Nel museo non ci sono muse
Un dialogo tra Montecristo Project (Enrico Piras, Alessandro Sau) e Vittorio Parisi pubblicato sul numero 112 di Insideart
[ITA] Le domande di solito non le fanno gli artisti. Di solito, almeno in queste pagine, gli artisti sono quelli che rispondono. Questa volta invece è diverso, a mettere il punto interrogativo alla fine della frase sono due autori, Enrico Piras e Alessandro Sau, componenti del duo Montecristo Project. Dall’altra parte della scrivania Vittorio Parisi, insegnante di estetica al dipartimento di Arts plastiques dell’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne. Un botta e risposta incentrato sull’istituzione museale, usato dal duo come supporto teorico per il nuovo dipartimento di Montecristo Project, lo spazio UU.
Caro Vittorio, innanzitutto grazie per aver accettato questa intervista, il tema principale su cui ruoterà è il museo. Iniziamo da una nomina che ha fatto molto parlare: l’uomo di spettacolo Luca Bizzarri come nuovo presidente di Palazzo Ducale a Genova. Che ne pensi?
«Dunque, la nomina di Luca Bizzarri mi sembra una cosa talmente poco ortodossa e poco convenzionale (non nel senso di out of the box, o disruptive, come direbbero gli anglosassoni per sottolineare una cosa controversa ma positiva), una cosa davvero improbabile e balzana che un po’ mi sento a disagio nel manifestare una perplessità ovvia, ampiamente condivisa e tendente allo sgomento o alla risata isterica. A Palazzo Ducale quello del presidente non è un ruolo simbolico, ma esecutivo, credo che Luca Bizzarri avrà voce in capitolo tanto sulla gestione quanto sulla programmazione dell’istituto: quindi, che dire? Si fosse trattato di un gesto situazionista, una specie di trolling da parte di un’amministrazione illuminata nei confronti della sacralità del museo/galleria come istituzione, avrei applaudito alla scelta con vivo entusiasmo. Ma non è il caso, almeno stando al commento del sindaco di Genova: ”una scelta strategica che renderà Palazzo Ducale più pop”. Insomma, loro sono convinti che sia proprio una scelta out of the box, in realtà è perfettamente in linea con la lunga, inesorabile popificazione della cultura in Italia, a cui d’altronde è perfettamente allineata la politica ministeriale di cercare direttori di museo sempre più manager e sempre meno scholar. Ora, se dallo scholar si passa al manager e dal manager al personaggio televisivo (per intenderci, quello che porta visibilità e contatti), mi sembra che la distruzione del museo si stia definitivamente compiendo. Dispiace solo che ciò non stia accadendo alla maniera dei futuristi: il museo in realtà è sempre lì, a dirci cosa è degno di attenzione istituzionale e cosa no. Detto ciò, Luca Bizzarri mi sta anche simpatico e sinceramente gli auguro di smentire tutti, me in primis».
Nella tua risposta ci sono già disparati punti di riflessione. Partiamo dall’ultimo, dal buon vecchio Marinetti. Se il nostro tempo manifesta a parole slanci d’amore per arte e cultura, nella pratica compie una pacifico atto di ‘’distruzione’’ continuo che avrebbe fatto sbiancare i futuristi. In nome del guadagno il museo si sta trasformando da tempio contenitore di opere sacre a mercato per turisti amanti del selfie. Ci piacerebbe interrogarti su queste due diverse forme di distruzione e la loro ricaduta simbolica.
«La sacralità dell’opera d’arte e del museo secondo me è solo apparentemente scalfita dalla presenza di turisti armati di cellulare che instagrammano in diretta quello che vedono (e io sono chiaramente uno di loro): il museo è anzitutto un contenitore di rapporti sociali, e penso lo sia sempre stato: andare al museo era ieri come oggi un modo di distinguersi culturalmente. Se prima però erano in pochi a poterselo permettere, nell’era dell’arte per tutti (cito il titolo di un saggio di Montale apparso in Auto da fé), chiunque può provare il brivido di sentirsi e farsi percepire più colto e impegnato.
Due cose, mi sembra, sono cambiate oggi.
La prima. Il museo, come giustamente dite, deve sfoggiare numeri da centro commerciale, perché in epoca di spending review è importante che il museo finga di avere una qualche utilità e sostenibilità economica. Questa è la cosa che, personalmente, mi crea più problemi: il ridicolo grido di battaglia con la cultura si mangia, che puntualmente esplode in bocca a quei quattro gatti che campano di commesse pubbliche e ci tengono a difendere la posizione. In realtà l’eccesso di cultura e d’arte che produciamo e consumiamo quotidianamente sono part maudite, sono soprattutto forme di spreco, e come tali andrebbero eventualmente sostenute da uno Stato – cosa che, per quanto mi riguarda, non è affatto obbligatoria, per questo sottolineo quell’ ”eventualmente”).
La seconda. Come dicevo in introduzione, la sacralità dell’opera d’arte nella nostra società è intatta. A essere mutata profondamente è l’idea di opera d’arte, così come l’idea di artista. Il concetto di autorialità è da secoli ormai tenuto in altissima considerazione nella nostra società, solo che si è progressivamente emancipato dal discorso qualitativo dell’opera d’arte (materiali, tecniche, stili, manifestazione di sentimenti, impegno politico) fino a divenire tautologico: un artista non è più un individuo dotato di particolare talento, un artista è semplicemente un artista, uno che ha facoltà di proclamarsi tale perché, da Beuys e compagnia bella in poi, ogni essere umano è un artista, a prescindere da ciò che fa e soprattutto da come lo fa. A fare il bello e il cattivo tempo è sempre e comunque l’artworld: sono cioè mercato e istituzioni a stabilire chi, tra quelli che si autoproclamano artisti, è degno di riconoscimento.
Tornando ai futuristi, essi non volevano distruggere i musei in quanto tali: volevano distruggere la sacralità, l’istituzione, il dispositivo che detta le regole. In altre parole, proprio ciò che oggi chiamiamo artworld. Oggi questo dispositivo è molto più forte di ieri, proprio perché indossa abiti più casual (il concept store, il lounge bar, il pop onnipresente, la mostra di Bjork al MoMA…e così via) e finge la caduta delle barriere tra l’arte e la vita di tutti i giorni. I veri iconoclasti, i futuristi e i marinettiani d’oggi sono quelli che distruggono i nuovi feticci, tipo il Maximo Caminero che fracassò a terra un vaso da un milione di dollari di Ai Weiwei. Mi auguro che di questi eroi se ne vedano sempre di più».
Sembra evidente, da ciò che dici, che se da un lato il museo mantiene il suo statuto di legittimazione di ciò che è arte e ciò che non lo è, dall’altro lo fa da una posizione puramente relativa, poiché siamo tutti artisti, ma alcuni, Orwellianamente, sono più artisti di altri. Negli ultimi decenni si è diffusa questa tendenza chiamata Institutional critique, una pratica che vuole minare lo statuto delle istituzioni (intese non solo come enti fisici, chiaramente) attraverso una pratica di riflessione e auto-critica del sistema verso se stesso; cosa ne pensi? Come vedi le pratiche, oggi così di moda, della decolonizzazione (parola che compare ormai nel 90% dei saggi Art-related) e il ruolo dei curatori in un contesto istituzionale così complesso? Possono essere parte, le stesse persone che formano l’istituzione, di una sostanziale decostruzione e autocritica delle istituzioni per cui operano?
«Provo a immaginare come potremmo ricordare tra una cinquantina d’anni (ma forse molto prima) questo lungo periodo di autocritica, decostruzione e decolonizzazione dell’artworld da parte di se stesso. L’arte che nasce dalla critica istituzionale sarà molto probabilmente considerata genere a sé, e soprattutto parte di un ancor più lungo, secolare processo di smaterializzazione e concettualizzazione dell’opera d’arte. Ci renderemo conto che quest’arte portava con sé la presunzione di poter essere di tutti e per tutti, specie per quei gruppi sociali più deboli che in teoria avrebbe voluto difendere: in realtà ha essa stessa svolto un’importante funzione di distinzione sociale, contribuendo a quello che Alessandro Dal Lago chiamerebbe mercato dell’aura, rimanendo accessibile solo a un certo tipo di spettatori (altamente scolarizzati e nelle possibilità di dedicare tempo a mostre e libri), e dipendente dal sostegno di grandi finanziatori, pubblici o privati. Per quanto mi riguarda, una vera critica dell’istituzione non può nascere in seno all’istituzione: è un modo che ha l’istituzione per lavarsi la coscienza, quello di far nascere in provetta moti di ribellione addomesticata, oppure di recuperare e addomesticare quelli già esistenti. Per decolonizzare (o de-occidentalizzare) l’istituzione, ad esempio, la ricetta è una sola, e molto semplice: l’istituzione dovrebbe sparire. Oppure bisogna mettersi l’anima in pace, e accettare che tutto ciò che passa per un museo o per una galleria è irrimediabilmente occidentalizzato, proprio perché la categorizzazione di certi oggetti in opere d’arte, la loro conservazione e il loro commercio sono dispositivi occidentali. Diverso è il caso per chi nasce e agisce al di fuori di un contesto istituzionale: fino a quando non viene cooptato dall’istituzione è l’unico a poter godere del privilegio dell’anti-istituzionalità e della controcultura».
Vorremmo ritornare alla tua precedente risposta. Come dici giustamente, il museo si lega prima di tutto alla sfera sociale, ed esiste proprio in questa logica comunitaria; rimane però il fatto che il contenuto sia e rimanga appunto una ‘’forma di spreco’’. Ora è proprio nella logica di un corpo sociale quello di razionalizzare il non-razionabile, di renderlo ‘’mansueto’’, di farne un luogo ‘’abitabile’’, socialmente condivisibile, e perché no, un mezzo di legittimazione culturale. In questo concordiamo pienamente, però è chiaro che il pericolo sia a questo punto quello di una malata prevalenza della prima polarità, razionale/sociale, su quella irrazionale/maledetta. Oggi c’è una parola, che in sé non ha alcun senso negativo, ma che spesso sentiamo ed è usata come un mantra (lo stesso si potrebbe dire per ‘’contemporaneità’’ o ‘’modernità’’) e che ci spaventa molto; questa parola forse nasconde il lato più ottuso e cieco dell’uomo del nostro tempo ed è ‘’professionalità’’. Giocosamente ti vorremmo chiedere tu ‘’come sei messo a professionalità’’?
«Credo di essere la persona meno professionale di questo mondo (malgrado abbia persino un ripugnante account su LinkedIn e di recente mi sia sforzato di aprire un sito web personale) perché fondamentalmente lavorare mi ha sempre annoiato a morte e competere per riuscire mi getta sin dalla più tenera età in uno stato d’angoscia che non sto a dirvi. In sostanza, sono uno molto pigro, che ama farsi i cavoli suoi in attesa che gli piovano le opportunità dal cielo, e anche per questo la vedo nera per me emergere in un mondo, quello del cosiddetto lavoro culturale, dove occorre essere spregiudicati come agenti di Wall Street per guadagnarsi – cosa poi? – un poco di visibilità e un misero panino quotidiano. Professionalità e arte, per quanto mi riguarda, non hanno nulla da spartire. Che non vuol dire che i veri artisti siano quelli che fanno la fame, o che prima di oggi non esistessero grandi artisti che fossero anche abili mercanti di se stessi. Adorno e Horkheimer fanno l’esempio di Beethoven nel capitolo sull’Industria culturale della Dialettica dell’Illuminismo:
”Beethoven mortalmente ammalato, che getta via un romanzo di Walter Scott esclamando: «Questo furfante scrive per denaro», e nello stesso tempo, ancora nello sfruttamento degli ultimi quartetti, che rappresentano il non plus ultra del rifiuto di ogni concessione al mercato, si rivela un uomo d’affari quanto mai esperto e ostinato, offre l’esempio più eloquente e più grandioso di questa unità degli opposti (mercato e autonomia) nell’arte borghese”.
Il problema della professionalità nell’arte riguarda in realtà quello, più ampio, della divisione del lavoro nella società capitalistica. Oggi più che divisione dovremmo dire estrema frammentazione, dovuta alla necessità che ciascuno di noi si iper-specializzi in qualcosa di molto preciso e circoscritto. Ciò è palese persino nel mondo della ricerca nelle scienze umane: si pensi a Luciano Canfora, una specie d’intellettuale e di studioso totale ormai in estinzione nelle università, via via sostituito da una massa indefinita e sottopagata di accademici espertissimi in questioni sempre più minuziose, cui però non è consentito muoversi oltre quegli angustissimi confini intellettuali.
Nel mondo dell’arte questo processo è ovviamente iniziato con l’istituzione del museo, della galleria, del salon, della fiera… Finché il concetto di professionalità si riduce al fatto di esporre degli artisti che ancora riescono a dare liberamente esito alle loro intuizioni, al loro slancio poetico, si può dire che esso sia in un certo senso innocuo. Il problema è quando l’essere professionale si sostituisce all’intuizione dell’artista, alla sua autonomia: cioè quando, per campare, il Beethoven di turno deve necessariamente concedere qualcosa, se non tutto, al mercato. Professionalità è sapere di dover produrre arte in un certo modo, allestire una mostra in un certo modo, scrivere un testo di catalogo in un certo modo: un certo modo dettato dalle necessità di mercato, s’intende.
La comparsa del curatore (e il fatto che ormai in tutte le scuole d’arte si possa anche studiare per diventare curatori) mi sembra uno dei passaggi più evidenti nel processo di professionalizzazione del mondo dell’arte: il curatore media tra le pretese del museo e l’autonomia dell’artista, sa come allestire la mostra, come promuoverla, come scrivere un testo in maniera catchy, e via discorrendo».
Dalle tue risposte ci sembra chiaro come la tua formazione di intellettuale abbia in parte radice in quella straordinaria riflessione che parte dalla filosofia di Marx e trova poi un approfondimento in campo estetico in altri giganti del pensiero quali Adorno, Horkheimer, Benjamin, Lukàcs, Hauser e altri ancora. Personalmente troviamo che questa prospettiva estetica rimanga ancora la più fruttuosa e intelligente per capire il nostro mondo e il futuro più prossimo. Vorremmo allora chiederti quali secondo te sono i testi più significativi per comprendere la condizione odierna dell’arte e quali appunto i testi che tutti ‘’gli addetti ai lavori del mondo dell’arte’’ dovrebbero conoscere e perché.
«Penso che gli autori da voi citati siano ancora estremamente utili per comprendere il mondo dell’arte di oggi. Ogni volta che rileggo l’Adorno di Teoria Estetica, per esempio, mi sembra che sul rapporto tra arte, capitalismo e media di massa sia tutt’oggi difficile superarlo in lucidità. Sicuramente è ancora il mio primo punto di riferimento. Restando su Francoforte, e dando per scontata l’importanza, sempre attuale a mio avviso, di testi come il capitolo sull’industria culturale nella Dialettica dell’Illuminismo, o il Benjamin de L’opera d’arte ai tempi della sua riproducibilità tecnica, negli ultimi anni mi è capitato di leggere un testo poco conosciuto di Marcuse, La dimensione estetica. Qui si promuove l’indipendenza dei contenuti dell’opera d’arte rispetto alle questioni sociali, politiche ed economiche, e trovo ciò alquanto utile, perché rimette l’accento sul valore della sensualità nell’opera d’arte come veicolo di rivoluzione, in un’epoca (il testo è del 1977) in cui si assiste al pieno fermento di quella che l’Adorno estetico aveva già definito disartizzazione dell’arte, e che riguarda sia la riduzione dell’arte a intrattenimento, sia la sua smaterializzazione e concettualizzazione.
Sull’odierno versante francese direi Jacques Rancière, in particolare Le spectateur émancipé del 2008: tutto il decennio precedente era stato vampirizzato dalla cosiddetta estetica relazionale teorizzata da Nicolas Bourriaud, ennesimo proclama a favore della caduta delle barriere tra arte e vita, e soprattutto tra la figura dell’artista e quella dello spettatore. Ecco, Rancière ritiene che proprio questa volontà ostentata di annullare la distanza tra artista e spettatore, coinvolgendo quest’ultimo nei processi creativi del primo, sia illusoria e anzi un modo per rimarcare questa distanza. Lo segue a ruota Claire Bishop qualche anno più tardi, con Artificial Hells, altro libro che metto su questo scaffale ideale, anche lei criticando tutte le menate sull’arte partecipativa di cui ancora non siamo riusciti a liberarci. Mi capita spesso di chiedermi quali siano le reali ragioni per cui si sia tanto insistito – e si continui a insistere – sul coinvolgimento dello spettatore nell’attività dell’artista: penso che tutta questa smania per la inclusiveness sia dovuta sempre alla cattiva coscienza istituzionale di cui parlavamo prima. Ma ciò rientra a pieno titolo in una delle possibili definizioni di kitsch, per lo meno mi fa pensare a quella proposta da Kundera: la necessità di negare la merda, di occultare a tutti i costi le gerarchie che da sempre scolpiscono il mondo, non ultimo quello dell’arte. Coinvolgendo lo spettatore l’istituzione (incarnata dall’artista) finge di azzerare la distanza tra sé e quest’ultimo. Marcuse direbbe che è una forma di tolleranza repressiva, io ci vedo anche un po’ di schizofrenia, e su questo punto in particolare trovo molto lucido il Boris Groys di In the flow, dove si sottolinea come il mondo dell’arte di oggi sia diviso tra la volontà di dichiarare l’opera d’arte un oggetto o una pratica o un’esperienza qualunque, pari agli altri oggetti e alle altre pratiche, ma al tempo stesso esso continui nei fatti ad attribuirvi un carattere sacro, da preservare e da esporre. Insomma, da distinguere rispetto a tutto il resto.
Tra gli italiani, penso che il contributo più importante rimanga ancora quello di Umberto Eco durante i Sessanta, e che Opera aperta abbia radicalmente trasformato il nostro modo di pensare e commentare l’opera d’arte. Tuttavia, cercando un libro che mi abbia marcato particolarmente, direi che è L’uomo senza contenuto di Agamben, dove tra l’altro sono trattati i due argomenti su cui si è mossa questa nostra discussione: il museo, e la distinzione tra l’artista e lo spettatore. Credo di aver già citato Alessandro Dal Lago nella risposta alla domanda precedente: ecco, tra i testi pubblicati nell’ultimo decennio in Italia direi il suo Mercanti d’aura».
L’ultima nostra domanda riguarda uno scenario complicato, ma come in un film di fantascienza ti chiediamo di immaginare un mondo culturale (italiano, ad esempio) in cui il ministro dei beni culturali di turno, rendendosi conto del fatto che non è più possibile emettere un giudizio di valore assoluto, basato sulla superiorità tecnica o culturale, decida di eliminare qualsiasi fondo pubblico destinato alle arti contemporanee. Cosa pensi potrebbe accadere?
«Nel 2013 è uscito un libro che probabilmente già conoscete, scritto da quattro autori tedeschi (il sociologo D. Haselbach, lo storico dell’arte A. Klein, l’economista S. Opitz e il manager P. Knϋsel) e intitolato Kulturinfarkt che immagina più o meno questo stesso scenario. In Italia è stato pubblicato da Marsilio, munito del sottotitolo Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura?. Sembra una roba ultraliberista, in realtà è una provocazione: non si sostiene di dovere azzerare i fondi pubblici, ma si mette più che altro in discussione l’ideologia della cultura come cura a tutto, quella della cosiddetta classe creativa che dice che con la cultura si mangia. Non credo cambierebbe granché se l’Italia decidesse di azzerare i finanziamenti all’arte contemporanea. A livello museale almeno, non mi sembra che la programmazione delle grandi strutture pubbliche si distingua tanto da quella delle fondazioni private: gli artisti più influenti di oggi e di domani passano per il Madre così come per la fondazione Prada, ed è davvero complicato dire dove finisca l’azione dello Stato e dove invece incominci quella del mercato, o viceversa, e in che misura l’una influenzi l’altra. Proprio per questo motivo, in Italia non ha senso avere così tanti musei statali dedicati all’arte contemporanea: sarei per una riallocazione della spesa pubblica verso altri settori (su tutti il patrimonio artistico, architettonico e paesaggistico), e sul mantenimento di 2-3 poli del contemporaneo dove però la ricerca e la programmazione siano il più possibile autonome da necessità di investimento o mercato. Dove cioè si tratti l’arte per ciò che è: una forma di spreco.
A dirla tutta, non credo cambierebbe granché in generale: oggi c’è un nuovo artista che produce contenuti gratuitamente (o quasi, in un senso o nell’altro: spesso ci rimette) a cadenza quotidiana, il cosiddetto prosumer, cioè al tempo stesso produttore e consumatore di contenuti per la piattaforma che gli garantisce visibilità. Su Instagram, per esempio, si trovano tantissimi artisti che hanno più o meno séguito, ed è difficile dire quanti di loro godano di aiuti pubblici e in che misura, ma poco importa: può sembrare assurdo, ma il prestigio sociale dell’artista e dell’intellettuale non è mai stato così alto come oggi. Lo è proprio perché in molti siamo disposti a sprecare tempo e denaro, a erodere poco a poco capitali familiari e welfare pubblico, pur di ottenere quella visibilità e quel riconoscimento autoriale che ci distinguerebbe dal resto della massa degli anonimi lavoratori produttivi. Parafrasando Raffaele Alberto Ventura che a sua volta parafrasa Gianni Morandi: ”uno su mille ce la fa e tutti gli altri sono classe disagiata”. Insomma, se dovessero azzerare i fondi pubblici per il contemporaneo, sono certo si leverebbe il grido indignato di chi crede o vuol far credere che con la cultura si mangi – e sarebbe senz’altro uno spasso – dopodiché tutto rimarrebbe pressoché invariato».
Nel museo non ci sono muse
Un dialogo tra Montecristo Project (Enrico Piras, Alessandro Sau) e Vittorio Parisi pubblicato sul numero 112 di Insideart
[ITA] Le domande di solito non le fanno gli artisti. Di solito, almeno in queste pagine, gli artisti sono quelli che rispondono. Questa volta invece è diverso, a mettere il punto interrogativo alla fine della frase sono due autori, Enrico Piras e Alessandro Sau, componenti del duo Montecristo Project. Dall’altra parte della scrivania Vittorio Parisi, insegnante di estetica al dipartimento di Arts plastiques dell’Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne. Un botta e risposta incentrato sull’istituzione museale, usato dal duo come supporto teorico per il nuovo dipartimento di Montecristo Project, lo spazio UU.
Caro Vittorio, innanzitutto grazie per aver accettato questa intervista, il tema principale su cui ruoterà è il museo. Iniziamo da una nomina che ha fatto molto parlare: l’uomo di spettacolo Luca Bizzarri come nuovo presidente di Palazzo Ducale a Genova. Che ne pensi?
«Dunque, la nomina di Luca Bizzarri mi sembra una cosa talmente poco ortodossa e poco convenzionale (non nel senso di out of the box, o disruptive, come direbbero gli anglosassoni per sottolineare una cosa controversa ma positiva), una cosa davvero improbabile e balzana che un po’ mi sento a disagio nel manifestare una perplessità ovvia, ampiamente condivisa e tendente allo sgomento o alla risata isterica. A Palazzo Ducale quello del presidente non è un ruolo simbolico, ma esecutivo, credo che Luca Bizzarri avrà voce in capitolo tanto sulla gestione quanto sulla programmazione dell’istituto: quindi, che dire? Si fosse trattato di un gesto situazionista, una specie di trolling da parte di un’amministrazione illuminata nei confronti della sacralità del museo/galleria come istituzione, avrei applaudito alla scelta con vivo entusiasmo. Ma non è il caso, almeno stando al commento del sindaco di Genova: ”una scelta strategica che renderà Palazzo Ducale più pop”. Insomma, loro sono convinti che sia proprio una scelta out of the box, in realtà è perfettamente in linea con la lunga, inesorabile popificazione della cultura in Italia, a cui d’altronde è perfettamente allineata la politica ministeriale di cercare direttori di museo sempre più manager e sempre meno scholar. Ora, se dallo scholar si passa al manager e dal manager al personaggio televisivo (per intenderci, quello che porta visibilità e contatti), mi sembra che la distruzione del museo si stia definitivamente compiendo. Dispiace solo che ciò non stia accadendo alla maniera dei futuristi: il museo in realtà è sempre lì, a dirci cosa è degno di attenzione istituzionale e cosa no. Detto ciò, Luca Bizzarri mi sta anche simpatico e sinceramente gli auguro di smentire tutti, me in primis».
Nella tua risposta ci sono già disparati punti di riflessione. Partiamo dall’ultimo, dal buon vecchio Marinetti. Se il nostro tempo manifesta a parole slanci d’amore per arte e cultura, nella pratica compie una pacifico atto di ‘’distruzione’’ continuo che avrebbe fatto sbiancare i futuristi. In nome del guadagno il museo si sta trasformando da tempio contenitore di opere sacre a mercato per turisti amanti del selfie. Ci piacerebbe interrogarti su queste due diverse forme di distruzione e la loro ricaduta simbolica.
«La sacralità dell’opera d’arte e del museo secondo me è solo apparentemente scalfita dalla presenza di turisti armati di cellulare che instagrammano in diretta quello che vedono (e io sono chiaramente uno di loro): il museo è anzitutto un contenitore di rapporti sociali, e penso lo sia sempre stato: andare al museo era ieri come oggi un modo di distinguersi culturalmente. Se prima però erano in pochi a poterselo permettere, nell’era dell’arte per tutti (cito il titolo di un saggio di Montale apparso in Auto da fé), chiunque può provare il brivido di sentirsi e farsi percepire più colto e impegnato.
Due cose, mi sembra, sono cambiate oggi.
La prima. Il museo, come giustamente dite, deve sfoggiare numeri da centro commerciale, perché in epoca di spending review è importante che il museo finga di avere una qualche utilità e sostenibilità economica. Questa è la cosa che, personalmente, mi crea più problemi: il ridicolo grido di battaglia con la cultura si mangia, che puntualmente esplode in bocca a quei quattro gatti che campano di commesse pubbliche e ci tengono a difendere la posizione. In realtà l’eccesso di cultura e d’arte che produciamo e consumiamo quotidianamente sono part maudite, sono soprattutto forme di spreco, e come tali andrebbero eventualmente sostenute da uno Stato – cosa che, per quanto mi riguarda, non è affatto obbligatoria, per questo sottolineo quell’ ”eventualmente”).
La seconda. Come dicevo in introduzione, la sacralità dell’opera d’arte nella nostra società è intatta. A essere mutata profondamente è l’idea di opera d’arte, così come l’idea di artista. Il concetto di autorialità è da secoli ormai tenuto in altissima considerazione nella nostra società, solo che si è progressivamente emancipato dal discorso qualitativo dell’opera d’arte (materiali, tecniche, stili, manifestazione di sentimenti, impegno politico) fino a divenire tautologico: un artista non è più un individuo dotato di particolare talento, un artista è semplicemente un artista, uno che ha facoltà di proclamarsi tale perché, da Beuys e compagnia bella in poi, ogni essere umano è un artista, a prescindere da ciò che fa e soprattutto da come lo fa. A fare il bello e il cattivo tempo è sempre e comunque l’artworld: sono cioè mercato e istituzioni a stabilire chi, tra quelli che si autoproclamano artisti, è degno di riconoscimento.
Tornando ai futuristi, essi non volevano distruggere i musei in quanto tali: volevano distruggere la sacralità, l’istituzione, il dispositivo che detta le regole. In altre parole, proprio ciò che oggi chiamiamo artworld. Oggi questo dispositivo è molto più forte di ieri, proprio perché indossa abiti più casual (il concept store, il lounge bar, il pop onnipresente, la mostra di Bjork al MoMA…e così via) e finge la caduta delle barriere tra l’arte e la vita di tutti i giorni. I veri iconoclasti, i futuristi e i marinettiani d’oggi sono quelli che distruggono i nuovi feticci, tipo il Maximo Caminero che fracassò a terra un vaso da un milione di dollari di Ai Weiwei. Mi auguro che di questi eroi se ne vedano sempre di più».
Sembra evidente, da ciò che dici, che se da un lato il museo mantiene il suo statuto di legittimazione di ciò che è arte e ciò che non lo è, dall’altro lo fa da una posizione puramente relativa, poiché siamo tutti artisti, ma alcuni, Orwellianamente, sono più artisti di altri. Negli ultimi decenni si è diffusa questa tendenza chiamata Institutional critique, una pratica che vuole minare lo statuto delle istituzioni (intese non solo come enti fisici, chiaramente) attraverso una pratica di riflessione e auto-critica del sistema verso se stesso; cosa ne pensi? Come vedi le pratiche, oggi così di moda, della decolonizzazione (parola che compare ormai nel 90% dei saggi Art-related) e il ruolo dei curatori in un contesto istituzionale così complesso? Possono essere parte, le stesse persone che formano l’istituzione, di una sostanziale decostruzione e autocritica delle istituzioni per cui operano?
«Provo a immaginare come potremmo ricordare tra una cinquantina d’anni (ma forse molto prima) questo lungo periodo di autocritica, decostruzione e decolonizzazione dell’artworld da parte di se stesso. L’arte che nasce dalla critica istituzionale sarà molto probabilmente considerata genere a sé, e soprattutto parte di un ancor più lungo, secolare processo di smaterializzazione e concettualizzazione dell’opera d’arte. Ci renderemo conto che quest’arte portava con sé la presunzione di poter essere di tutti e per tutti, specie per quei gruppi sociali più deboli che in teoria avrebbe voluto difendere: in realtà ha essa stessa svolto un’importante funzione di distinzione sociale, contribuendo a quello che Alessandro Dal Lago chiamerebbe mercato dell’aura, rimanendo accessibile solo a un certo tipo di spettatori (altamente scolarizzati e nelle possibilità di dedicare tempo a mostre e libri), e dipendente dal sostegno di grandi finanziatori, pubblici o privati. Per quanto mi riguarda, una vera critica dell’istituzione non può nascere in seno all’istituzione: è un modo che ha l’istituzione per lavarsi la coscienza, quello di far nascere in provetta moti di ribellione addomesticata, oppure di recuperare e addomesticare quelli già esistenti. Per decolonizzare (o de-occidentalizzare) l’istituzione, ad esempio, la ricetta è una sola, e molto semplice: l’istituzione dovrebbe sparire. Oppure bisogna mettersi l’anima in pace, e accettare che tutto ciò che passa per un museo o per una galleria è irrimediabilmente occidentalizzato, proprio perché la categorizzazione di certi oggetti in opere d’arte, la loro conservazione e il loro commercio sono dispositivi occidentali. Diverso è il caso per chi nasce e agisce al di fuori di un contesto istituzionale: fino a quando non viene cooptato dall’istituzione è l’unico a poter godere del privilegio dell’anti-istituzionalità e della controcultura».
Vorremmo ritornare alla tua precedente risposta. Come dici giustamente, il museo si lega prima di tutto alla sfera sociale, ed esiste proprio in questa logica comunitaria; rimane però il fatto che il contenuto sia e rimanga appunto una ‘’forma di spreco’’. Ora è proprio nella logica di un corpo sociale quello di razionalizzare il non-razionabile, di renderlo ‘’mansueto’’, di farne un luogo ‘’abitabile’’, socialmente condivisibile, e perché no, un mezzo di legittimazione culturale. In questo concordiamo pienamente, però è chiaro che il pericolo sia a questo punto quello di una malata prevalenza della prima polarità, razionale/sociale, su quella irrazionale/maledetta. Oggi c’è una parola, che in sé non ha alcun senso negativo, ma che spesso sentiamo ed è usata come un mantra (lo stesso si potrebbe dire per ‘’contemporaneità’’ o ‘’modernità’’) e che ci spaventa molto; questa parola forse nasconde il lato più ottuso e cieco dell’uomo del nostro tempo ed è ‘’professionalità’’. Giocosamente ti vorremmo chiedere tu ‘’come sei messo a professionalità’’?
«Credo di essere la persona meno professionale di questo mondo (malgrado abbia persino un ripugnante account su LinkedIn e di recente mi sia sforzato di aprire un sito web personale) perché fondamentalmente lavorare mi ha sempre annoiato a morte e competere per riuscire mi getta sin dalla più tenera età in uno stato d’angoscia che non sto a dirvi. In sostanza, sono uno molto pigro, che ama farsi i cavoli suoi in attesa che gli piovano le opportunità dal cielo, e anche per questo la vedo nera per me emergere in un mondo, quello del cosiddetto lavoro culturale, dove occorre essere spregiudicati come agenti di Wall Street per guadagnarsi – cosa poi? – un poco di visibilità e un misero panino quotidiano. Professionalità e arte, per quanto mi riguarda, non hanno nulla da spartire. Che non vuol dire che i veri artisti siano quelli che fanno la fame, o che prima di oggi non esistessero grandi artisti che fossero anche abili mercanti di se stessi. Adorno e Horkheimer fanno l’esempio di Beethoven nel capitolo sull’Industria culturale della Dialettica dell’Illuminismo:
”Beethoven mortalmente ammalato, che getta via un romanzo di Walter Scott esclamando: «Questo furfante scrive per denaro», e nello stesso tempo, ancora nello sfruttamento degli ultimi quartetti, che rappresentano il non plus ultra del rifiuto di ogni concessione al mercato, si rivela un uomo d’affari quanto mai esperto e ostinato, offre l’esempio più eloquente e più grandioso di questa unità degli opposti (mercato e autonomia) nell’arte borghese”.
Il problema della professionalità nell’arte riguarda in realtà quello, più ampio, della divisione del lavoro nella società capitalistica. Oggi più che divisione dovremmo dire estrema frammentazione, dovuta alla necessità che ciascuno di noi si iper-specializzi in qualcosa di molto preciso e circoscritto. Ciò è palese persino nel mondo della ricerca nelle scienze umane: si pensi a Luciano Canfora, una specie d’intellettuale e di studioso totale ormai in estinzione nelle università, via via sostituito da una massa indefinita e sottopagata di accademici espertissimi in questioni sempre più minuziose, cui però non è consentito muoversi oltre quegli angustissimi confini intellettuali.
Nel mondo dell’arte questo processo è ovviamente iniziato con l’istituzione del museo, della galleria, del salon, della fiera… Finché il concetto di professionalità si riduce al fatto di esporre degli artisti che ancora riescono a dare liberamente esito alle loro intuizioni, al loro slancio poetico, si può dire che esso sia in un certo senso innocuo. Il problema è quando l’essere professionale si sostituisce all’intuizione dell’artista, alla sua autonomia: cioè quando, per campare, il Beethoven di turno deve necessariamente concedere qualcosa, se non tutto, al mercato. Professionalità è sapere di dover produrre arte in un certo modo, allestire una mostra in un certo modo, scrivere un testo di catalogo in un certo modo: un certo modo dettato dalle necessità di mercato, s’intende.
La comparsa del curatore (e il fatto che ormai in tutte le scuole d’arte si possa anche studiare per diventare curatori) mi sembra uno dei passaggi più evidenti nel processo di professionalizzazione del mondo dell’arte: il curatore media tra le pretese del museo e l’autonomia dell’artista, sa come allestire la mostra, come promuoverla, come scrivere un testo in maniera catchy, e via discorrendo».
Dalle tue risposte ci sembra chiaro come la tua formazione di intellettuale abbia in parte radice in quella straordinaria riflessione che parte dalla filosofia di Marx e trova poi un approfondimento in campo estetico in altri giganti del pensiero quali Adorno, Horkheimer, Benjamin, Lukàcs, Hauser e altri ancora. Personalmente troviamo che questa prospettiva estetica rimanga ancora la più fruttuosa e intelligente per capire il nostro mondo e il futuro più prossimo. Vorremmo allora chiederti quali secondo te sono i testi più significativi per comprendere la condizione odierna dell’arte e quali appunto i testi che tutti ‘’gli addetti ai lavori del mondo dell’arte’’ dovrebbero conoscere e perché.
«Penso che gli autori da voi citati siano ancora estremamente utili per comprendere il mondo dell’arte di oggi. Ogni volta che rileggo l’Adorno di Teoria Estetica, per esempio, mi sembra che sul rapporto tra arte, capitalismo e media di massa sia tutt’oggi difficile superarlo in lucidità. Sicuramente è ancora il mio primo punto di riferimento. Restando su Francoforte, e dando per scontata l’importanza, sempre attuale a mio avviso, di testi come il capitolo sull’industria culturale nella Dialettica dell’Illuminismo, o il Benjamin de L’opera d’arte ai tempi della sua riproducibilità tecnica, negli ultimi anni mi è capitato di leggere un testo poco conosciuto di Marcuse, La dimensione estetica. Qui si promuove l’indipendenza dei contenuti dell’opera d’arte rispetto alle questioni sociali, politiche ed economiche, e trovo ciò alquanto utile, perché rimette l’accento sul valore della sensualità nell’opera d’arte come veicolo di rivoluzione, in un’epoca (il testo è del 1977) in cui si assiste al pieno fermento di quella che l’Adorno estetico aveva già definito disartizzazione dell’arte, e che riguarda sia la riduzione dell’arte a intrattenimento, sia la sua smaterializzazione e concettualizzazione.
Sull’odierno versante francese direi Jacques Rancière, in particolare Le spectateur émancipé del 2008: tutto il decennio precedente era stato vampirizzato dalla cosiddetta estetica relazionale teorizzata da Nicolas Bourriaud, ennesimo proclama a favore della caduta delle barriere tra arte e vita, e soprattutto tra la figura dell’artista e quella dello spettatore. Ecco, Rancière ritiene che proprio questa volontà ostentata di annullare la distanza tra artista e spettatore, coinvolgendo quest’ultimo nei processi creativi del primo, sia illusoria e anzi un modo per rimarcare questa distanza. Lo segue a ruota Claire Bishop qualche anno più tardi, con Artificial Hells, altro libro che metto su questo scaffale ideale, anche lei criticando tutte le menate sull’arte partecipativa di cui ancora non siamo riusciti a liberarci. Mi capita spesso di chiedermi quali siano le reali ragioni per cui si sia tanto insistito – e si continui a insistere – sul coinvolgimento dello spettatore nell’attività dell’artista: penso che tutta questa smania per la inclusiveness sia dovuta sempre alla cattiva coscienza istituzionale di cui parlavamo prima. Ma ciò rientra a pieno titolo in una delle possibili definizioni di kitsch, per lo meno mi fa pensare a quella proposta da Kundera: la necessità di negare la merda, di occultare a tutti i costi le gerarchie che da sempre scolpiscono il mondo, non ultimo quello dell’arte. Coinvolgendo lo spettatore l’istituzione (incarnata dall’artista) finge di azzerare la distanza tra sé e quest’ultimo. Marcuse direbbe che è una forma di tolleranza repressiva, io ci vedo anche un po’ di schizofrenia, e su questo punto in particolare trovo molto lucido il Boris Groys di In the flow, dove si sottolinea come il mondo dell’arte di oggi sia diviso tra la volontà di dichiarare l’opera d’arte un oggetto o una pratica o un’esperienza qualunque, pari agli altri oggetti e alle altre pratiche, ma al tempo stesso esso continui nei fatti ad attribuirvi un carattere sacro, da preservare e da esporre. Insomma, da distinguere rispetto a tutto il resto.
Tra gli italiani, penso che il contributo più importante rimanga ancora quello di Umberto Eco durante i Sessanta, e che Opera aperta abbia radicalmente trasformato il nostro modo di pensare e commentare l’opera d’arte. Tuttavia, cercando un libro che mi abbia marcato particolarmente, direi che è L’uomo senza contenuto di Agamben, dove tra l’altro sono trattati i due argomenti su cui si è mossa questa nostra discussione: il museo, e la distinzione tra l’artista e lo spettatore. Credo di aver già citato Alessandro Dal Lago nella risposta alla domanda precedente: ecco, tra i testi pubblicati nell’ultimo decennio in Italia direi il suo Mercanti d’aura».
L’ultima nostra domanda riguarda uno scenario complicato, ma come in un film di fantascienza ti chiediamo di immaginare un mondo culturale (italiano, ad esempio) in cui il ministro dei beni culturali di turno, rendendosi conto del fatto che non è più possibile emettere un giudizio di valore assoluto, basato sulla superiorità tecnica o culturale, decida di eliminare qualsiasi fondo pubblico destinato alle arti contemporanee. Cosa pensi potrebbe accadere?
«Nel 2013 è uscito un libro che probabilmente già conoscete, scritto da quattro autori tedeschi (il sociologo D. Haselbach, lo storico dell’arte A. Klein, l’economista S. Opitz e il manager P. Knϋsel) e intitolato Kulturinfarkt che immagina più o meno questo stesso scenario. In Italia è stato pubblicato da Marsilio, munito del sottotitolo Azzerare i fondi pubblici per far rinascere la cultura?. Sembra una roba ultraliberista, in realtà è una provocazione: non si sostiene di dovere azzerare i fondi pubblici, ma si mette più che altro in discussione l’ideologia della cultura come cura a tutto, quella della cosiddetta classe creativa che dice che con la cultura si mangia. Non credo cambierebbe granché se l’Italia decidesse di azzerare i finanziamenti all’arte contemporanea. A livello museale almeno, non mi sembra che la programmazione delle grandi strutture pubbliche si distingua tanto da quella delle fondazioni private: gli artisti più influenti di oggi e di domani passano per il Madre così come per la fondazione Prada, ed è davvero complicato dire dove finisca l’azione dello Stato e dove invece incominci quella del mercato, o viceversa, e in che misura l’una influenzi l’altra. Proprio per questo motivo, in Italia non ha senso avere così tanti musei statali dedicati all’arte contemporanea: sarei per una riallocazione della spesa pubblica verso altri settori (su tutti il patrimonio artistico, architettonico e paesaggistico), e sul mantenimento di 2-3 poli del contemporaneo dove però la ricerca e la programmazione siano il più possibile autonome da necessità di investimento o mercato. Dove cioè si tratti l’arte per ciò che è: una forma di spreco.
A dirla tutta, non credo cambierebbe granché in generale: oggi c’è un nuovo artista che produce contenuti gratuitamente (o quasi, in un senso o nell’altro: spesso ci rimette) a cadenza quotidiana, il cosiddetto prosumer, cioè al tempo stesso produttore e consumatore di contenuti per la piattaforma che gli garantisce visibilità. Su Instagram, per esempio, si trovano tantissimi artisti che hanno più o meno séguito, ed è difficile dire quanti di loro godano di aiuti pubblici e in che misura, ma poco importa: può sembrare assurdo, ma il prestigio sociale dell’artista e dell’intellettuale non è mai stato così alto come oggi. Lo è proprio perché in molti siamo disposti a sprecare tempo e denaro, a erodere poco a poco capitali familiari e welfare pubblico, pur di ottenere quella visibilità e quel riconoscimento autoriale che ci distinguerebbe dal resto della massa degli anonimi lavoratori produttivi. Parafrasando Raffaele Alberto Ventura che a sua volta parafrasa Gianni Morandi: ”uno su mille ce la fa e tutti gli altri sono classe disagiata”. Insomma, se dovessero azzerare i fondi pubblici per il contemporaneo, sono certo si leverebbe il grido indignato di chi crede o vuol far credere che con la cultura si mangi – e sarebbe senz’altro uno spasso – dopodiché tutto rimarrebbe pressoché invariato».