Lo strano caso delle pietre sonore di Elmar Daucher e Pinuccio Sciola
Montecristo Project
2019
Premessa: Sciola tra realtà e storytelling
In un monologo sul concetto di narrazione, incentrato sulla figura di Alessandro Magno, Alessandro Baricco racconta un curioso aneddoto. Lo scrittore, con l’intento di esemplificare la sua idea di storytelling, parla di un fatto realmente accaduto nel 2014 e riguardante il presidente francese Hollande: egli era infatti stato fotografato mentre lasciava un'alcova clandestina, in un appartamento nei pressi dell'Eliseo. Da quello che trapelò successivamente, sembra che il presidente francese fosse stato ripreso dopo una notte di passione con una giovane e bellissima attrice. La sua compagna del tempo, la giornalista Valerie Trierweiler, decise allora di scrivere un libro con l’intento di rendere pubblica la vita privata di Hollande; si trattava naturalmente del classico caso di libro-vendetta, in cui vennero raccontati gli episodi più malevoli e scabrosi della vita privata di Hollande, volti a demolirne completamente l’immagine. “Merci pour ce moment” ovvero “Grazie per questo momento” era il titolo del libro uscito in Francia il 4 settembre 2014.
Il giorno dell’uscita del libro, in un piccolo paese della Bretagna, Lorient, un libraio mette in vetrina un cartello con su scritto: “Non abbiamo il libro della Trierweiler”. Qualche ora dopo, qualcuno nota e fotografa quel cartello postandolo su Instagram e Facebook con il commento: “Un vero libraio a Lorient”. Il sotteso del post è chiaro e piace a tutta la Francia, tanto da essere condiviso e da diventare virale in rete ma non solo; anche altre librerie ora mettono nelle loro vetrine lo stesso cartello: “Non abbiamo il libro della Trierweiler”. Altri mettono cartelli addirittura più espliciti: “Noi siamo librai, abbiamo 11000 libri e non abbiamo l’inclinazione a essere la spazzatura della Trierweiler e Hollande. Grazie per questo momento di comprensione”.
Nasce così una gigantesca azione mediatica volta a rappresentare lo spirito critico ed intellettuale delle piccole librerie indipendenti di tutta la Francia; queste librerie intendono fieramente snobbare certi libri di bassa leva, seppure potenziali bestsellers, pur di rimarcare il proprio carattere libero ed indipendente.
Eppure, all’origine di tutta questa bufera mediatica, c’è una storia differente, quella del libraio indipendente di Lorient, che se avesse avuto il libro della Trierweiler, l’avrebbe venduto volentieri come qualunque altro libro. Le cose andarono infatti in maniera diversa e il libraio, intervistato successivamente, raccontò così la sua versione dei fatti: «Il libro è uscito giovedì 4 settembre. Il meccanismo della distribuzione è tale per cui noi librai indipendenti possiamo ordinare i libri solo quando sono usciti. Nella mia libreria non ne avevamo nessun esemplare, ma già fin dal mattino sono arrivate le richieste. Nessuna da parte dei nostri clienti abituali, gente sconosciuta, persone di passaggio. Ma noi non avevamo il libro. E allora ho scritto io stesso a penna questo semplice biglietto: Nous n’avons pas le livre de Trierweile…Io volevo semplicemente evitare che le persone facessero inutilmente la coda».
A questo punto ci troviamo a dover ricomporre un quadro della realtà alquanto scisso: da una parte abbiamo il dato reale, la vicenda che realmente è stata all’origine del cartello del libraio che non aveva il libro della Trierweiler da vendere, dall’altra quello che Baricco chiama lo storytelling, cioè la realtà immaginata, ma altrettanto reale e vera, di tutti coloro che hanno proiettato su questa determinata realtà un loro punto di vista alternativo e differente. C’è allora da chiedersi se la scoperta di come siano andati realmente i fatti abbia in qualche modo incrinato lo storytelling, la proiezione cioè immaginata e ideale sul reale che aveva finito per modificare e costituire un nuovo senso e significato ai fatti qui raccontati. La risposta è paradossale: lo storytelling non è stato modificato di una virgola e la vicenda è stata raccontata e trasmessa unicamente nel suo valore ideale e liberatorio, come la storia della piccola grande rivolta intellettuale delle librerie indipendenti di tutta la Francia.
Lo strano caso delle pietre sonore di Elmar Daucher e Pinuccio Sciola
Ragionando sul lavoro di Pinuccio Sciola ci siamo posti sempre diverse domande. In che modo si è evoluto il linguaggio visivo dello scultore che passa da una certa produzione di stampo novecentesco, che vedeva quali riferimenti formali artisti come Manzù, Arturo Martini, Giuseppe Mazzullo, ad una plasticità del tutto astratta e concettuale come quella delle “pietre sonore”? Come si può spiegare la sua capacità di produrre alcune opere bellissime ed altre terribili?
Come si spiega, inoltre, una fama iper-regionale di Sciola a fronte di una sua totale inesistenza sulla scena dell’arte contemporanea nazionale ed internazionale? Il titolo di questo breve testo riprende scherzosamente il contrasto Stevensoniano del Dr Jekill e del Signor Hyde per cercare di affrontare e spiegare quelle dicotomie del lavoro di Sciola che ci sembrano non risolte o, almeno, non affrontate criticamente dalla storia dell’arte sarda. La figura di Sciola infatti è presentata, in analisi critiche, narrative o nelle visite guidate al suo Giardino sonoro, sotto una forma agiografica e totalmente votata a uno storytelling che lo rendono una figura a metà tra un santo, un artista e un mistico. Ma questo stesso approccio riguarda anche le figure di altri due giganti come Maria Lai e Costantino Nivola; probabilmente questa forma di storytelling è solo la conseguenza della necessità di attrarre visitatori e turisti con immagini di artisti che parlano con le capre o con le pietre, di avere l’immagine consolatoria di un autore dal lavoro popolare ed accessibile radendone al suolo la complessità intrinseca. Se questo atteggiamento è in parte comprensibile da parte delle istituzioni e dagli eredi che tutelano e preservano il lavoro degli artisti, lo è però meno da parte degli storici dell’arte.
Partiamo dal primo punto: lo strano mistero dell’evoluzione artistica dello scultore. Quali sono quei passaggi linguistico-formali che hanno permesso all’artista di passare da una produzione di stampo novecentesco, che prendeva a modello artisti come Manzù, Arturo Martini, Giuseppe Mazzullo, ad una plasticità del tutto astratta e concettuale come quella delle pietre sonore? Nel suo periodo di formazione Sciola ha avuto modo di studiare e conoscere di persona l’arte spagnola prima e messicana poi; queste esperienze hanno sicuramente influito nel portarlo alla consapevole ricerca di una radice linguistica mediterranea nella propria opera e nella trasformazione di San Sperate in paese-museo. Lo hanno inoltre guidato nell’indirizzare quella ricerca che appare, fino al 1996, come un lungo periodo di crescita. Il lavoro di Sciola era infatti incentrato su una matrice figurativa realista, arcaica e popolare, nutrito dall’esperienza di artisti già citati come Manzù o Martini, ma con un’attenzione al tessuto sociale e materico sardo. Sono opere, queste di Sciola, che hanno un enorme valore dal punto di vista del raccordo con l’arte popolare sarda, ma il cui livello artistico non si avvicina mai a quello della produzione successiva. Questa disparità del valore che si riflette nelle due diverse produzioni dell’artista è difficile da non notare; la maturità, la precisione delle pietre non si trova mai nella produzione precedente dell’artista. Così come non vi si ritrova mai uno scarto intellettuale e concettuale, quell’idea che rende la pietra suono attraverso il taglio della sua stratificazione.
Opere di Sciola legate alla sua produzione figurativa
Questa differenza c’è sempre sembrata inspiegabile. In quella incredibile invenzione che sono le “pietre sonore” si era infatti rivelato un operare artistico potentissimo, capace di mettere assieme passato e futuro, il mondo arcaico e quello moderno. Ciò che manca tra queste opere così potenti e il loro passato sono i passaggi intermedi, per capire come Sciola sia arrivato a questa intuizione partendo da una matrice estetica puramente novecentesca. Le pietre sonore sono un’invenzione della maturità dell’artista: le prime vengono presentate al festival Timeinjazz di Berchidda nel 1996, quando lo scultore ha 54 anni. Questo fatto per noi era da considerarsi la normale evoluzione di un processo di maturazione: non crediamo infatti negli enfant prodige che popolano sempre più la scena dell’arte contemporanea, artisti che a 20 anni sono già proiettati nell’olimpo dell’arte; crediamo nel fatto che solo dopo tanta ricerca si approdi a qualcosa di proprio e di singolare. Quello che ci sorprende è il salto da un realismo di carattere sociale alla forma aniconica, arcaica, ma al tempo stesso minimale che ne caratterizza i lavori degli ultimi vent’anni di produzione. Le pietre sonore sono straordinarie; con un vero e proprio colpo di reni Sciola diviene “grande” creando qualcosa di nuovo: una pietra che da un lato recupera un minimalismo tipico dell’arte del nostro tempo, ma lo integra con una costante primitiva ed autoctona della nostra terra. Sopratutto però, ed il diavolo sta qui tutto nel dettaglio, queste pietre vibrano e suonano divinamente al tocco della mano dello scultore.
Tuttavia, questa differenza di livello che segna le produzioni di Sciola non ne diminuisce il valore. A nostro modo di vedere la sua apertura nei confronti della comunità, insieme all’impronta popolare e alla presenza di molte sue opere in luoghi pubblici, connota Sciola come il maggior punto di contatto tra i due mondi paralleli dell’arte in Sardegna: la produzione popolare e quella colta. Ed è forse proprio questo aspetto ad averne finora condizionato la valutazione critica.
Il cambio di rotta stilistico, il passaggio verso il suono e l’astrazione non è secondo noi un’invenzione, ma un prestito di Sciola nei confronti di un altro artista, che lui ha avuto la capacità di sfruttare e adattare al proprio contesto in maniera ideale.
Prima di affrontare il nodo della questione, cerchiamo risposte alla seconda domanda che ci siamo posti all’inizio del testo. Nel percorso di Sciola dal 1996 in avanti troviamo opere dal valore artistico-formale eccezionale che si affiancano ad altre che hanno, tolta la magnificenza propria della pietra (e dunque del materiale utilizzato), un sapore di puro decoro urbano. Come può un artista avere due modalità di produzione così incongruenti? Da una parte sculture perfette, potenti, assolute, dall’altra opere che si collocano come oggetto di pietra tra il modernariato da piscine per la Costa Smeralda o strambe lavorazioni della pietra per le strade, i giardini, le aiuole e le rotatorie della nostra isola. Questo nuovo sdoppiamento lo abbiamo sempre attribuito ai committenti: forse erano opere realizzate unicamente per una vendita mirata, fatte per soddisfare il gusto di un certo pubblico che, per ovvie ragioni, non può avere ben chiara la differenza tra un’opera d’arte e l’arredamento per il salotto. Poi, un bel giorno, imboccati dalle parole di una nostra cara amica, arriviamo alle Klangsteine di Elmar Daucher e per forza di cose abbiamo dovuto fatto marcia indietro e riconsiderato le nostre idee sull’evoluzione stilistica di Sciola.
C’è un’altra precisazione da fare. Non siamo stati noi i primi ad imbatterciin questa “strana somiglianza”, se così vogliamo chiamarla, tra le Klangsteine (pietre sonore, in tedesco) di Daucher e le pietre sonore di Sciola. In un testo di Rita Ladogana dal titolo “Materia e Vita”, per esempio, si fa un chiaro riferimento ad una possibile analogia tra l’opera di Daucher e quella di Sciola. Ora, quello che più ci ha più sorpreso, è notare come il tutto fosse trattato, argomentato e risulto in maniera assolutamente acritica, in un multiforme gioco di analogie ideali e richiami formali, per cui la scultura di Sciola si pone in rapporto con quella di Daucher, allo stesso modo in cui la si potrebbe porre in rapporto con le prime esperienze estetiche dei Pitagorici tra materia e suono. A nostro parere la questione non può esser risolta in questo modo; sarà che da artisti sappiamo bene come idee e forme si rubano spesso tra un artista e l’altro, ma certo la questione non può essere liquidata così. Bisognerebbe capire come sono andate realmente le cose, riportando la relazione storica tra Daucher e Sciola dal mondo Platonico delle influenze ideali ed astratte che piacciono tanto agli storici dell’arte, a quello della vita quotidiana degli artisti, alle loro debolezze, alla loro sete di successo e alla loro inguaribile necessità di diventare “grandi”. Ciò che per noi rimane inspiegabile è il passo aniconico e sonoro di Sciola, con opere che, va detto, arrivano 22 anni dopo quelle realizzate da Daucher (anche lui tra l’altro ha il suo giardino sonoro a Neuenburg) e con una somiglianza più che sorprendente. Se i litofoni sono infatti forme studiate ed utilizzate da secoli, ci sono forme e riferimenti che ci devono far riflettere sull’autenticità della scoperta dell’artista di San Sperate.
Proviamo a immaginare questa vicenda al contrario: pensiamo a un artista tedesco che, nel 1996, si inventa delle pietre sonore, klangsteine, che il nostro Sciola realizza invece già dal 1974. Anche Daucher, per giunta, crea un giardino scultoreo come quello di Sciola, anche le sue opere si sfiorano e riverberano al contatto con le mani o con altre pietre. Davvero nessuno avrebbe gridato al plagio, qui in Sardegna? Nessuno avrebbe ravvisato la più che leggera somiglianza tra le pietre sonore e le klangsteine, ma le avrebbe presentate come fasi omogenee di uno stesso percorso?
A nostro modo, nel tempo, abbiamo maturato una visione antropologico-creativa della figura dell’artista che potremmo suddividere in due tipologie generali: ci sono gli artisti il cui lavoro viene fuori attraverso un approccio intellettuale con la realtà ed artisti che operano con un approccio più legato al fare tecnico-manuale e materiale dell’arte, accompagnato da una certa intuizione “ispirata”.
Si tratta di due metodologie molto differenti, e forse, si potrebbe rappresentare meglio questa idea esemplificandola con una serie di autori che potremo citare, partendo proprio dal momento in cui l’arte inizia ad essere riconosciuta nella sua essenza ideale ed intellettualizzata agli inizi del ‘400; così, tra gli artisti ascrivibili alla prima modalità di ricerca, e dunque per un approccio intellettualizzato verso la realtà, potremmo citare Paolo Uccello, Leonardo da Vinci, Annibale Carracci, Nicolas Poussin, Jean-Auguste-Dominique Ingres, Paul Cézanne, Henri Matisse, Vasilij Vasil'evič Kandinskij, Giulio Paolini.
Potremmo invece citare Donatello, Michelangelo Buonarroti, El Greco, il Caravaggio, Eugène Delacroix, Vincent Van Gogh, Pablo Picasso, Chaïm Soutine, Francis Bacon, Jannis Kounellis, per la seconda modalità di ricerca. Abbiamo sempre collocato Sciola e la sua arte all’interno del secondo gruppo, tra quelli che in sostanza si rapportavano al fare artistico in modo intuitivo e ispirato, con soluzioni e scoperte formali trovate nel lavorio della materia stessa, con più “scoperte di pancia” che “visioni della mente”. Tutta la ricerca di Sciola fino alle pietre è votata a un lavoro manuale più che intellettuale, a un contatto con la materia e con le persone, a una socialità intensa più che ad una ricerca intellettuale isolata. Questo è chiaro nelle sue opere figurative, sia su un piano formale e della lavorazione del materiale che su un piano contenutistico in cui l’immagine è più vicina al lavoro d’officina e d’intuizione di un Donatello che alle sofisticazioni intellettuali di un Paolo Uccello. Nelle pietre sonore invece la componente razionale è molto più forte, così come la finezza realizzativa che nelle opere precedenti non arriva mai a questi livelli.
Quello che avviene nell’opera di Sciola è che l’invenzione di Daucher viene portata ai massimi livelli espressivi, in una "barocchizzazione" dell’idea che ne spiega, secondo noi, anche i livelli espressivi disomogenei. Le opere più riuscite di Sciola sono quelle in cui trova un equilibrio tra linee e masse funzionale all’esaltazione della forma della pietra. Nelle opere in cui il peso si sbilancia invece su una trattazione decorativa del materiale, su un’esasperazione dei motivi superficiali, rivediamo quell’estetica da piscina della Costa Smeralda che purtroppo contraddistingue la gran parte delle opere collocate in spazi pubblici dell’artista.
Questo rapporto tra Sciola e Daucher ci porta ad inquadrare il lavoro di Sciola in quella prospettiva storica che avevamo presentato nella premessa generale di questo nostro progetto. Anche lui fa così parte di quella peculiare identità importata dell'arte sarda; un’identità che trova il suo significato nel continuo assestamento estetico rispetto al processo di valorizzazione economica e legittimazione culturale dell'opera opera d'arte. Ma nel caso di Sciola, e questa è la peculiarità che ci interessa e che qui vorremmo analizzare, egli rimarrà, sia nella produzione artistica che nel suo modo di intendere l'arte e la vita, profondamente legato ad un umore popolare e semplice dell'arte, che ne ha fatto un simbolo dello spirito arcaico e primitivo dell'arte contemporanea sarda. Ponte tra modernismo e produzione popolare tra arte e artigianato, Sciola diviene per noi un’importante figura per seguire le tracce nascoste di quelle forme arcaiche e primitive che riemergono nella nostra isola quale sopravvivenza imprevista di una creatività spontanea, originaria e specificatamente sarda.
Siamo dunque sicuri che quello che scriviamo qui su Pinuccio Sciola non muoverà di una sola virgola lo storytelling ormai divenuto “verbo” dello scultore sardo “capace di far parlare le pietre”; quella realtà, quale visione riconosciuta, che per certi aspetti ricalca modalità narrative che risalgono alle agiografie medievali, con le quali si arriva a parlare di Pinuccio nello stesso modo in cui si parlerebbe di San Francesco d’Assisi, siamo sicuri non cambierà. Alla fine siamo noi stessi che vorremmo che questa stessa narrazione, questa visione mitizzata di Sciola e della sua arte continuasse immutata nel tempo e così venga tramandata; ma per onor del vero e di una certa giustizia intellettuale, abbiamo deciso di scrivere e di parlare dell’arte di Sciola in modo un po’ più analitico e razionale, avendo però ben presente che le nostre parole rimarranno inascoltate, o giudicate mendaci ed incoerenti. Sulla base di tutto questo abbiamo dunque deciso di scrivere “Lo strano caso delle pietre sonore di Elmar Daucher e di Pinuccio Sciola”
Lo strano caso delle pietre sonore di Elmar Daucher e Pinuccio Sciola
Montecristo Project
2019
Premessa: Sciola tra realtà e storytelling
In un monologo sul concetto di narrazione, incentrato sulla figura di Alessandro Magno, Alessandro Baricco racconta un curioso aneddoto. Lo scrittore, con l’intento di esemplificare la sua idea di storytelling, parla di un fatto realmente accaduto nel 2014 e riguardante il presidente francese Hollande: egli era infatti stato fotografato mentre lasciava un'alcova clandestina, in un appartamento nei pressi dell'Eliseo. Da quello che trapelò successivamente, sembra che il presidente francese fosse stato ripreso dopo una notte di passione con una giovane e bellissima attrice. La sua compagna del tempo, la giornalista Valerie Trierweiler, decise allora di scrivere un libro con l’intento di rendere pubblica la vita privata di Hollande; si trattava naturalmente del classico caso di libro-vendetta, in cui vennero raccontati gli episodi più malevoli e scabrosi della vita privata di Hollande, volti a demolirne completamente l’immagine. “Merci pour ce moment” ovvero “Grazie per questo momento” era il titolo del libro uscito in Francia il 4 settembre 2014.
Il giorno dell’uscita del libro, in un piccolo paese della Bretagna, Lorient, un libraio mette in vetrina un cartello con su scritto: “Non abbiamo il libro della Trierweiler”. Qualche ora dopo, qualcuno nota e fotografa quel cartello postandolo su Instagram e Facebook con il commento: “Un vero libraio a Lorient”. Il sotteso del post è chiaro e piace a tutta la Francia, tanto da essere condiviso e da diventare virale in rete ma non solo; anche altre librerie ora mettono nelle loro vetrine lo stesso cartello: “Non abbiamo il libro della Trierweiler”. Altri mettono cartelli addirittura più espliciti: “Noi siamo librai, abbiamo 11000 libri e non abbiamo l’inclinazione a essere la spazzatura della Trierweiler e Hollande. Grazie per questo momento di comprensione”.
Nasce così una gigantesca azione mediatica volta a rappresentare lo spirito critico ed intellettuale delle piccole librerie indipendenti di tutta la Francia; queste librerie intendono fieramente snobbare certi libri di bassa leva, seppure potenziali bestsellers, pur di rimarcare il proprio carattere libero ed indipendente.
Eppure, all’origine di tutta questa bufera mediatica, c’è una storia differente, quella del libraio indipendente di Lorient, che se avesse avuto il libro della Trierweiler, l’avrebbe venduto volentieri come qualunque altro libro. Le cose andarono infatti in maniera diversa e il libraio, intervistato successivamente, raccontò così la sua versione dei fatti: «Il libro è uscito giovedì 4 settembre. Il meccanismo della distribuzione è tale per cui noi librai indipendenti possiamo ordinare i libri solo quando sono usciti. Nella mia libreria non ne avevamo nessun esemplare, ma già fin dal mattino sono arrivate le richieste. Nessuna da parte dei nostri clienti abituali, gente sconosciuta, persone di passaggio. Ma noi non avevamo il libro. E allora ho scritto io stesso a penna questo semplice biglietto: Nous n’avons pas le livre de Trierweile…Io volevo semplicemente evitare che le persone facessero inutilmente la coda».
A questo punto ci troviamo a dover ricomporre un quadro della realtà alquanto scisso: da una parte abbiamo il dato reale, la vicenda che realmente è stata all’origine del cartello del libraio che non aveva il libro della Trierweiler da vendere, dall’altra quello che Baricco chiama lo storytelling, cioè la realtà immaginata, ma altrettanto reale e vera, di tutti coloro che hanno proiettato su questa determinata realtà un loro punto di vista alternativo e differente. C’è allora da chiedersi se la scoperta di come siano andati realmente i fatti abbia in qualche modo incrinato lo storytelling, la proiezione cioè immaginata e ideale sul reale che aveva finito per modificare e costituire un nuovo senso e significato ai fatti qui raccontati. La risposta è paradossale: lo storytelling non è stato modificato di una virgola e la vicenda è stata raccontata e trasmessa unicamente nel suo valore ideale e liberatorio, come la storia della piccola grande rivolta intellettuale delle librerie indipendenti di tutta la Francia.
Lo strano caso delle pietre sonore di Elmar Daucher e Pinuccio Sciola
Ragionando sul lavoro di Pinuccio Sciola ci siamo posti sempre diverse domande. In che modo si è evoluto il linguaggio visivo dello scultore che passa da una certa produzione di stampo novecentesco, che vedeva quali riferimenti formali artisti come Manzù, Arturo Martini, Giuseppe Mazzullo, ad una plasticità del tutto astratta e concettuale come quella delle “pietre sonore”? Come si può spiegare la sua capacità di produrre alcune opere bellissime ed altre terribili?
Come si spiega, inoltre, una fama iper-regionale di Sciola a fronte di una sua totale inesistenza sulla scena dell’arte contemporanea nazionale ed internazionale? Il titolo di questo breve testo riprende scherzosamente il contrasto Stevensoniano del Dr Jekill e del Signor Hyde per cercare di affrontare e spiegare quelle dicotomie del lavoro di Sciola che ci sembrano non risolte o, almeno, non affrontate criticamente dalla storia dell’arte sarda. La figura di Sciola infatti è presentata, in analisi critiche, narrative o nelle visite guidate al suo Giardino sonoro, sotto una forma agiografica e totalmente votata a uno storytelling che lo rendono una figura a metà tra un santo, un artista e un mistico. Ma questo stesso approccio riguarda anche le figure di altri due giganti come Maria Lai e Costantino Nivola; probabilmente questa forma di storytelling è solo la conseguenza della necessità di attrarre visitatori e turisti con immagini di artisti che parlano con le capre o con le pietre, di avere l’immagine consolatoria di un autore dal lavoro popolare ed accessibile radendone al suolo la complessità intrinseca. Se questo atteggiamento è in parte comprensibile da parte delle istituzioni e dagli eredi che tutelano e preservano il lavoro degli artisti, lo è però meno da parte degli storici dell’arte.
Partiamo dal primo punto: lo strano mistero dell’evoluzione artistica dello scultore. Quali sono quei passaggi linguistico-formali che hanno permesso all’artista di passare da una produzione di stampo novecentesco, che prendeva a modello artisti come Manzù, Arturo Martini, Giuseppe Mazzullo, ad una plasticità del tutto astratta e concettuale come quella delle pietre sonore? Nel suo periodo di formazione Sciola ha avuto modo di studiare e conoscere di persona l’arte spagnola prima e messicana poi; queste esperienze hanno sicuramente influito nel portarlo alla consapevole ricerca di una radice linguistica mediterranea nella propria opera e nella trasformazione di San Sperate in paese-museo. Lo hanno inoltre guidato nell’indirizzare quella ricerca che appare, fino al 1996, come un lungo periodo di crescita. Il lavoro di Sciola era infatti incentrato su una matrice figurativa realista, arcaica e popolare, nutrito dall’esperienza di artisti già citati come Manzù o Martini, ma con un’attenzione al tessuto sociale e materico sardo. Sono opere, queste di Sciola, che hanno un enorme valore dal punto di vista del raccordo con l’arte popolare sarda, ma il cui livello artistico non si avvicina mai a quello della produzione successiva. Questa disparità del valore che si riflette nelle due diverse produzioni dell’artista è difficile da non notare; la maturità, la precisione delle pietre non si trova mai nella produzione precedente dell’artista. Così come non vi si ritrova mai uno scarto intellettuale e concettuale, quell’idea che rende la pietra suono attraverso il taglio della sua stratificazione.
Opere di Sciola legate alla sua produzione figurativa
Questa differenza c’è sempre sembrata inspiegabile. In quella incredibile invenzione che sono le “pietre sonore” si era infatti rivelato un operare artistico potentissimo, capace di mettere assieme passato e futuro, il mondo arcaico e quello moderno. Ciò che manca tra queste opere così potenti e il loro passato sono i passaggi intermedi, per capire come Sciola sia arrivato a questa intuizione partendo da una matrice estetica puramente novecentesca. Le pietre sonore sono un’invenzione della maturità dell’artista: le prime vengono presentate al festival Timeinjazz di Berchidda nel 1996, quando lo scultore ha 54 anni. Questo fatto per noi era da considerarsi la normale evoluzione di un processo di maturazione: non crediamo infatti negli enfant prodige che popolano sempre più la scena dell’arte contemporanea, artisti che a 20 anni sono già proiettati nell’olimpo dell’arte; crediamo nel fatto che solo dopo tanta ricerca si approdi a qualcosa di proprio e di singolare. Quello che ci sorprende è il salto da un realismo di carattere sociale alla forma aniconica, arcaica, ma al tempo stesso minimale che ne caratterizza i lavori degli ultimi vent’anni di produzione. Le pietre sonore sono straordinarie; con un vero e proprio colpo di reni Sciola diviene “grande” creando qualcosa di nuovo: una pietra che da un lato recupera un minimalismo tipico dell’arte del nostro tempo, ma lo integra con una costante primitiva ed autoctona della nostra terra. Sopratutto però, ed il diavolo sta qui tutto nel dettaglio, queste pietre vibrano e suonano divinamente al tocco della mano dello scultore.
Tuttavia, questa differenza di livello che segna le produzioni di Sciola non ne diminuisce il valore. A nostro modo di vedere la sua apertura nei confronti della comunità, insieme all’impronta popolare e alla presenza di molte sue opere in luoghi pubblici, connota Sciola come il maggior punto di contatto tra i due mondi paralleli dell’arte in Sardegna: la produzione popolare e quella colta. Ed è forse proprio questo aspetto ad averne finora condizionato la valutazione critica.
Il cambio di rotta stilistico, il passaggio verso il suono e l’astrazione non è secondo noi un’invenzione, ma un prestito di Sciola nei confronti di un altro artista, che lui ha avuto la capacità di sfruttare e adattare al proprio contesto in maniera ideale.
Prima di affrontare il nodo della questione, cerchiamo risposte alla seconda domanda che ci siamo posti all’inizio del testo. Nel percorso di Sciola dal 1996 in avanti troviamo opere dal valore artistico-formale eccezionale che si affiancano ad altre che hanno, tolta la magnificenza propria della pietra (e dunque del materiale utilizzato), un sapore di puro decoro urbano. Come può un artista avere due modalità di produzione così incongruenti? Da una parte sculture perfette, potenti, assolute, dall’altra opere che si collocano come oggetto di pietra tra il modernariato da piscine per la Costa Smeralda o strambe lavorazioni della pietra per le strade, i giardini, le aiuole e le rotatorie della nostra isola. Questo nuovo sdoppiamento lo abbiamo sempre attribuito ai committenti: forse erano opere realizzate unicamente per una vendita mirata, fatte per soddisfare il gusto di un certo pubblico che, per ovvie ragioni, non può avere ben chiara la differenza tra un’opera d’arte e l’arredamento per il salotto. Poi, un bel giorno, imboccati dalle parole di una nostra cara amica, arriviamo alle Klangsteine di Elmar Daucher e per forza di cose abbiamo dovuto fatto marcia indietro e riconsiderato le nostre idee sull’evoluzione stilistica di Sciola.
C’è un’altra precisazione da fare. Non siamo stati noi i primi ad imbatterciin questa “strana somiglianza”, se così vogliamo chiamarla, tra le Klangsteine (pietre sonore, in tedesco) di Daucher e le pietre sonore di Sciola. In un testo di Rita Ladogana dal titolo “Materia e Vita”, per esempio, si fa un chiaro riferimento ad una possibile analogia tra l’opera di Daucher e quella di Sciola. Ora, quello che più ci ha più sorpreso, è notare come il tutto fosse trattato, argomentato e risulto in maniera assolutamente acritica, in un multiforme gioco di analogie ideali e richiami formali, per cui la scultura di Sciola si pone in rapporto con quella di Daucher, allo stesso modo in cui la si potrebbe porre in rapporto con le prime esperienze estetiche dei Pitagorici tra materia e suono. A nostro parere la questione non può esser risolta in questo modo; sarà che da artisti sappiamo bene come idee e forme si rubano spesso tra un artista e l’altro, ma certo la questione non può essere liquidata così. Bisognerebbe capire come sono andate realmente le cose, riportando la relazione storica tra Daucher e Sciola dal mondo Platonico delle influenze ideali ed astratte che piacciono tanto agli storici dell’arte, a quello della vita quotidiana degli artisti, alle loro debolezze, alla loro sete di successo e alla loro inguaribile necessità di diventare “grandi”. Ciò che per noi rimane inspiegabile è il passo aniconico e sonoro di Sciola, con opere che, va detto, arrivano 22 anni dopo quelle realizzate da Daucher (anche lui tra l’altro ha il suo giardino sonoro a Neuenburg) e con una somiglianza più che sorprendente. Se i litofoni sono infatti forme studiate ed utilizzate da secoli, ci sono forme e riferimenti che ci devono far riflettere sull’autenticità della scoperta dell’artista di San Sperate.
Proviamo a immaginare questa vicenda al contrario: pensiamo a un artista tedesco che, nel 1996, si inventa delle pietre sonore, klangsteine, che il nostro Sciola realizza invece già dal 1974. Anche Daucher, per giunta, crea un giardino scultoreo come quello di Sciola, anche le sue opere si sfiorano e riverberano al contatto con le mani o con altre pietre. Davvero nessuno avrebbe gridato al plagio, qui in Sardegna? Nessuno avrebbe ravvisato la più che leggera somiglianza tra le pietre sonore e le klangsteine, ma le avrebbe presentate come fasi omogenee di uno stesso percorso?
A nostro modo, nel tempo, abbiamo maturato una visione antropologico-creativa della figura dell’artista che potremmo suddividere in due tipologie generali: ci sono gli artisti il cui lavoro viene fuori attraverso un approccio intellettuale con la realtà ed artisti che operano con un approccio più legato al fare tecnico-manuale e materiale dell’arte, accompagnato da una certa intuizione “ispirata”.
Si tratta di due metodologie molto differenti, e forse, si potrebbe rappresentare meglio questa idea esemplificandola con una serie di autori che potremo citare, partendo proprio dal momento in cui l’arte inizia ad essere riconosciuta nella sua essenza ideale ed intellettualizzata agli inizi del ‘400; così, tra gli artisti ascrivibili alla prima modalità di ricerca, e dunque per un approccio intellettualizzato verso la realtà, potremmo citare Paolo Uccello, Leonardo da Vinci, Annibale Carracci, Nicolas Poussin, Jean-Auguste-Dominique Ingres, Paul Cézanne, Henri Matisse, Vasilij Vasil'evič Kandinskij, Giulio Paolini.
Potremmo invece citare Donatello, Michelangelo Buonarroti, El Greco, il Caravaggio, Eugène Delacroix, Vincent Van Gogh, Pablo Picasso, Chaïm Soutine, Francis Bacon, Jannis Kounellis, per la seconda modalità di ricerca. Abbiamo sempre collocato Sciola e la sua arte all’interno del secondo gruppo, tra quelli che in sostanza si rapportavano al fare artistico in modo intuitivo e ispirato, con soluzioni e scoperte formali trovate nel lavorio della materia stessa, con più “scoperte di pancia” che “visioni della mente”. Tutta la ricerca di Sciola fino alle pietre è votata a un lavoro manuale più che intellettuale, a un contatto con la materia e con le persone, a una socialità intensa più che ad una ricerca intellettuale isolata. Questo è chiaro nelle sue opere figurative, sia su un piano formale e della lavorazione del materiale che su un piano contenutistico in cui l’immagine è più vicina al lavoro d’officina e d’intuizione di un Donatello che alle sofisticazioni intellettuali di un Paolo Uccello. Nelle pietre sonore invece la componente razionale è molto più forte, così come la finezza realizzativa che nelle opere precedenti non arriva mai a questi livelli.
Quello che avviene nell’opera di Sciola è che l’invenzione di Daucher viene portata ai massimi livelli espressivi, in una "barocchizzazione" dell’idea che ne spiega, secondo noi, anche i livelli espressivi disomogenei. Le opere più riuscite di Sciola sono quelle in cui trova un equilibrio tra linee e masse funzionale all’esaltazione della forma della pietra. Nelle opere in cui il peso si sbilancia invece su una trattazione decorativa del materiale, su un’esasperazione dei motivi superficiali, rivediamo quell’estetica da piscina della Costa Smeralda che purtroppo contraddistingue la gran parte delle opere collocate in spazi pubblici dell’artista.
Questo rapporto tra Sciola e Daucher ci porta ad inquadrare il lavoro di Sciola in quella prospettiva storica che avevamo presentato nella premessa generale di questo nostro progetto. Anche lui fa così parte di quella peculiare identità importata dell'arte sarda; un’identità che trova il suo significato nel continuo assestamento estetico rispetto al processo di valorizzazione economica e legittimazione culturale dell'opera opera d'arte. Ma nel caso di Sciola, e questa è la peculiarità che ci interessa e che qui vorremmo analizzare, egli rimarrà, sia nella produzione artistica che nel suo modo di intendere l'arte e la vita, profondamente legato ad un umore popolare e semplice dell'arte, che ne ha fatto un simbolo dello spirito arcaico e primitivo dell'arte contemporanea sarda. Ponte tra modernismo e produzione popolare tra arte e artigianato, Sciola diviene per noi un’importante figura per seguire le tracce nascoste di quelle forme arcaiche e primitive che riemergono nella nostra isola quale sopravvivenza imprevista di una creatività spontanea, originaria e specificatamente sarda.
Siamo dunque sicuri che quello che scriviamo qui su Pinuccio Sciola non muoverà di una sola virgola lo storytelling ormai divenuto “verbo” dello scultore sardo “capace di far parlare le pietre”; quella realtà, quale visione riconosciuta, che per certi aspetti ricalca modalità narrative che risalgono alle agiografie medievali, con le quali si arriva a parlare di Pinuccio nello stesso modo in cui si parlerebbe di San Francesco d’Assisi, siamo sicuri non cambierà. Alla fine siamo noi stessi che vorremmo che questa stessa narrazione, questa visione mitizzata di Sciola e della sua arte continuasse immutata nel tempo e così venga tramandata; ma per onor del vero e di una certa giustizia intellettuale, abbiamo deciso di scrivere e di parlare dell’arte di Sciola in modo un po’ più analitico e razionale, avendo però ben presente che le nostre parole rimarranno inascoltate, o giudicate mendaci ed incoerenti. Sulla base di tutto questo abbiamo dunque deciso di scrivere “Lo strano caso delle pietre sonore di Elmar Daucher e di Pinuccio Sciola”