UU - The artist as director
Una mostra sbagliata
Lorenza Boisi, Ugo Ugo, Montecristo Project
2017
[ITA] UU è la prima mostra di un nuovo progetto di Montecristo Project, che unisce allo spazio sull'isola una nuova dimensione che si servirà di vari contesti naturali e architettonici. La scelta di contestualizzare la prima mostra di UU nel giardino del nostro studio, e di fotografarla con uno specifico taglio, affollato ed apparentemente caotico, è nata dall'osservazione delle immagini di documentazione di alcune mostre delle avanguardie del novecento. Si tratta, in realtà, di alcune tra le prime fotografie di esposizioni d'arte; immagini che se risultano oggi affascinanti e anomale è anche a causa della loro ingenuità rispetto alla costruzione minimal-manierata secondo cui si costruisce oggi la documentazione di qualsiasi mostra che si rispetti. Queste fotografie mostrano due aspetti che ci hanno incuriositi: il primo è quello legato al contenuto che osserviamo: esposizioni con un sovraffollamento di opere, ambienti poco fotogenici, molto lontani dall'estetica corrente del white cube, piante (ancora in veste di piante e non di opere), cavi e tubi che attraversano lo spazio. Errori, li definiremmo visitando oggi una qualsiasi galleria o museo, dal momento che lo spazio non può più prescindere da canoni ben precisi, ad esempio non si possono più includere oggetti che interferiscano con i lavori presentati, rischiando che vengano loro stessi scambiati per opere d'arte. Il secondo aspetto che ci ha interessati è quello più propriamente tecnico, caratterizzato da tagli fotografici strampalati o più semplicemente piatti; si nota una certa difficoltà nel maneggiare fotograficamente il rapporto tra opera e spazio, ma anche un'impressione di grande vitalità e forza visiva, che deriva però più dalle opere che dallo spazio, in termini inversi rispetto a quanto accade oggi. Nella documentazione più recente di mostre d'arte contemporanea di nota una sempre maggiore consapevolezza del ruolo dello spazio, che nell'installation shot risulta sempre di più un fattore rispetto al lavoro stesso, non solo attraverso ambienti asettici o white cubes, ma anche attraverso uno spostamento verso ambienti esterni e naturali che servono a incorniciare l'opera ed amplificarla visivamente. Osservando queste fotografie abbiamo iniziato a pensare come riportare nelle nostre immagini questo tipo di atmosfera, ma è stato riflettendo sui contesti espositivi che abbiamo cercato una risposta. Se escludiamo i Salòn, gli ambienti che ospitano queste mostre sono spesso scuole, laboratori o giardini privati; prima ancora che ambienti espositivi erano ambienti di produzione delle opere e questo influenza in vari modi le fotografie. Osservando immagini dello studio di Brancusi, Picasso, Bonnard, Giacometti (in quello stereotipo che Buren nel suo testo “The function of the studio” definisce come prototipo parigino dello studio d'artista) ritroviamo atmosfere molto simili ed altrettanto caotiche ed affascinanti. È stato a partire da questi elementi che abbiamo deciso di comporre la mostra secondo un allestimento particolarmente carico e servendoci come ambiente di esposizione del giardino del nostro studio, includendo nelle immagini diverse opere, creando per loro supporti e cavalletti che sono a loro volta opere ed inserendo gli alberi, la terra e un pavimento tutt'altro che asettico nell'immagine, ad interferire con le opere. Se osserviamo infine questa mostra come progetto curatoriale c’è un altro elemento di cui tenere conto: in quanto sia artisti che direttori, tutti e quattro gli artisti in mostra hanno un contatto più diretto e privilegiato con lo spazio dello studio che con contesti espositivi ed organizzativi privati o istituzionali. Il giardino dello studio è in questo caso un punto di incontro, il luogo ideale per un'esposizione conviviale, non professionale; questa natura è implicita nella nostra scelta. Lo studio è per gli artisti lo spazio degli esperimenti e degli errori, la casa delle opere e del linguaggio.
[ENG] UU is the first of a new series of exhibitions by Montecristo Project, which will combine the space on the island with a new dimension that will make use of various natural and architectural contexts. The choice to place the first UU exhibition in the garden of our studio, and to photograph it with a specific, crowded and apparently chaotic cut, was born from the observation of the documentation images of some exhibitions of the twentieth century avant-gardes. These are some of the first photographs of art exhibitions; images that, if they are today fascinating and anomalous, are also due to their naivety with respect to the minimal-mannered construction according to which the documentation of any self-respecting exhibition is built today.
These photographs show two aspects that have intrigued us: the first is linked to the content we observe: exhibitions with an overcrowding of works, not very photogenic environments, very far from the current aesthetics of the white cube, plants (still as plants and not as artworks), cables and pipes that cross the space. Errors, we would define them by visiting any gallery or museum today, since space can no longer be separated from very specific canons, for example it is no longer possible to include objects that interfere with the works presented, risking that they themselves will be mistaken for works of art.
The second aspect that interested us is the more strictly technical one, characterized by bizarre photographic cuts or more simply flat; there is a certain difficulty in photographically handling the relationship between work and space, but also an impression of great vitality and visual strength, which derives, however, more from the works than from the space, in reverse terms compared to what happens today. In the most recent documentation of contemporary art exhibitions there is an ever increasing awareness of the role of space, which in the installation shot is more and more a factor than the work itself, not only through aseptic environments or white cubes, but also through a moving towards external and natural environments that serve to frame the work and visually amplify it. Observing these photographs we began to think about how to bring this type of atmosphere into our images, but it was by reflecting on the exhibition contexts that we sought an answer. If we exclude the Salòn, the environments that host these exhibitions are often schools, workshops or private gardens; even before the exhibition environments were production environments for the works and this influences the photographs in various ways. Observing images of the studio of Brancusi, Picasso, Bonnard, Giacometti (in that stereotype that Buren in his text “The function of the studio” defines as the Parisian prototype of the artist's studio) we find very similar atmospheres and just as chaotic and fascinating. It was on the basis of these elements that we decided to compose the exhibition according to a particularly loaded layout and using it as an exhibition environment in the garden of our studio, including various works in the images, creating for them supports and easels which are in turn works and inserting trees, earth and a floor that is anything but aseptic in the image, to interfere with the works. Finally, if we look at this exhibition as a curatorial project, there is another element to take into account: as both artists and directors, all four artists on show have a more direct and privileged contact with the studio space than with exhibition contexts and private or institutional organizations. In this case, the studio garden is a meeting point, the ideal place for a convivial, non-professional exhibition; this nature is implicit in our choice. The studio is for artists the space of experiments and errors, the home of works and language.
UU - The artist as director
Una mostra sbagliata
Lorenza Boisi, Ugo Ugo, Montecristo Project
2017
[ITA] UU è la prima mostra di un nuovo progetto di Montecristo Project, che unisce allo spazio sull'isola una nuova dimensione che si servirà di vari contesti naturali e architettonici. La scelta di contestualizzare la prima mostra di UU nel giardino del nostro studio, e di fotografarla con uno specifico taglio, affollato ed apparentemente caotico, è nata dall'osservazione delle immagini di documentazione di alcune mostre delle avanguardie del novecento. Si tratta, in realtà, di alcune tra le prime fotografie di esposizioni d'arte; immagini che se risultano oggi affascinanti e anomale è anche a causa della loro ingenuità rispetto alla costruzione minimal-manierata secondo cui si costruisce oggi la documentazione di qualsiasi mostra che si rispetti. Queste fotografie mostrano due aspetti che ci hanno incuriositi: il primo è quello legato al contenuto che osserviamo: esposizioni con un sovraffollamento di opere, ambienti poco fotogenici, molto lontani dall'estetica corrente del white cube, piante (ancora in veste di piante e non di opere), cavi e tubi che attraversano lo spazio. Errori, li definiremmo visitando oggi una qualsiasi galleria o museo, dal momento che lo spazio non può più prescindere da canoni ben precisi, ad esempio non si possono più includere oggetti che interferiscano con i lavori presentati, rischiando che vengano loro stessi scambiati per opere d'arte. Il secondo aspetto che ci ha interessati è quello più propriamente tecnico, caratterizzato da tagli fotografici strampalati o più semplicemente piatti; si nota una certa difficoltà nel maneggiare fotograficamente il rapporto tra opera e spazio, ma anche un'impressione di grande vitalità e forza visiva, che deriva però più dalle opere che dallo spazio, in termini inversi rispetto a quanto accade oggi. Nella documentazione più recente di mostre d'arte contemporanea di nota una sempre maggiore consapevolezza del ruolo dello spazio, che nell'installation shot risulta sempre di più un fattore rispetto al lavoro stesso, non solo attraverso ambienti asettici o white cubes, ma anche attraverso uno spostamento verso ambienti esterni e naturali che servono a incorniciare l'opera ed amplificarla visivamente. Osservando queste fotografie abbiamo iniziato a pensare come riportare nelle nostre immagini questo tipo di atmosfera, ma è stato riflettendo sui contesti espositivi che abbiamo cercato una risposta. Se escludiamo i Salòn, gli ambienti che ospitano queste mostre sono spesso scuole, laboratori o giardini privati; prima ancora che ambienti espositivi erano ambienti di produzione delle opere e questo influenza in vari modi le fotografie. Osservando immagini dello studio di Brancusi, Picasso, Bonnard, Giacometti (in quello stereotipo che Buren nel suo testo “The function of the studio” definisce come prototipo parigino dello studio d'artista) ritroviamo atmosfere molto simili ed altrettanto caotiche ed affascinanti. È stato a partire da questi elementi che abbiamo deciso di comporre la mostra secondo un allestimento particolarmente carico e servendoci come ambiente di esposizione del giardino del nostro studio, includendo nelle immagini diverse opere, creando per loro supporti e cavalletti che sono a loro volta opere ed inserendo gli alberi, la terra e un pavimento tutt'altro che asettico nell'immagine, ad interferire con le opere. Se osserviamo infine questa mostra come progetto curatoriale c’è un altro elemento di cui tenere conto: in quanto sia artisti che direttori, tutti e quattro gli artisti in mostra hanno un contatto più diretto e privilegiato con lo spazio dello studio che con contesti espositivi ed organizzativi privati o istituzionali. Il giardino dello studio è in questo caso un punto di incontro, il luogo ideale per un'esposizione conviviale, non professionale; questa natura è implicita nella nostra scelta. Lo studio è per gli artisti lo spazio degli esperimenti e degli errori, la casa delle opere e del linguaggio.
[ENG] UU is the first of a new series of exhibitions by Montecristo Project, which will combine the space on the island with a new dimension that will make use of various natural and architectural contexts. The choice to place the first UU exhibition in the garden of our studio, and to photograph it with a specific, crowded and apparently chaotic cut, was born from the observation of the documentation images of some exhibitions of the twentieth century avant-gardes. These are some of the first photographs of art exhibitions; images that, if they are today fascinating and anomalous, are also due to their naivety with respect to the minimal-mannered construction according to which the documentation of any self-respecting exhibition is built today.
These photographs show two aspects that have intrigued us: the first is linked to the content we observe: exhibitions with an overcrowding of works, not very photogenic environments, very far from the current aesthetics of the white cube, plants (still as plants and not as artworks), cables and pipes that cross the space. Errors, we would define them by visiting any gallery or museum today, since space can no longer be separated from very specific canons, for example it is no longer possible to include objects that interfere with the works presented, risking that they themselves will be mistaken for works of art.
The second aspect that interested us is the more strictly technical one, characterized by bizarre photographic cuts or more simply flat; there is a certain difficulty in photographically handling the relationship between work and space, but also an impression of great vitality and visual strength, which derives, however, more from the works than from the space, in reverse terms compared to what happens today. In the most recent documentation of contemporary art exhibitions there is an ever increasing awareness of the role of space, which in the installation shot is more and more a factor than the work itself, not only through aseptic environments or white cubes, but also through a moving towards external and natural environments that serve to frame the work and visually amplify it. Observing these photographs we began to think about how to bring this type of atmosphere into our images, but it was by reflecting on the exhibition contexts that we sought an answer. If we exclude the Salòn, the environments that host these exhibitions are often schools, workshops or private gardens; even before the exhibition environments were production environments for the works and this influences the photographs in various ways. Observing images of the studio of Brancusi, Picasso, Bonnard, Giacometti (in that stereotype that Buren in his text “The function of the studio” defines as the Parisian prototype of the artist's studio) we find very similar atmospheres and just as chaotic and fascinating. It was on the basis of these elements that we decided to compose the exhibition according to a particularly loaded layout and using it as an exhibition environment in the garden of our studio, including various works in the images, creating for them supports and easels which are in turn works and inserting trees, earth and a floor that is anything but aseptic in the image, to interfere with the works. Finally, if we look at this exhibition as a curatorial project, there is another element to take into account: as both artists and directors, all four artists on show have a more direct and privileged contact with the studio space than with exhibition contexts and private or institutional organizations. In this case, the studio garden is a meeting point, the ideal place for a convivial, non-professional exhibition; this nature is implicit in our choice. The studio is for artists the space of experiments and errors, the home of works and language.