchio fedele di quello che accade in un determinato territorio è un qualcosa che sottende un’inversione pericolosa del concetto stesso di arte. E’ come se nel Rinascimento per definire e mostrare quali fossero le opere d’arte prodotte nella città di Firenze di quel tempo si fossero invitate ad esporre tutte le botteghe della città, pretendendo poi che da questo invito a mostrare i propri prodotti si potesse delineare un orizzonte di valore e di senso storico artistico condiviso. Avete idea di quanto delizioso artigianato artistico si sarebbe visto considerando che nella Firenze del 400 c’erano più botteghe d’artista che di macellai?
Per delineare una qualsiasi produzione artistica bisogna partire sempre e comunque dalle opere, partire cioè da una considerazione di valore che
è necessaria; per cui si devono scegliere alcune opere in favore di altre, includere alcuni artisti ed escluderne degli altri e su tutto questo poi costruire una prospettiva di valore e di significato. Crediamo invece che in questa mostra, proprio perché si è cercato di mettersi a favore di una strana orizzontalità del giudizio (strana anche per il contesto museale che è sempre stato invece estremamente selettivo nelle sue scelte sul territorio), si siano invertite le stesse logiche di attribuzione del valore, per cui si è finito in sostanza per scambiare il “contenuto” con il “contenitore”.
Così si è preferito l’esempio democraticamente caratterizzato della piccola istituzione a quello dell’opera d’arte, necessariamente esclusivo e non democratico e si è finito per ottenere un orizzonte visivo dispersivo e non interpretabile, un vero disordine estetico derivante da una volontà di esprimere il tutto facendo però uno sforzo minimo di pura tautologia sul reale.
Questa logica orizzontale del valore ha portato ad una mostra in cui l’affastellamento e la confusione regnano sovrani, dove non si capisce quali e dove siano gli autori delle opere, dove le logiche della curiosità antropologica e del mercatino hanno finito per prendere il sopravvento sull’indirizzo conoscitivo e veritativo dell’arte.
A nostro parere era e sarebbe stato dunque importante raccontare la storia di alcuni spazi di produzione artistica che caratterizzano, ad un livello territoriale, la nostra isola, ma questo non sarebbe mai dovuto andare a discapito di una prospettiva che necessariamente è tenuta a scegliere secondo un’attribuzione di valore in cui è rintracciabile l’identità stessa dell’opera dell’arte.
II
Artisti in mostra senza opera e valori in contraddizione tra loro
Questa mostra porta in sé una particolare caratteristica, quella per cui tutto ciò che il MAN fino a questo momento ha espresso in termini di legittimazione artistica viene improvvisamente meno in favore di una eterogenea presentazione di piccoli spazi per l’arte contemporanea.
Se c’è uno spazio che negli anni si è riservato di presentare il meglio della produzione artistica isolana, quello è stato, fin dall’era Collu, il MAN.
Nei cinque anni di gestione a cura di Lorenzo Giusti questo taglio selettivo si è fatto ulteriormente più affilato, tanto che sono pochi gli artisti sardi ad aver esposto al museo o in progetti da questo promossi. Paradossalmente, di tutti gli artisti legittimati dal MAN, in questa mostra non ci sono opere, e vengono meno i progetti più significativi su cui il museo ha investito.
Facciamo degli esempi più concreti in modo da arrivare subito al nocciolo della questione.
Durante la direzione di Cristiana Collu, uno degli artisti sardi che più aveva ottenuto un certo consenso con il proprio lavoro e ricerca è stato Marco Lampis, che per alcuni anni riuscì ad aggiudicarsi alcuni premi e riconoscimenti prestigiosi come quello di partecipare al Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti a Como (al tempo vera fucina promotrice di talenti), alla Gasworks International Program Residency di Londra, ad essere selezionato quale finalista del premio Terna e così via. Ora, che piaccia o no, il lavoro di Marco Lampis, se dovessimo delineare storicamente un percorso dell’arte sarda in questi ultimi anni, non potremmo escluderlo, perchè storicamente, nei fatti, non può esserlo, pena falsare quello che in quegli anni veniva legittimato istituzionalmente come valore artistico.
Ora, se in questa mostra andassimo a cercare di capire dove e come è stato rappresentato e contestualizzato il lavoro di Lampis, finiremmo per imbatterci nella Giuseppefraugallery.
Questa è uno spazio no-profit la cui vocazione artistica si esprime attraverso un chiaro indirizzo comunitario, legato al territorio del Sulcis-Inglesiente, e che da diversi anni svolge un’attività attorno alla quale sono passate e continuano a transitare ed operare figure provenienti dal panorama artistico italiano più importante e riconosciuto.
Durante la direzione di Lorenzo Giusti invece, l’artista sardo che fra tutti (insieme a Cristian Chironi, di cui parleremo in seguito) ha forse goduto di un periodo di maggiore visibilità grazie al sostegno del museo, è stato Alessandro Biggio con il progetto Braccia.
Questo progetto, fortemente sostenuto dal MAN, è stato presentato, in una collaborazione tra istituzioni, anche a Firenze presso la prestigiosa sede del Museo Marino Marini. A nostro parere questo progetto ha avuto il merito di aver rappresentato (in maniera intelligente quanto paradossale) alcune anomalie del fare arte nell’età contemporanea, in cui i limiti e le restrizioni dell’autorialità dell’opera si ibridano e si capovolgono sfruttando alcuni equilibri precari dipendenti degli stessi meccanismi di legittimazione artistica. La mostra Braccia di Alessandro Biggio è stata giustamente sostenuta dal MAN e giustamente avrebbe dovuto esser tenuta in conto tra gli avvenimenti salienti di questi anni di arte in Sardegna.
Anche in questo caso, in che modo Alessandro Biggio e la sua opera trovano spazio e rappresentazione in questo contesto?
Ancora una volta ritroviamo la Giuseppefraugallery.
Ma allora la Giuseppefraugallery è rappresentativa del lavoro di Marco Lampis e di Alessandro Biggio? Non esattamente, la Giuseppefraugallery ha una sua storia, peraltro molto connotata, che non ha nulla a che vedere con il lavoro di Lampis e Biggio se non in maniera occasionale.
Dov’è allora l’opera installativa legata alla ricerca sonora di Marco Lampis? Dov’è il raffinato paradosso concettuale proposto da Biggio con Braccia? Due importanti percorsi artistici e le loro opere vengono così riassunte attraverso un istituzione che non è rappresentativa del loro percorso artistico e della loro storia se non in maniera trasversale.
Uno degli artisti sardi emergenti, quello che attualmente è forse il più conosciuto in Italia, Cristian Chironi, non è neppure presente in mostra, e come sappiamo il MAN di Nuoro ha dedicato ampio spazio all’artista, sostenendolo con una mostra personale e due cataloghi per il doppio progetto ancora in corso di “Broken English” e “My house is a Le Corbusier”.
Il discorso finora fatto per il lavoro di Lampis, Biggio e Chironi vale anche per un altro artista tra i pochi sardi transitati al MAN guidato da Giusti: Pietro Mele, del cui lavoro significativo non ritroviamo traccia in nessuno degli spazi presentati in mostra (potremmo tuttavia averlo perso in qualcuno dei percorsi espositivi più confusionari). Emerge dunque una strana dicotomia tra ciò che il MAN aveva a suo tempo legittimato quale valore artistico-culturale e ciò che ora in questa mostra diviene rappresentativo della più recente produzione artistica in Sardegna.
E sarebbe qui lunga la lista dei casi degli artisti mancanti all’appello o goffamente rappresentati da qualche piccola istituzione artistica. Analizzando secondo questa prospettiva il progetto curatoriale della terza fase della Costante Resistenziale siamo giunti così alla conclusione che questo approccio fin troppo democratico e narrativo all’arte, ha finito per escludere dalla mostra il vero ed unico nesso dimostrativo tra arte e artista, cioè l’opera.
III
“Archive mania”
(Un laboratorio, un archivio, un network?)
In più occasioni (comunicato stampa, interviste) questa mostra viene presentata come un laboratorio, con al suo interno un archivio, o comunque una componente archivistica, che trova forma principalmente nella Project room del museo al piano terra. Cerchiamo di analizzare questi termini ricorrenti nella storia recente della curatela e dell’exhibition making: laboratorio e archivio.
Entrambe queste parole sono da anni sdoganate nel linguaggio dei comunicati stampa di grandi e piccole mostre. Da quando gli eventi espositivi hanno iniziato a includere dinamiche partecipative, opere a carattere processuale, situazioni, happenings e così via, parlare di esposizioni o mostre è diventato limitante; le mostre divengono territori di indagine, sono, così, opere le mostre stesse.
Un percorso parallelo, ma simile, ha seguito la cosiddetta “archive mania” (prendiamo il termine in prestito da Suelny Rolnik), la tendenza che, a partire dai primi anni delle sperimentazioni concettuali ha visto moltiplicarsi le opere e ricerche artistiche che si servono dell’archivio come strumento di costruzione, ricostruzione e protezione (a volte anche invenzione) della memoria storica e artistica.
Partiamo dal primo punto: il laboratorio.
Osservando la mostra ci siamo chiesti in cosa esattamente consistesse il laboratorio citato nel comunicato stampa, dal momento che la mostra affida a ogni spazio un suo ambiente lasciandolo libero di servirsene come meglio crede. Se manca una teoria sperimentale secondo la quale i materiali dovrebbero agire-reagire è raro che avvengano prodigiose scoperte, o semplicemente interessanti aggregazioni spontanee.
Dubitiamo che l’esperimento consista seriamente nel lasciare agire liberamente queste diciassette entità per vedere cosa succede. Ed infatti non ci sono reazioni, processi in atto, non c’è alcun cantiere, non ci sono nemmeno interazioni tra gli spazi se non nei termini di sconfinamenti spaziali, legati però alla struttura delle stanze del museo.
Ci sono diciassette mostre separate che sono, per giunta, esposizioni o presentazioni degli spazi nel senso più classico del termine. Se intendiamo il laboratorio come ambiente vivo in cui avvengono dinamiche, tentativi, interazioni, dal complesso della mostra- laboratorio non emerge nessun ardito esperimento, ma un caos generale in cui anche la fruizione dei lavori diventa molto complessa.
Questo caos, e tra breve arriveremo anche all’archivio, nasce principalmente da un fattore. Come abbiamo accennato prima, la mostra nasce come progetto orizzontale e democratico, in cui la curatrice invita a partecipare diciassette realtà che ha ritenuto le più significative del periodo storico 2000-2015 in Sardegna. Fatto questo, la figura del curatore all’interno della mostra sembra venir meno, nel senso che la dinamica corale sfocia in un disordine nel quale manca proprio la mano di una persona che si occupi di sfoltire, organizzare e ordinare i materiali presentati. Il narratore-curatore, novello Giovanni Verga, lascia che siano i fatti-spazi a parlare, defilandosi e lasciando che siano loro liberi di esprimersi e autorappresentarsi in una curatela corale.
Nel sito di Sardinia Fashion, un magazine online, abbiamo trovato una intervista alla curatrice, che citiamo dal momento che non abbiamo avuto modo di instaurare con lei un dialogo diretto. In questo caso, descrivendo il progetto curatoriale e la sua componente corale viene detto questo: ”...abbiamo ritenuto di poter provare a utilizzare l’occasione di “Sardegna Contemporanea” scostandoci dal format espositivo tradizionale e dalla classica mostra. È nato così questo laboratorio, di cui fanno parte 17 realtà fra associazioni culturali, spazi no profit, artist-run- space e gallerie attive negli anni Duemila in Sardegna. Si tratta di una modalità curatoriale ampiamente sperimentata nell’ultimo ventennio - penso al progetto Baltic Babel al Roseeum Malmö nel 2002 o la Biennale di Gwangju del 2002 - in cui si crea una piattaforma di curatela partecipata in cui sono gli stessi protagonisti a raccontare la propria esperienza. In questo senso il processo è importante tanto quanto la mostra: si ricostruisce la memoria, si analizza quanto si è fatto, si stabiliscono nuove narrazioni di autorappresentazione.”.
La curatrice cita due mostre rilevanti nella storia della curatela contemporanea, come modello già consolidato proposto, ad esempio, nella biennale
di Gwangju e nello specifico nel Project 1 curato da Hou Hanru, Charles Esche e Wan-Kyung Sung. La differenza in quel caso è che vengono invitati spazi e realtà provenienti da Asia ed Europa a riflettere sul rapporto tra dinamiche locali e globali, narrando il contesto sociale e antropologico in cui operano e si ergono, secondo i curatori, come ultime resistenze comunitarie ad un mainstream economico e creativo globalizzato.
Ora, è interessante osservare come La Costante Resistenziale #3 riproponga questo modello, ma nel contesto sardo in cui differenze sociali, antropologiche e contesti operativi si snodano su una superficie di 24.090 km quadri, un fazzoletto di terra in cui gli operatori culturali si conoscono perfettamente a vicenda e talvolta interagiscono.
È come se, venendo chiamato a preparare una mostra sull’arte sarda prodotta negli ultimi 15 anni, un curatore applicasse il sistema della biennale di Venezia, creando il padiglione di Sassari, quello di Cagliari, di Oristano e così via. Ovviamente estremizziamo, ma la differenza tra un progetto internazionale come la biennale di Gwangju e una mostra sull’arte in Sardegna sta tutta nella qualità del materiale da selezionare; non pensare al contesto specifico a cui si applica un modello teorico non aiuta, non in questo caso almeno.
Ultimo punto di questa terza parte: l’archivio. L’idea di una ricostruzione e di una sala studio che contenga i materiali relativi a tutto quanto sia stato prodotto in questi anni in Sardegna sarebbe certamente importante, fondamentale. Quanto era presente nella Project room al momento della nostra visita erano due tavoli stracolmi di cataloghi, libri e altri testi buttati gli uni sugli altri senza ordine o criterio, oltre a una videoproiezione inaccessibile.
Se dalla mostra è sparito il narratore, l’archivista deve aver seguito il suo esempio.
IV
Conclusione: un’occasione persa
A nostro parere la terza parte de La Costante Resistenziale al MAN di Nuoro è stata un’importante occasione persa. La Sardegna, a differenza di altre regioni, non possiede un’economia privata legata al mondo dell’arte e la stessa idea di arte contemporanea è un qualcosa di culturalmente lontano o forse incomprensibile per la maggior parte dei sardi. Il MAN di Nuoro diviene così una piccola oasi felice in un deserto economico e sociale che, volente o nolente, rappresenta la realtà che ogni giovane artista sardo deve affrontare per trovare il proprio spazio.
Il MAN è al momento forse l’unico museo in Sardegna capace di un potere istituzionale che possa dire la sua in un panorama nazionale ed internazionale, e l’ultima fase della Costante Resistenziale poteva (o forse doveva) essere un’ottima occasione per mostrare quanto di bello ed importante sia stato fatto in Sardegna in questi ultimi anni.
Abbiamo già lasciato che artisti come Maria Lai e Pinuccio Sciola se ne andassero senza una reale ricompensa per la loro grandezza e generosità. Abbiamo fortunatamente ancora tra noi Tonino Casula, un gigante, il cui eccezionale lavoro in 3D è praticamente sconosciuto a quasi tutto il sistema dell’arte italiano e straniero.
La terza parte della Costante Resistenziale doveva essere una mostra bellissima, e, come accaduto per tutte le più importanti mostre promosse dal MAN, si sarebbero dovute informare e invitare tutte le riviste di settore per condividere e diffondere quanto di positivo accade in Sardegna.
Intorno a questo progetto c’è stato invece un silenzio ed un’indifferenza inquietante.
Fino a quando non ci si prenderà la briga di capire che le mostre si fanno con le opere degli artisti e non con strampalati tentativi di copia ed incolla di modalità curatoriali (o di approcci consolidati), e fino a quando non ci si prenderà la responsabilità di affermare e sostenere a voce alta le proprie scelte in campo artistico, continueremo a proporre mostre che includono e accontentano tutti, ma che si lasciano dietro un baratro qualitativo che poi nessuno, finita la sbornia dell’inaugurazione, osa più guardare.
La costante resistenziale #3
Un'analisi critica
Montecristo Wrintings
2017
Questo testo vuole analizzare alcuni aspetti della pratica curatoriale e dell’exhibiton making, come dicono gli anglosassoni, prendendo in considerazione come caso di studio l’ultima mostra de “La costante resistenziale” curata da Micaela Deiana al museo MAN di Nuoro. Inizialmente avevamo pensato di proporre lo stesso argomento sotto forma di intervista con la curatrice, ma questa non ci è stata accordata.
Abbiamo così deciso di sintetizzare qui, attraverso alcuni punti tematici, le nostre riflessioni scaturite dall’osservazione diretta del progetto curatoriale presso il MAN.
I
Ma si tratta veramente di una mostra che rappresenta il meglio dell’arte in Sardegna nella sua accezione più contemporanea?
La prima domanda che ci siamo posti osservando questa mostra è se effettivamente questa sia riuscita a rappresentare quanto di meglio sia stato prodotto in Sardegna negli ultimi anni. Di positivo c’è sicuramente il fatto che è stato messo in evidenza il ruolo socialmente stabilizzante e costruttivo di alcune piccole realtà culturali che costituiscono un primo terreno di frizione e confronto per la crescita e lo sviluppo della ricerca artistica. E’ chiaro dunque che concordiamo col tentativo della curatrice di aver cercato di evidenziare alcuni aspetti sempre un po’ nascosti o sconosciuti di una certa produzione artistica solitamente relegata ad un semplice regionalismo culturale.
Questo è un giudizio positivo che condividiamo e che scaturisce anche dalla nostra esperienza personale: per casualità del destino, anche noi, seppur in tempi e modi diversi, abbiamo fatto la nostra prima mostra durante un Gemine Muse patrocinato dalla Fondazione Bartoli Felter; così come il nostro primo incontro e l’inizio del nostro sodalizio artistico è nato tramite un workshop organizzato da Paolo Carta, ideatore insieme ad altri dell’associazione Progetto Contemporaneo.
La questione però è se queste associazioni, tutte messe assieme e libere di esprimersi a loro piacimento, siano state capaci di dare vita ad un immaginifico idoneo a riflettere la più recente produzione artistica in Sardegna.
In questo senso noi crediamo che la mostra non assolva a tale compito.
L’idea che una libera espressione di più spazi legati alla produzione artistica possa essere uno specchio fedele di quello che accade in un determinato territorio è un qualcosa che sottende un’inversione pericolosa del concetto stesso di arte. E’ come se nel Rinascimento per definire e mostrare quali fossero le opere d’arte prodotte nella città di Firenze di quel tempo si fossero invitate ad esporre tutte le botteghe della città, pretendendo poi che da questo invito a mostrare i propri prodotti si potesse delineare un orizzonte di valore e di senso storico artistico condiviso. Avete idea di quanto delizioso artigianato artistico si sarebbe visto considerando che nella Firenze del 400 c’erano più botteghe d’artista che di macellai?
Per delineare una qualsiasi produzione artistica bisogna partire sempre e comunque dalle opere, partire cioè da una considerazione di valore che
è necessaria; per cui si devono scegliere alcune opere in favore di altre, includere alcuni artisti ed escluderne degli altri e su tutto questo poi costruire una prospettiva di valore e di significato. Crediamo invece che in questa mostra, proprio perché si è cercato di mettersi a favore di una strana orizzontalità del giudizio (strana anche per il contesto museale che è sempre stato invece estremamente selettivo nelle sue scelte sul territorio), si siano invertite le stesse logiche di attribuzione del valore, per cui si è finito in sostanza per scambiare il “contenuto” con il “contenitore”.
Così si è preferito l’esempio democraticamente caratterizzato della piccola istituzione a quello dell’opera d’arte, necessariamente esclusivo e non democratico e si è finito per ottenere un orizzonte visivo dispersivo e non interpretabile, un vero disordine estetico derivante da una volontà di esprimere il tutto facendo però uno sforzo minimo di pura tautologia sul reale.
Questa logica orizzontale del valore ha portato ad una mostra in cui l’affastellamento e la confusione regnano sovrani, dove non si capisce quali e dove siano gli autori delle opere, dove le logiche della curiosità antropologica e del mercatino hanno finito per prendere il sopravvento sull’indirizzo conoscitivo e veritativo dell’arte.
A nostro parere era e sarebbe stato dunque importante raccontare la storia di alcuni spazi di produzione artistica che caratterizzano, ad un livello territoriale, la nostra isola, ma questo non sarebbe mai dovuto andare a discapito di una prospettiva che necessariamente è tenuta a scegliere secondo un’attribuzione di valore in cui è rintracciabile l’identità stessa dell’opera dell’arte.
II
Artisti in mostra senza opera e valori in contraddizione tra loro
Questa mostra porta in sé una particolare caratteristica, quella per cui tutto ciò che il MAN fino a questo momento ha espresso in termini di legittimazione artistica viene improvvisamente meno in favore di una eterogenea presentazione di piccoli spazi per l’arte contemporanea.
Se c’è uno spazio che negli anni si è riservato di presentare il meglio della produzione artistica isolana, quello è stato, fin dall’era Collu, il MAN.
Nei cinque anni di gestione a cura di Lorenzo Giusti questo taglio selettivo si è fatto ulteriormente più affilato, tanto che sono pochi gli artisti sardi ad aver esposto al museo o in progetti da questo promossi. Paradossalmente, di tutti gli artisti legittimati dal MAN, in questa mostra non ci sono opere, e vengono meno i progetti più significativi su cui il museo ha investito.
Facciamo degli esempi più concreti in modo da arrivare subito al nocciolo della questione.
Durante la direzione di Cristiana Collu, uno degli artisti sardi che più aveva ottenuto un certo consenso con il proprio lavoro e ricerca è stato Marco Lampis, che per alcuni anni riuscì ad aggiudicarsi alcuni premi e riconoscimenti prestigiosi come quello di partecipare al Corso Superiore di Arti Visive della Fondazione Ratti a Como (al tempo vera fucina promotrice di talenti), alla Gasworks International Program Residency di Londra, ad essere selezionato quale finalista del premio Terna e così via. Ora, che piaccia o no, il lavoro di Marco Lampis, se dovessimo delineare storicamente un percorso dell’arte sarda in questi ultimi anni, non potremmo escluderlo, perchè storicamente, nei fatti, non può esserlo, pena falsare quello che in quegli anni veniva legittimato istituzionalmente come valore artistico.
Ora, se in questa mostra andassimo a cercare di capire dove e come è stato rappresentato e contestualizzato il lavoro di Lampis, finiremmo per imbatterci nella Giuseppefraugallery.
Questa è uno spazio no-profit la cui vocazione artistica si esprime attraverso un chiaro indirizzo comunitario, legato al territorio del Sulcis-Inglesiente, e che da diversi anni svolge un’attività attorno alla quale sono passate e continuano a transitare ed operare figure provenienti dal panorama artistico italiano più importante e riconosciuto.
Durante la direzione di Lorenzo Giusti invece, l’artista sardo che fra tutti (insieme a Cristian Chironi, di cui parleremo in seguito) ha forse goduto di un periodo di maggiore visibilità grazie al sostegno del museo, è stato Alessandro Biggio con il progetto Braccia.
Questo progetto, fortemente sostenuto dal MAN, è stato presentato, in una collaborazione tra istituzioni, anche a Firenze presso la prestigiosa sede del Museo Marino Marini. A nostro parere questo progetto ha avuto il merito di aver rappresentato (in maniera intelligente quanto paradossale) alcune anomalie del fare arte nell’età contemporanea, in cui i limiti e le restrizioni dell’autorialità dell’opera si ibridano e si capovolgono sfruttando alcuni equilibri precari dipendenti degli stessi meccanismi di legittimazione artistica. La mostra Braccia di Alessandro Biggio è stata giustamente sostenuta dal MAN e giustamente avrebbe dovuto esser tenuta in conto tra gli avvenimenti salienti di questi anni di arte in Sardegna.
Anche in questo caso, in che modo Alessandro Biggio e la sua opera trovano spazio e rappresentazione in questo contesto?
Ancora una volta ritroviamo la Giuseppefraugallery.
Ma allora la Giuseppefraugallery è rappresentativa del lavoro di Marco Lampis e di Alessandro Biggio? Non esattamente, la Giuseppefraugallery ha una sua storia, peraltro molto connotata, che non ha nulla a che vedere con il lavoro di Lampis e Biggio se non in maniera occasionale.
Dov’è allora l’opera installativa legata alla ricerca sonora di Marco Lampis? Dov’è il raffinato paradosso concettuale proposto da Biggio con Braccia? Due importanti percorsi artistici e le loro opere vengono così riassunte attraverso un istituzione che non è rappresentativa del loro percorso artistico e della loro storia se non in maniera trasversale.
Uno degli artisti sardi emergenti, quello che attualmente è forse il più conosciuto in Italia, Cristian Chironi, non è neppure presente in mostra, e come sappiamo il MAN di Nuoro ha dedicato ampio spazio all’artista, sostenendolo con una mostra personale e due cataloghi per il doppio progetto ancora in corso di “Broken English” e “My house is a Le Corbusier”.
Il discorso finora fatto per il lavoro di Lampis, Biggio e Chironi vale anche per un altro artista tra i pochi sardi transitati al MAN guidato da Giusti: Pietro Mele, del cui lavoro significativo non ritroviamo traccia in nessuno degli spazi presentati in mostra (potremmo tuttavia averlo perso in qualcuno dei percorsi espositivi più confusionari). Emerge dunque una strana dicotomia tra ciò che il MAN aveva a suo tempo legittimato quale valore artistico-culturale e ciò che ora in questa mostra diviene rappresentativo della più recente produzione artistica in Sardegna.
E sarebbe qui lunga la lista dei casi degli artisti mancanti all’appello o goffamente rappresentati da qualche piccola istituzione artistica. Analizzando secondo questa prospettiva il progetto curatoriale della terza fase della Costante Resistenziale siamo giunti così alla conclusione che questo approccio fin troppo democratico e narrativo all’arte, ha finito per escludere dalla mostra il vero ed unico nesso dimostrativo tra arte e artista, cioè l’opera.
III
“Archive mania”
(Un laboratorio, un archivio, un network?)
In più occasioni (comunicato stampa, interviste) questa mostra viene presentata come un laboratorio, con al suo interno un archivio, o comunque una componente archivistica, che trova forma principalmente nella Project room del museo al piano terra. Cerchiamo di analizzare questi termini ricorrenti nella storia recente della curatela e dell’exhibition making: laboratorio e archivio.
Entrambe queste parole sono da anni sdoganate nel linguaggio dei comunicati stampa di grandi e piccole mostre. Da quando gli eventi espositivi hanno iniziato a includere dinamiche partecipative, opere a carattere processuale, situazioni, happenings e così via, parlare di esposizioni o mostre è diventato limitante; le mostre divengono territori di indagine, sono, così, opere le mostre stesse.
Un percorso parallelo, ma simile, ha seguito la cosiddetta “archive mania” (prendiamo il termine in prestito da Suelny Rolnik), la tendenza che, a partire dai primi anni delle sperimentazioni concettuali ha visto moltiplicarsi le opere e ricerche artistiche che si servono dell’archivio come strumento di costruzione, ricostruzione e protezione (a volte anche invenzione) della memoria storica e artistica.
Partiamo dal primo punto: il laboratorio.
Osservando la mostra ci siamo chiesti in cosa esattamente consistesse il laboratorio citato nel comunicato stampa, dal momento che la mostra affida a ogni spazio un suo ambiente lasciandolo libero di servirsene come meglio crede. Se manca una teoria sperimentale secondo la quale i materiali dovrebbero agire-reagire è raro che avvengano prodigiose scoperte, o semplicemente interessanti aggregazioni spontanee.
Dubitiamo che l’esperimento consista seriamente nel lasciare agire liberamente queste diciassette entità per vedere cosa succede. Ed infatti non ci sono reazioni, processi in atto, non c’è alcun cantiere, non ci sono nemmeno interazioni tra gli spazi se non nei termini di sconfinamenti spaziali, legati però alla struttura delle stanze del museo.
Ci sono diciassette mostre separate che sono, per giunta, esposizioni o presentazioni degli spazi nel senso più classico del termine. Se intendiamo il laboratorio come ambiente vivo in cui avvengono dinamiche, tentativi, interazioni, dal complesso della mostra- laboratorio non emerge nessun ardito esperimento, ma un caos generale in cui anche la fruizione dei lavori diventa molto complessa.
Questo caos, e tra breve arriveremo anche all’archivio, nasce principalmente da un fattore. Come abbiamo accennato prima, la mostra nasce come progetto orizzontale e democratico, in cui la curatrice invita a partecipare diciassette realtà che ha ritenuto le più significative del periodo storico 2000-2015 in Sardegna. Fatto questo, la figura del curatore all’interno della mostra sembra venir meno, nel senso che la dinamica corale sfocia in un disordine nel quale manca proprio la mano di una persona che si occupi di sfoltire, organizzare e ordinare i materiali presentati. Il narratore-curatore, novello Giovanni Verga, lascia che siano i fatti-spazi a parlare, defilandosi e lasciando che siano loro liberi di esprimersi e autorappresentarsi in una curatela corale.
Nel sito di Sardinia Fashion, un magazine online, abbiamo trovato una intervista alla curatrice, che citiamo dal momento che non abbiamo avuto modo di instaurare con lei un dialogo diretto. In questo caso, descrivendo il progetto curatoriale e la sua componente corale viene detto questo: ”...abbiamo ritenuto di poter provare a utilizzare l’occasione di “Sardegna Contemporanea” scostandoci dal format espositivo tradizionale e dalla classica mostra. È nato così questo laboratorio, di cui fanno parte 17 realtà fra associazioni culturali, spazi no profit, artist-run- space e gallerie attive negli anni Duemila in Sardegna. Si tratta di una modalità curatoriale ampiamente sperimentata nell’ultimo ventennio - penso al progetto Baltic Babel al Roseeum Malmö nel 2002 o la Biennale di Gwangju del 2002 - in cui si crea una piattaforma di curatela partecipata in cui sono gli stessi protagonisti a raccontare la propria esperienza. In questo senso il processo è importante tanto quanto la mostra: si ricostruisce la memoria, si analizza quanto si è fatto, si stabiliscono nuove narrazioni di autorappresentazione.”.
La curatrice cita due mostre rilevanti nella storia della curatela contemporanea, come modello già consolidato proposto, ad esempio, nella biennale
di Gwangju e nello specifico nel Project 1 curato da Hou Hanru, Charles Esche e Wan-Kyung Sung. La differenza in quel caso è che vengono invitati spazi e realtà provenienti da Asia ed Europa a riflettere sul rapporto tra dinamiche locali e globali, narrando il contesto sociale e antropologico in cui operano e si ergono, secondo i curatori, come ultime resistenze comunitarie ad un mainstream economico e creativo globalizzato.
Ora, è interessante osservare come La Costante Resistenziale #3 riproponga questo modello, ma nel contesto sardo in cui differenze sociali, antropologiche e contesti operativi si snodano su una superficie di 24.090 km quadri, un fazzoletto di terra in cui gli operatori culturali si conoscono perfettamente a vicenda e talvolta interagiscono.
È come se, venendo chiamato a preparare una mostra sull’arte sarda prodotta negli ultimi 15 anni, un curatore applicasse il sistema della biennale di Venezia, creando il padiglione di Sassari, quello di Cagliari, di Oristano e così via. Ovviamente estremizziamo, ma la differenza tra un progetto internazionale come la biennale di Gwangju e una mostra sull’arte in Sardegna sta tutta nella qualità del materiale da selezionare; non pensare al contesto specifico a cui si applica un modello teorico non aiuta, non in questo caso almeno.
Ultimo punto di questa terza parte: l’archivio. L’idea di una ricostruzione e di una sala studio che contenga i materiali relativi a tutto quanto sia stato prodotto in questi anni in Sardegna sarebbe certamente importante, fondamentale. Quanto era presente nella Project room al momento della nostra visita erano due tavoli stracolmi di cataloghi, libri e altri testi buttati gli uni sugli altri senza ordine o criterio, oltre a una videoproiezione inaccessibile.
Se dalla mostra è sparito il narratore, l’archivista deve aver seguito il suo esempio.
IV
Conclusione: un’occasione persa
A nostro parere la terza parte de La Costante Resistenziale al MAN di Nuoro è stata un’importante occasione persa. La Sardegna, a differenza di altre regioni, non possiede un’economia privata legata al mondo dell’arte e la stessa idea di arte contemporanea è un qualcosa di culturalmente lontano o forse incomprensibile per la maggior parte dei sardi. Il MAN di Nuoro diviene così una piccola oasi felice in un deserto economico e sociale che, volente o nolente, rappresenta la realtà che ogni giovane artista sardo deve affrontare per trovare il proprio spazio.
Il MAN è al momento forse l’unico museo in Sardegna capace di un potere istituzionale che possa dire la sua in un panorama nazionale ed internazionale, e l’ultima fase della Costante Resistenziale poteva (o forse doveva) essere un’ottima occasione per mostrare quanto di bello ed importante sia stato fatto in Sardegna in questi ultimi anni.
Abbiamo già lasciato che artisti come Maria Lai e Pinuccio Sciola se ne andassero senza una reale ricompensa per la loro grandezza e generosità. Abbiamo fortunatamente ancora tra noi Tonino Casula, un gigante, il cui eccezionale lavoro in 3D è praticamente sconosciuto a quasi tutto il sistema dell’arte italiano e straniero.
La terza parte della Costante Resistenziale doveva essere una mostra bellissima, e, come accaduto per tutte le più importanti mostre promosse dal MAN, si sarebbero dovute informare e invitare tutte le riviste di settore per condividere e diffondere quanto di positivo accade in Sardegna.
Intorno a questo progetto c’è stato invece un silenzio ed un’indifferenza inquietante.
Fino a quando non ci si prenderà la briga di capire che le mostre si fanno con le opere degli artisti e non con strampalati tentativi di copia ed incolla di modalità curatoriali (o di approcci consolidati), e fino a quando non ci si prenderà la responsabilità di affermare e sostenere a voce alta le proprie scelte in campo artistico, continueremo a proporre mostre che includono e accontentano tutti, ma che si lasciano dietro un baratro qualitativo che poi nessuno, finita la sbornia dell’inaugurazione, osa più guardare.